domenica 28 febbraio 2010

Quando la confusione diventa la regola



L’accorpamento di più materie in un’unica disciplina alle scuole superiori è la vittoria della didattica fondata sul mito della "complessità". Peccato non si vada al di là delle teorie astruse. Con truffa ideologica incorporata

Bisogna dare atto all’associazione di insegnanti Diesse di aver colto un aspetto nevralgico della riforma dei licei. «Chi si incaponisse - si legge nella loro newsletter - sull’allarme per la riduzione delle ore di lezione e quindi delle cattedre dimostrerebbe di non rendersi conto che qualcosa si muove più in profondità», ovvero che nella riforma hanno influito «diverse suggestioni di stampo pedagogico, tali da non rendere per nulla neutro il passaggio dal vecchio al nuovo ordinamento». Il riferimento è al modo in cui è stato ristrutturato l'insegnamento delle scienze nei licei tecnici e professionali, dove si affacciano le nuove «Scienze integrate», intese come materia-sintesi di Scienze della terra, Biologia, Fisica e Chimica. In realtà, le Scienze integrate sono state introdotte in modo ambiguo perché negli indirizzi del biennio continuano a essere distinte in Fisica e Chimica. Questa scelta salomonica è frutto anche del netto dissenso espresso da tutte le massime associazioni del settore - Società italiana di fisica, Società chimica italiana, Consiglio nazionale dei chimici, Associazione per l’insegnamento della fisica, Associazione insegnanti chimici - che hanno stigmatizzato la materia «polpettone» in quanto inadatta a formare un’autentica cultura scientifica e anzi atta a contribuire alla «descientificizzazione» del sistema scolastico.
L’idea delle «scienze integrate» ha origine nel periodo del ministero Fioroni durante il quale impazzava l’idea di «complessità». Ad esempio, nella normativa del 2007, si prescriveva come «competenza» per l’asse scientifico-tecnologico il «riconoscere nelle sue (sic) varie forme i concetti di sistema e di complessità». Qualsiasi «competente» in materia sa che esistono parecchie definizioni di sistema; che non esiste una definizione comunemente accettata di «complessità»; che molti considerano le «teorie della complessità» come elucubrazioni vaghe e discutibili; che non pochi (anche autorevoli) le considerano pura e semplice cialtroneria. Il punto di partenza è l’affermazione che è in crisi il paradigma riduzionista e l’idea di «semplicità» della natura: occorre studiare la realtà nella sua «complessità» apprestando strumenti analitici adeguati. Il limite di questo approccio è che la scienza non può rinunciare a una qualche forma di riduzione a strutture semplici. Difatti, la radice dei suoi successi sta nel presupposto che il grado di complessità dei suoi concetti sia maggiore di quello dei fatti naturali, altrimenti tanto varrebbe limitarsi alle descrizioni puramente verbali. Comunque, tutto ciò è materia di una discussione apertissima ed è assurdo farne un asse concettuale dell’insegnamento, che deve sempre basarsi su teorie e metodi solidamente acquisiti e riconosciuti.
Al contrario, in un documento ministeriale del 3 marzo 2008 si individuava la teoria della complessità come nuovo asse formativo in sostituzione di quello classico. Partendo da una rozza definizione di sistema complesso come «composto da un gran numero di elementi che interagiscono tra di loro» (i documenti ministeriali non dovrebbero mai avventurarsi nell’epistemologia scientifica) si predicava che il riduzionismo era stato sostituito col concetto di «emergenza», ovvero l’emergere di «dinamiche d’insieme diverse da quelle delle singole parti». Seguiva una serie di affermazioni retoriche e inconsistenti sulla complessità che «rompe i confini delle scienze» e apre la via nientemeno che all’esplorazione del «territorio della multidimensionalità del reale»... Non basta: la scienza si sarebbe trasformata da sistema piramidale a «sistema a rete con correlazioni e nodi multipli». È maramaldesco osservare che, in un analogo documento, il riduzionismo piramidale si prendeva la rivincita con la seguente affermazione materialistica: «Nel nuovo paradigma della complessità le diverse discipline si presentano come un sistema a rete. Le più recenti ricerche sulle modalità di funzionamento dei nostri processi cerebrali individuano la natura costruttivistica e sociale del conoscere».
Piramide o no, è da chiedersi con quale diritto si meni scandalo se qualcuno propone di insegnare in modo critico - non di «non» insegnare, ma di insegnare in modo critico, ovvero scientifico - la teoria dell’evoluzione e poi si ritenga legittimo fondare un intero asse dell’istruzione su un’ideologia così unilaterale.
Troppe cose non vanno in questa costruzione. Non va la presentazione schematica e propagandistica della teoria della complessità, dando per buona la sua accettazione unanime nel mondo scientifico. Oggi la scienza è ancora largamente dominata dall’approccio riduzionista e molti sostengono che, in fin dei conti, le teorie della complessità ricorrono alle stesse metodologie che sono al cuore degli approcci tradizionali. Occorrerebbe rileggere i saggi del compianto Antonio Lepschy per capire quanto la materia sia «complessa» e controversa. Non ha fondamento presentare la scienza contemporanea come un sistema a rete basato sull’uso sistematico del concetto di «emergenza». Non ha fondamento sostenere che le ricerche sui processi cerebrali accreditino la natura costruttivistica del conoscere. Tantomeno è legittimo dare per scontato che si possano dedurre le forme della conoscenza dai processi cerebrali.
Se alla fine del percorso, la riduzione della libertà a «emergenza» ci regala il costruttivismo, ovvero una nuova versione di un meccanicismo materialistico negatore della creatività e libertà, per giunta gabellando un’ideologia per scienza, si ha il diritto di rispondere: «No, grazie». Ha ragione Gaetano Quagliariello a mettere in guardia contro «il tentativo di una sinistra costruttivista sconfitta per la quale la società doveva essere il paradiso in terra, di trasferire quello stesso costruttivismo nella vita dell’individuo», e facendo così rivivere la «mentalità del comunismo sotto mentite spoglie»; ed è legittimo ribadire l’idea che «la vita ha sempre la possibilità di meravigliarci, fino all’ultimo momento ed è su questo principio che basiamo la nostra libertà».
Ad ogni modo, insistiamo, tutta questa è ideologia, e non è lecito costruirvi sopra un asse formativo scolastico. Anche qui ha ragione Diesse a osservare che «solo l’esperienza dei docenti sul campo potrà portare contributi davvero “costruttivi”». È da augurarsi che questi contributi costruttivi consistano, nella pratica effettiva dell’insegnamento e avvalendosi della distinzione tra indirizzi nelle «scienze integrate», di vanificare un tentativo che può avere soltanto effetti distruttivi nella formazione di un’autentica cultura scientifica.
«Il Giornale» del 25 febbraio 2010

lunedì 22 febbraio 2010

Parlar per numeri? Soltanto un mezzuccio per ciarlatani

In Italia esiste una passione molto speciale per le statistiche. La ragione c’è. La statistica ha avuto un gran “patron”: il Duce. Mussolini era ossessionato dai numeri, in particolare da quelli che riguardavano la popolazione. L’Istituto Nazionale di Statistica fu la sua creatura prediletta e il suo presidente, il potentissimo Corrado Gini, aveva con lui un appuntamento fisso periodico per portargli e illustrargli tabelle su tabelle.
Oggi questa storica propensione è esaltata dalla tendenza mondiale a misurare tutto. Sembra che qualsiasi cosa sia più vera, più “oggettiva” se proposta in numeri. Non è così. La statistica è una scienza incerta, per qualcuno non è neppure una scienza ma un insieme di tecniche empiriche. Comunque i suoi risultati sono da prendere con cautela. Fino a che qualcuno spara che c’è il 48% di probabilità che entro 32 anni i ghiacciai si riducano del 97% si può riderci sopra, a condizione che non vengano assunte decisioni su simili basi. Ma quando si dice che nella tale città muoiono 7323 persone l’anno “a causa” dello smog, il sorriso si spegne e viene voglia di togliere la laurea, se ce l’ha, a chi parla così. Se poi si passa a stimare, sempre con precisione risibile, la probabilità di contrarre un dato tumore in presenza di una data anomalia genetica, e magari, su queste basi, si suggerisce a chi ha quell’anomalia l’asportazione della ghiandola mammaria, allora l’unica reazione possibile è l’indignazione. Perché un uso siffatto dei numeri è irresponsabile e persino criminale.
Oggi dilaga la parola “valutazione”. Si scrivono libri intitolati “la misurazione delle qualità”, si parla di misurare “in modo oggettivo” competenze, capacità, abilità e quant’altro, si progettano giganteschi istituti di valutazione “scientifica”. Disse il filosofo della scienza Georges Canguilhem: «non vi è scienza di un oggetto se questo oggetto non ammette la misura. Ogni scienza tende alla determinazione metrica attraverso la definizione di costanti o invarianti». Ebbene, l’unità di misura di qualità come la “competenza”, l’“abilità”, la “felicità” o il “dolore” semplicemente non esiste. Occorrerebbe quindi consigliare a chi ha il coraggio di parlare di “misurazione oggettiva delle qualità” di tacere definitivamente, se non altro per evitare di fare la figura del ciarlatano.
In un recente documento la International Mathematical Union e l’Institute of Mathematical Statistics – chi si intende di numeri più di costoro? – hanno denunciato l’«abuso» del ricorso ai numeri nella valutazione della ricerca scientifica. Hanno sostenuto che la credenza che il ricorso alla statistica sia più oggettivo dei giudizi verbali complessi è «infondata», che la pretesa oggettività dei numeri è «illusoria» e altamente intrisa di elementi soggettivi, per concludere: «I numeri non sono intrinsecamente superiori ai giudizi accurati».
A queste obiezioni si fanno orecchie da mercante perché questa numerologia è diventata un gigantesco affare attorno a cui brulica una legione di “esperti”, la cui unica competenza è quella di dare cifre, e poiché si trasmette come dogma di fede l’asserto che le cifre sono indiscutibili, questi “esperti” si collocano al disopra di ogni valutazione (numerica o no che sia). Per fortuna la crisi economica rende difficile espandere i carrozzoni con cui la corporazione degli “esperti” vorrebbe regolamentare la società ed estendere il proprio dominio dal campo dell’economia a quelli della salute, dell’istruzione, dell’ambiente, e anche della psicologia delle persone.  

(Avvenire, 21 febbraio 2010)

domenica 21 febbraio 2010

Le monstre sacré de la philosophie che cita le tesi di un pensatore borat


Jean-Baptiste Botul è un filosofo francese nato il 15 agosto 1896 e morto il 15 agosto 1947. Sorta di novello Socrate ha trasmesso le sue idee oralmente e non ha mai scritto nulla. Nel corso della sua vita ha peregrinato per ogni dove incontrando innumerevoli personaggi tra cui Pancho Villa, Stefan Zweig, Emiliano Zapata, Jean Cocteau, Simone de Beauvoir (di cui fu amante) e tanti altri. Il circolo dei suoi discepoli ne ha raccolto con zelo l’insegnamento orale e, ricostruendolo con lettere e altri frammenti scritti, ha pubblicato alcune opere botuliane. La prima, la più famosa, è La vita sessuale di Immanuel Kant, uscita nel 1999 per i tipi delle “Mille et une nuits” e tradotta in tedesco nel 2001 e poi anche in polacco. Nel 2001 è uscito il volume Landru, precursore del femminismo, una corrispondenza inedita tra Botul e il celebre serial killer. Poi nel 2002, Nietsche e il Demone del mezzogiorno, che è il testo di un’arringa difensiva davanti a un tribunale di conducenti di taxi dall’accusa aver subornato una ragazzina. Infine, nel 2007, il magistrale La metafisica del moscio. Da tutte queste opere emergono i lineamenti di un pensiero filosofico detto “botulismo”, al cui centro è la critica del pensiero di Kant. A dire di Botul, la filosofia di Kant è viziata dall’idea che i filosofi non si riproducono per penetrazione ma per contrazione.
Immagino che già il lettore si sarà reso conto che qualcosa non funziona. E infatti Botul non è mai esistito. È un’invenzione di Frédéric Pagès, giornalista del celebre periodico satirico francese “Le Canard Enchaîné”, il quale si deve essere divertito come un pazzo, fondando persino un’associazione di amici di Botul, NoDuBo (Noyau Dur Botulien, Nucleo Duro Botuliano) e istituendo il premio letterario Botul. Ma neanche lui immaginava di riuscire a prendere nella rete un pesce grosso come il mostro sacro della cultura parigina Bernard-Henri Lévy. Questi ha pubblicato il 10 febbraio un libro che – secondo l’editore – lo riporta alla sua “identità prima” di filosofo. Il titolo di questa grande “rentrée” filosofica è Della guerra in filosofia, definito un «libro-programma», un «manuale per età oscure, in cui l’autore mette le sue carte in tavola e dispone, cammin facendo, le pietre angolari di una futura metafisica». Insomma, nulla di meno dell’Aristotele del terzo millennio. BHL (com’è chiamato) se la prende soprattutto con Kant, definito come «un pazzo furioso del pensiero, un arrabbiato del concetto» e, per demolirlo, si basa sulle analisi di Botul che avrebbe definitivamente dimostrato «all’indomani della seconda guerra mondiale, nella sua serie di conferenze ai neokantiani del Paraguay, che il loro eroe era un falso astratto, un puro spirito di pura apparenza», «il filosofo senza corpo e senza vita per eccellenza».
Il solo riferimento ai neokantiani del Paraguay avrebbe dovuto insospettire per l’assonanza con i “gesuiti del Paraguay”. Ma che dire della settima conversazione del libro di Botul intitolata «Coito ergo sum» o della tesi secondo cui la metafisica di Kant si riduce al problema della masturbazione? BHL ha bevuto tutto senza neppure perdere cinque minuti su Internet per verificare.
Viene da dire con Flaiano che la situazione è grave ma non è seria. C’è da chiedersi con quali argomenti si possono convincere i giovani al rigore e alla serietà nello studio e a comportamenti eticamente corretti, se un “mostro sacro” della cultura si comporta in questo modo e qui da noi impazzano i copiatori di libri altrui che hanno la faccia di bronzo di giustificarsi sostenendo che il plagio è la forma più alta di pensiero.

(Tempi, 24 febbraio 2010)

sabato 13 febbraio 2010

Un nuovo libro in uscita


Vi fareste curare dal dottor House?

Non visita i pazienti, privilegia l’analisi e i test. Ritiene l’uomo una macchina da riparare ma rischia di perdere informazioni utili. Meglio l’approccio basato sulla persona proposto da Giorgio Israel
di Alessandro Gnocchi
Vorreste essere curati dal dottor House? Cioè da un genio a tutti gli effetti, il quale però teorizza l’inutilità di incontrarvi, tanto basta il metodo analitico supportato da un numero consistente di test, e quando decide di incontrarvi è solo per smascherare le vostre eventuali menzogne? O preferireste la dottoressa Cameron, ex «apprendista» del dottor House, che ha scelto il pronto soccorso e la pratica clinica, privilegiando il contatto col paziente?
Il che si può tradurre in questi termini, tagliando con l’accetta una materia in realtà densa di sfumature: meglio un approccio tutto scientifico o umanistico alla medicina? Giorgio Israel, docente di Storia della matematica presso l’Università di Roma «La Sapienza», non ha dubbi e infatti ha scritto Per una medicina umanistica. Apologia di una medicina che curi i malati come persone (Lindau, pagg. 98, euro 12; in uscita il 18 febbraio). Scelta di campo chiarissima. Meglio precisare subito che l’autore non rifiuta in toto l’approccio del dottor House e non ne mette in discussione i pregi. Tuttavia ne segnala i limiti e soprattutto collega gli uni e gli altri alla mentalità dominante, mettendo in luce le ricadute indesiderabili di una certa concezione della scienza.
Attraverso la riflessione sullo statuto della medicina, Israel prosegue il discorso già affrontato in altre sue opere sulla immagine oggi prevalente della scienza, quella meccanicista, e sulla svalutazione di tutte le attività intellettuali che non esibiscano, almeno all’apparenza, un fondamento di «verità oggettiva» (dove «verità oggettiva» deve «intendersi ciò che è garantito dal metodo delle “scienze esatte” a loro volta rappresentate dal modello delle scienze fisico-matematiche»).
Anche la medicina, soprattutto negli ultimi sviluppi tecno-genetici, si è incamminata lungo questa strada. Cosa che implica mettere da parte il singolo, il paziente, le sue impressioni soggettive ed enfatizzare tutto ciò che è «oggettivo». Vale a dire il fascicolo degli esami di laboratorio, le radiografie, le ecografie, le Tac, i test genetici: quello che disegna «in modo sempre più approfondito e minuzioso la geografia fisiopatologica del nostro corpo». Sia chiaro: quel pacco di carte è un trionfo della medicina occidentale. Ma non sempre è una «chiave incantata» per risolvere ogni problema.
Il medico infatti non dovrebbe rinunciare a guardare il paziente negli occhi. Non è una questione di compassione o bontà o sentimentalismo. L’abolizione del vissuto del malato è un errore a livello razionale. La pratica clinica può arrivare dove non arrivano gli esami o almeno integrarli saggiamente. Essa considera il modo in cui il paziente vive il suo stato, il suo «sentirsi malato», fattore che tra l’altro può influenzare anche i parametri «oggettivi». Se si sottrae a questo confronto, il dottore perde una grande quantità di informazioni.
Poi, naturalmente, ci sono le ricadute culturali della situazione descritta da Israel, molto ampie. Mano a mano che la medicina si trasforma in scienza esatta, si sviluppa una nuova immagine di uomo sempre più simile a una macchina. Il naturale è artificiale e viceversa. Basta dare un’occhiata fuori dalla finestra per verificare rapidamente quanto questa idea si sia imposta anche a livello popolare grazie alla tecnologia, in particolare quella digitale. Dal cervello macchina al cervello software, da scaricare in rete in un futuro che alcuni immaginano prossimo, la strada è tracciata e in molti la stanno percorrendo anche e soprattutto nella comunità scientifica. Questa visione, scrive Israel, porta dritto alla dissoluzione dell’identità e dell’individuo.
Se l’uomo è una macchina, la malattia è ciò che non rispetta i parametri del normale funzionamento, e la morte è la rottura definitiva. Ma «la macchina resta un oggetto la cui totalità è la somma delle parti», mentre l’uomo «non è un aggregato semplice di parti». Per essere una disciplina completa, la medicina deve per forza essere «qualcosa di più di una scienza puramente oggettiva» perché si occupa «di qualcosa che è molto di più di un mero oggetto materiale, di un uomo-macchina da riparare».
In fondo, è questo il rovello del dottor House, materialista tutto d’un pezzo spesso in preda a un dubbio di fondo (esemplare la quinta serie della fiction, con House sdoppiato causa schizofrenia incipiente): e se il materialismo tanto ostentato fosse solo una menzogna per non fare i conti con se stessi e per proteggersi da quello che non si sa spiegare o non si vuole ammettere perché ci fa soffrire orribilmente come i rapporti umani?
«Il Giornale» del 12 febbraio 2010



giovedì 11 febbraio 2010

Il ritorno dell’esame collettivo (ma col timbro dell’università)


La follia che sta facendo a pezzi il sistema educativo in Europa dilaga senza incontrare resistenze. In questa rubrica abbiamo raccontato vicende e decisioni deliranti prese in questo o quel paese dell’Unione. L’ultima della serie è questa. In Spagna, l’università di Siviglia ha introdotto una normativa sullo svolgimento degli esami scritti decretando che tutti gli studenti hanno il diritto di completare la prova di esame anche se durante lo svolgimento vengono sorpresi dall’insegnante a copiare. La questione verrà successivamente portata dinnanzi a una commissione di garanzia che deciderà, sulla base del reclamo dello studente, se il docente ha prove sufficienti che lo studente ha copiato oppure se ha ecceduto nel chiedere l’annullamento dello scritto. Il direttore della comunicazione dell’università ha giustificato la decisione dicendo che non era più accettabile che ogni professore seguisse criteri propri e che occorreva regolamentarne l’intervento di fronte a suggerimenti, al passaggio di foglietti o alla copiatura dei compiti mediante cellulare, chiarendo una volta per tutte che al docente è “proibito” sequestrare il telefono. Non solo: se il docente ritenesse di sequestrare fogli o altre prove della copiatura dovrebbe darne un verbale scritto allo studente affinché questi possa difendersi di fronte alla commissione. Il nuovo regolamento contiene altre cose amene, come l’abolizione di qualsiasi obbligo alla frequenza ai corsi: tutt’al più potrà essere premiato l’alunno che frequenta.
Confesso che mi mancano le parole e l’idea di argomentare contro un simile delirio mi provoca un senso di smarrimento, come se dovessi spiegare che per camminare si mette un piede davanti all’altro. Fortunatamente le reazioni che è dato leggere sui siti della stampa spagnola sono quasi unanimemente di sconcerto inorridito e di desolazione. Ma il sollievo è di breve durata. Difatti, subito dopo si legge la notizia che il ministro spagnolo dell’istruzione è sceso in campo in difesa dell’università di Siviglia sostenendo che la linea scelta è giusta perché occorre lavorare per realizzare «forme di esame che non dipendano da approcci mnemonici, dal copiare o dal non copiare»… «Spero – ha aggiunto – che troveremo delle formule di apprendimento sufficientemente innovatrici, di valutazione continua che non richiedano di fare esami convenzionali». Insomma, per evitare l’approccio mnemonico la soluzione è ricorrere alla memoria collettiva. «Non te lo ricordi tu? Allora te lo ricordo io, e quel che non ricordo io me lo ricordi tu». Così facciamo un bell’esame che non dipende dal copiare e non copiare. Come se la questione fosse soltanto di memoria (che pure non è da disprezzare). Se uno studente non sa risolvere un problema di matematica non è perché non lo “ricorda”, è perché non ha i mezzi e le capacità per risolverlo. Se scrive un tema pieno di errori di ortografia o sintassi non è perché gli manchi la memoria ma perché non ha gli elementi di base. Ma il signor ministro ha una grande idea: la valutazione continua senza “esami convenzionali”. Vecchia muffa demagogica di stampo sessantottino fritta e rifritta in salsa di didattica innovativa postmoderna. 
Negli Stati Uniti – dove pure le faccende dell’istruzione non vanno al meglio – copiare è considerato un atto immorale. Ed è giusto che sia così, perché dare prova delle proprie capacità in modo onesto è il dovere più importante di uno studente, in modo continuo o discreto che sia. In Europa, invece, impazza la demagogia e la dittatura degli esperti con il cappello d’asino. Chiedersi perché le cose vadano male è una pura perdita di tempo.



(Tempi, 11 febbraio 2010)

domenica 7 febbraio 2010

Se per Veronesi la fede oscura la ragione


 La filastrocca dell’incompatibilità tra scienza e religione sta diventando ripetitiva e provoca un senso di stanchezza. In certi casi, ormai il dialogo si rivela una pura perdita di tempo. Ma Umberto Veronesi è un uomo di grande levatura e pare impossibile che anche con lui si crei una simile incomunicabilità. Nessuno mette in discussione la legittimità di essere ateo o agnostico, tanto meno si può mancare di rispetto a una simile scelta, per esempio dicendo che l’ateismo impedisce di ragionare. Ma non è per una questione di galateo e di reciprocità che va evitata l’affermazione simmetrica: e cioè che la religione impedisce di ragionare. Va evitata semplicemente perché è falsa. Sarebbe falso affermare che l’ateismo impedisce di ragionare: basterebbe produrre l’esempio di tanti scienziati e pensatori atei che hanno ragionato e ragionano benissimo. È non meno falso affermare che la religione impedisce di ragionare e che scienza e fede non possono andare insieme. Anche in questo caso basterebbe una lista di scienziati credenti, gente che ragionava benissimo, senza cui la scienza neppure esisterebbe – una lista talmente lunga che una pagina di giornale non basterebbe a contenerla.
Non era forse un credente Keplero, al punto di motivare le sue leggi del moto planetario come espressione dell’armonia impressa dal Creatore al mondo? Spero a nessuno passi per la mente di dire che Galileo era ateo: se egli riservava alla mente umana lo studio della natura, lasciava il resto alla sfera religiosa. E che dire di Newton? Alla sua morte, venne scoperto un baule contenente una massa di manoscritti che rappresentava il 70% della sua produzione totale, dedicati all’alchimia ed alla teologia. In una memorabile conferenza letta nel 1946, il celebre economista John Maynard Keynes, che aveva acquistato all’asta questi manoscritti da tempo scomparsi – ora è disponibile in italiano il “Trattato sull’Apocalisse” –, diceva di essersi trovato di fronte all’«ultimo dei maghi» i cui «istinti più profondi erano occulti, esoterici», un «monoteista della scuola di Maimonide». Newton era un mistico, influenzato dal pensiero cabalistico, che portava queste sue convinzioni persino nella definizione di spazio (“sensorium Dei”). Non era forse un pensatore razionale? Senza la sua razionalità la scienza moderna semplicemente non esisterebbe.
La verità è che gli scienziati non credenti o atei sono stati sempre una ristretta minoranza. E questo persino nel periodo dell’Illuminismo francese, peraltro una breve parentesi dopo la quale di nuovo abbondano gli scienziati credenti, come Louis-Augustin Cauchy, cui certamente la religiosità non impedì di ragionare bene e di essere uno dei maggiori matematici dell’Ottocento.
Dice Veronesi che la religione è integralista mentre la scienza vive nel dubbio, nella ricerca della verità. Ma accoppiare la parola “integralista” alla religione è arbitrario. Essa si attaglia altrettanto bene a molti scienziati. Integralista è quella forma di religiosità che vede nel testo rivelato qualcosa di scritto direttamente dal dito di Dio e che va quindi preso alla lettera, in modo assolutamente testuale. Ma nell’ebraismo e nel cristianesimo le Sacre Scritture sono scritte da uomini e la rivelazione è mediata, per cui è fondamentale l’opera di interpretazione. L’esegesi biblica costituisce un’opera sterminata che ha accompagnato secoli di religiosità e che ha costituito una forma di pensiero razionale. Anzi, come è stato più volte osservato, questa attività di interpretazione ha rappresentato un esercizio di razionalità che ha favorito lo sviluppo dello spirito scientifico. Per spiegare (razionalmente) la presenza importante degli ebrei nella scienza moderna dopo la loro emancipazione, non occorre certamente evocare fattori razziali, ma proprio l’abitudine all’esercizio della ragione derivante dalla pratica intensa dell’esegesi biblica. I religiosi integralisti esistono certamente e li vediamo pullulare fra di noi, e spesso trucidare chi non crede alle loro verità, anche se curiosamente sono quelli verso cui si nutre la maggiore indulgenza. Ma esistono anche scienziati integralisti, quelli che si nutrono di un dogmatismo della scienza che si chiama “scientismo”, ovvero della pretesa senza fondamento che qualsiasi fatto possa essere ricondotto a una spiegazione basata sul metodo sperimentale o su un approccio matematico. Ma anche guardando al procedere della scienza si danno manifestazioni di dogmatismo. Il filosofo della scienza Thomas Kuhn, nel suo famosissimo “La struttura delle rivoluzioni scientifiche”, ha descritto la tendenza della scienza a cristallizzarsi attorno a un insieme di assunti (da lui detti “paradigma”) che la comunità ufficiale tende a difendere ad ogni costo, spesso con spirito dogmatico. Non sempre gli scienziati sono mossi dal bisogno di criticarsi e mettersi in gioco. Non di rado si chiudono in un atteggiamento di conservazione. Per cui il progresso della scienza spesso deve passare attraverso una rottura drammatica, un conflitto aperto di scienziati innovatori col paradigma dominante (la “rivoluzione scientifica”).
In conclusione, i dogmatici e le menti incapaci di ragionare liberamente esistono dappertutto. È inopportuno elevare contrapposizioni artificiose tra scienza e religione, che oltretutto non hanno alcun riscontro nella storia, e in particolare nella storia della scienza. Come disse Einstein, «la scienza senza religione è zoppa, la religione senza scienza è cieca». L’analisi razionale della natura è fondamentale, è lo sguardo che l’uomo porta verso il mondo che lo circonda; ma la scienza da sola non può sopportare il peso di tutte le richieste dell’uomo, in particolare delle domande che riguardano il senso del suo essere nel mondo o, se si vuole, di quella sfera che Kant chiamava il mondo morale e che sfugge a qualsiasi spiegazione naturalistica.



(Il Giornale, 5 febbraio 2010)