martedì 26 maggio 2015

Intervento scritto alla presentazione del libro di Giulio Ferroni "La scuola impossibile" - Roma 26 maggio 2015




È con molto dispiacere se, per motivi di salute, debbo rinunciare a una partecipazione diretta alla presentazione del libro di Giulio Ferroni La scuola impossibile, e se mi limiterò a proporre alcune considerazioni, ove sia possibile ascoltarne la lettura. Il dispiacere è dovuto non soltanto al fatto che si tratta di un libro di cui condivido completamente le tesi, ma anche al fatto che Giulio Ferroni è uno dei pochi intellettuali italiani che contrasta apertamente una deriva della scuola, senza timore delle strida degli adepti di un avvilente “politicamente corretto” che rappresenta in modo plateale l’infimo livello culturale e persino linguistico in cui è precipitata la tematica dell’istruzione.
Recentemente, il quotidiano francese Le Figaro osservava che nel recente rapporto del Consiglio Superiore dei programmi al Ministero dell’Educazione Francese si leggono definizioni del genere: «Lezione di nuoto in piscina: “Imparare a spostarsi in modo autonomo in un ambiente acquatico profondo e standardizzato”». E il quotidiano così commentava: «I pedagoghi che blaterano da 40 anni, sono responsabili della lenta agonia della nostra scuola. Non più luogo sacro dove si trasmette la conoscenza ma, come dice il rapporto, «un self service dove si passa per approfittare di un clima di fiducia».
Il fatto curioso è che, se certa pedagogia porta queste responsabilità, oggi essa non riesce neanche a godere di questo trionfo, ma subisce una progressiva emarginazione. Delle tesi che essa ha introdotto – la trasformazione dell’insegnante in “facilitatore”, la trasformazione della scuola della conoscenza in scuola delle “competenze” (un concetto fumoso che trova cento definizioni diverse), l’autoformazione, il successo formativo garantito, e tante altre che non sto a elencare – si è riappropriata un’amministrazione ministeriale avida di controllo centralizzato che le impone a scuole e insegnanti sotto la forma di circolari dal triste linguaggio burocratico. È poi subentrato un nuovo attore che ha soppiantato rapidamente i pedagogisti e cioè il cosiddetto “economista dell’istruzione”, per lo più uno statistico o un econometrico che non ha mai messo piede in una scuola e ragiona esclusivamente in termini economicistici e aziendalisti. Almeno i pedagogisti sono intellettuali e docenti che quando parlano di istruzione, parlano pur sempre di istruzione e non di una scuola ridotta a sistema di formazione di addetti all’impresa, in cui occorre incanalare ogni persona in una prospettiva lavorativa precisa, il prima che sia possibile. Fino al punto che qualche esaltato, immemore delle schedature razziali del regime fascista, ha persino parlato di determinare il futuro lavorativo degli individui mediante un’analisi delle caratteristiche genetiche e neuronali del bambino…
Sarebbe lungo analizzare a fondo come si possa essere giunti a tanto. Ma è possibile individuare le linee di tendenza che hanno condotto a questa metamorfosi. Esse non sono specificamente italiane, bensì sono legate a tendenze del mondo occidentale, ma soprattutto al contesto del modo in cui l’integrazione europea ha affrontato il tema dell’istruzione, scegliendo di distruggere il modello classico anziché affrontare vie più difficili ma certamente più ragionevoli.
Ricordiamo che questo modello classico – che è valso all’Europa per più di due secoli di essere il centro della migliore istruzione mondiale – ha le sue origini nel progetto illuminista di costruire un’istruzione universalistica che rompesse l’antica frattura tra una massa ignorante e pochi eletti che potevano godere di una costosa istruzione privata mediante precettori. L’istruzione universalistica mirava a fornire a ogni cittadino gli strumenti per orientarsi in modo autonomo sia nel costruire il proprio futuro liberamente, sia nel partecipare consapevolmente alla vita della nazione. Non a caso questa tematica era strettamente connessa a quella della rappresentanza nelle strutture del governo (e alla determinazione delle forme elettorali capaci di rappresentare al meglio la volontà popolare) e quindi doveva essere un pilastro della democrazia.
Due punti cruciali vanno ricordati. Un simile ambiziosissimo progetto non poteva che essere gestito in quanto di interesse pubblico, e quindi poteva essere sostenuto soltanto dallo stato. Il secondo è che esso non conteneva l’ambizione di fabbricare un cittadino secondo dei precetti preformati, e quindi un suddito, ma, al contrario, di fornire a ciascuno delle conoscenze nel modo più libero e oggettivo possibile, affinché costituissero lo strumento della sua libertà. Nel corso dell’Ottocento e fino alla prima metà del Novecento questo progetto è stato allargato, perfezionato, con nuove leggi, e con significative caratteristiche specifiche nei diversi stati nazionali ma comunque coerenti con queste due caratteristiche di base. La polemica che oggi viene fatta con questa scuola delle “conoscenze”, che le avrebbe colate attraverso un imbuto nelle teste passive degli alunni, trascurando le loro capacità di applicarle autonomamente (le “competenze”), non soltanto è totalmente infondata – come è ovvio per chi conosca un minimo il sistema classico dell’istruzione – ma ha introdotto una spaccatura tra i due termini privilegiando assurdamente il secondo. Un esempio per tutti. La visione classica dell’insegnamento della matematica ha conservato sempre l’idea che questa scienza non fosse qualcosa di separato dalle altre, e anzi che avesse un rapporto profondo con le conoscenze umanistiche e, in particolare, con la filosofia e la storia. Oggi invece si tende a ridurre disastrosamente la matematica a tecnica del “problem solving”.
Voglio esemplificare perché ritengo che, peggio ancora che ignoranza, vi sia un malevolo intento in questa riduzione. Nel 2008 facevo parte di una commissione che riformulò le Indicazioni nazionali per i Licei. Propongo i passaggi iniziali riguardanti la matematica, scritti di mio pugno, e che fanno parte della versione approvata:
«Al termine del percorso dei licei classico, linguistico, musicale coreutico e della scienze umane lo studente conoscerà i concetti e i metodi elementari della matematica, sia interni alla disciplina in sé considerata, sia rilevanti per la descrizione e la previsione di semplici fenomeni, in particolare del mondo fisico. Egli saprà inquadrare le varie teorie matematiche studiate nel contesto storico entro cui si sono sviluppate e ne comprenderà il significato concettuale. Lo studente avrà acquisito una visione storico-critica dei rapporti tra le tematiche principali del pensiero matematico e il contesto filosofico, scientifico e tecnologico. In particolare, avrà acquisito il senso e la portata dei tre principali momenti che caratterizzano la formazione del pensiero matematico: la matematica nella civiltà greca, il calcolo infinitesimale che nasce con la rivoluzione scientifica del Seicento e che porta alla matematizzazione del mondo fisico, la svolta che prende le mosse dal razionalismo illuministico e che conduce alla formazione della matematica moderna e a un nuovo processo di matematizzazione che investe nuovi campi […} e che ha cambiato il volto della conoscenza scientifica».
Ci vorrebbe un bel coraggio per definire tutto ciò una visione della matematica come mero “problem solving”. Era anzi un tentativo di difendere il ruolo della matematica in una visione non meramente tecnicistica, ma umanistica. Eppure il ministero, nel proporre le prove preliminari della maturità, ha avuto il coraggio di dire che si sarebbero basate sul “problem solving”, per coerenza con le Indicazioni nazionali…
Ma torniamo a un’identificazione della scelta che ha condotto l’eurocrazia alla distruzione del modello classico di istruzione. La sfida era enorme: come costruire un terreno comune per le giovani generazioni di nazioni aventi un possente passato storico e culturale, sostenuto da lingue e letterature di straordinaria consistenza? Il buon senso avrebbe dovuto dettare che una simile sfida – l’unica peraltro capace di creare basi solide a una costruzione europea che si vede ora quanto sia traballante sotto la mediocre leadership della tecnocrazia – avrebbe richiesto molto tempo e molta intelligenza. Per esempio, preparare le nuove generazioni alla conoscenza profonda, oltre che della propria lingua e cultura, di altre due lingue europee e della cultura legata a quelle lingue. Ciò avrebbe potuto costituire una prima base per conoscersi profondamente al di là di scambi turistici, di capire a fondo l’altro di cui si dovrà diventare concittadini in senso pieno. Molto più facile, invece, cancellare la complessità e la ricchezza delle cultura e procedere per riduzione a individuare le caratteristiche minime indispensabili per un soggetto che possa circolare come forza-lavoro in tutti i paesi dell’Unione. Di qui le famose competenze di Lisbona, che rappresentano la quintessenza di come la cultura e il suo linguaggio possano essere livellate a gergo burocratico insensato. E soprattutto rappresentano il passaggio a un modello in cui la formazione di persone libere è sostituita dalla fabbricazione di soggetti preconfezionati secondo precetti stabiliti dall’alto. Un modello manifestamente autoritario, mascherato dall’idea ormai falsa che l’attuale capitalismo finanziario sia coerente con una visione liberale.
In un recente bel libro, Massimo Recalcati sostiene che «il nostro tempo sembra essere figlio di una collusione terribile, anche se involontaria, tra la spinta rivoluzionaria-libertaria sorta dalle istanze critiche più che legittime del ’68 e quella del neoliberismo forsennato, del capitalismo finanziario protagonista dell’attuale crisi». Osservazione acuta e che condivido (salvo l’aggettivo “più che legittime”) e che conclude osservando che «entrambe queste linee di tendenza […] sostengono l’idea ferocemente antieducativa, che tutto è possibile, che la vita è una potenza autoaffermativa che non necessita di nessuna legge se non quella della propria stessa potenza» e anche lui parla di necessità di riattribuire dignità alla figura dell’impossibile.
Come poi sempre accade nella gestione burocratica l’idea ferocemente antieducativa viene declinata entro forme di un linguaggio fumoso e mediocre che, nel suo generico buonismo, tende a presentarsi come innocuo. Così nel progetto della Buona Scuola, si parla di «miglioramento dell’offerta formativa sempre più declinata in base alle esigenze degli studenti e coerente con la necessità di orientarli al futuro».  Si parla di «curriculum digitale che conterrà informazioni utili per l’orientamento e l'inserimento nel mondo del lavoro. E soprattutto di dare «più spazio all’educazione ai corretti stili di vita» e «di guardare al domani attraverso lo sviluppo delle competenze digitali degli studenti (pensiero computazionale, utilizzo critico e consapevole dei social network e dei media)». La cultura, le conoscenze, le discipline sono messe sul binario dell’estinzione: l’obbiettivo della scuola non è più quello di formare persone libere che usino gli anni dell’istruzione per scegliere autonomamente il proprio futuro, ma individui corrispondenti ai precetti imposti da un’autorità centrale. Basti leggere la versione ultra-burocratica di questa visione nella recentissima circolare ministeriale sulla certificazione delle competenze. Vi si parla di uno studente che deve «collaborare alla costruzione del bene comune», che «ha cura e rispetto di sé, come presupposto di un sano e corretto stile di vita» e addirittura di «corretta partecipazione alle occasioni rituali nelle comunità che frequenta». Il Ministero si occupa addirittura di prescrivere la necessità di pregare bene, studiare il catechismo, osservare la sharia o i 613 precetti ebraici?
Ma chi mai, se non uno stato totalitario, può arrogarsi il diritto di definire cos’è il «bene comune»? Chi, se non uno stato totalitario, può essere titolare della nozione di «sano e corretto stile di vita»? E che cosa verrà imposto di circolare in circolare? Magari che il bene comune coincide col politicamente corretto? Qualche zelante funzionario o qualche dirigente scolastico (definito ora come “leader educativo”) vorrà “bollinare di rosso” le Metamorfosi di Ovidio perché politicamente scorrette, come ha chiesto un’associazione studentesca della Columbia University, degna controparte dei distruttori di monumenti dell’Isis? Oppure si prescriverà più modestamente che un sano e corretto stile di vita significa non bere più di 15 cl. di vino al giorno e andare a letto entro le 21? Siamo agli antipodi del motto liberale di John Stuart Mill: «Ciascuno è l’unico autentico guardiano della propria salute sia fisica sia mentale e spirituale». Ma siamo anche agli antipodi della visione della scuola universalistica che, sia pure con rilevanti declinazioni, è stata condivisa lungamente sia dall’area liberaldemocratica, sia da buona parte della sinistra occidentale. Siamo qui nel contesto di un costruttivismo dai connotati autoritari e che ha posto al suo centro una visione meramente economicista e aziendalista.
L’insufficienza delle categorie politiche tradizionali a comprendere il fenomeno di cui parla Recalcati spiega non soltanto una diffusa confusione delle idee, ma anche lo stupore con cui i promotori della Buona Scuola hanno accolto le vastissime reazioni negative, definendole come “conservatorismo” e non capendo che esse raccolgono trasversalmente chi difende la visione classica dell’istruzione in nome del suo legame con la tradizione liberaldemocratica e chi è legato alla stessa visione in quanto si è formato alla visione di Antonio Gramsci della scuola.
Indubbiamente, la natura delle forze in gioco rende molto problematico arrestare questo andazzo. Ma chiunque desideri un futuro per i nostri figli come persone e non come polli di batteria confezionati ad uso e consumo delle aziende, che non accetti l’idea che un paese che è stato uno dei centri della cultura mondiale si spenga nella mediocrità e nell’ignoranza, non può che battersi fino in fondo per invertire la tendenza. Il che non significa rigettare le necessarie riforme, rifiutare una seria e autentica valutazione, ancorarsi passivamente al passato. Significa rigettare decisamente il trucco con cui, con l’alibi del rinnovamento, si distrugge cultura, conoscenza e libertà.
Di nuovo grazie a Giulio Ferroni per il suo bel libro e il suo coraggio.

                                                                   GIORGIO ISRAEL

domenica 17 maggio 2015

INTERVISTA A IL MANIFESTO, 15 maggio 2015 – GIORGIO ISRAEL


Lo storytelling di Renzi sostiene che l'opposizione alla riforma della scuola è guidata da  forze conservatrici. Professore, lei si sente un conservatore?

Questo è il punto. Quello che il nostro premier non ha capito è che chi si oppone alla “Buona scuola” lo fa per lo più in nome della difesa di una visione universalistica dell’istruzione, che mira non alla fabbricazione di individui confezionati in base a un’ideologia tecnocratica bensì alla formazione di persone libere, dotandole degli strumenti conoscitivi adatti a una libera scelta del loro futuro. Una simile visione è presente in chi, a sinistra, è legato a una visione di tipo gramsciano, e in chi invece si ricollega a una visione conservatrice di tipo liberaldemocratico. Non aver capito il carattere di trasversalità dell’opposizione è stato un errore politico colossale. Quanto a me, quel che conta è quel che penso e se ricordo certi linciaggi estremisti cui sono stato sottoposto rifiuto categoricamente di farmi mettere etichette.

Nel suo video-spot il premier ha rivendicato la continuità con la riforma Berlinguer. Qual è il suo giudizio sul ventennio di riforme dell'istruzione pubblica?

Meglio stendere un velo pietoso. Le riforme berlingueriane della scuola e dell’università sono state quanto di più devastante si sia dato in questo ventennio. Dagli anni in cui Berlinguer difendeva accanitamente la visione gramsciana di una scuola disinteressata, basata sulle conoscenze e il rigore, con critiche severe degli andazzi della burocrazia europea, egli è passato all’adesione completa a una visione tecnocratica senza la minima giustificazione di tale rovesciamento salvo l’invettiva quotidiana contro Gentile, fonte di qualsiasi male anche di quelli contro cui combatteva e che, in fin dei conti, ha avuto scarsa influenza sulle politiche scolastiche del fascismo rispetto a un Bottai. Un altro storytelling completamente falso.

Qual è la ragione che spinge il governo a imporre la figura del preside manager nella scuola?

Una ragione di controllo politico-ideologico in modo da disporre di un ceto di dirigenti che faccia da cinghia di trasmissione dei precetti ministeriali. Basti pensare all’ultimo concorso per dirigenti. La batteria di quiz era composta da un gran numero di domande sbagliate e poi da una massa di domande che richiedevano da parte del candidato la conoscenza di una letteratura psico-pedagogica di tipo costruttivista. E perché mai per essere un buon dirigente debbo essere esperto e consenziente con certa letteratura e non altra? Qui viene messa fuori gioco non solo la libertà d’insegnamento ma quella di pensare liberamente. Se poi un dirigente viene dotato anche del potere di assumere e controllare la carriera dei “suoi” insegnanti siamo al regime. Si ricordi che la Carta della Scuola fascista del 1940 ridefiniva il preside come “capo dell’Istituto”, una figura monocratica che ora viene dotata di altri pesanti poteri.

Com'è cambiato il mestiere dell'insegnante in questi venti anni?

È stato progressivamente trasformato nella figura di un mero esecutore delle prescrizioni ministeriali espresse in un continuo diluvio di circolari, regole, certificazioni spesso deliranti e scritte in un italiano incredibile. Gli è stata sottratta gran parte del tempo della sua attività come “maestro”. Del resto, è da un pezzo che certo pedagogismo che ha larga influenza tra i burocrati del ministero predica che bisogna cancellare la parola insegnante per sostituirla con quella di “facilitatore”, in nome di una demagogica idea della scuola come “autoformazione”, senza rendersi conto che una scuola senza autentici “maestri”, capaci di stabilire un rapporto intenso e costruttivo con gli allievi non è tale, è una fabbrica di addetti all’impresa, quel che persegue la Confindustria nella sua solita prassi di ottenere quel che le serve a spese dello Stato.

Il governo ha criticato il boicottaggio dei test Invalsi. Come sono nati e qual è il loro ruolo nel nuovo sistema di valutazione della scuola e degli studenti?

Sarebbe lungo fare una storia dell’Invalsi. All’inizio doveva essere un istituto che con metodi statistici campionari doveva tentare di costruire un’immagine dello stato della scuola italiana. Si è trasformato in un istituto censuario cui è stato dato il potere addirittura di imporre una prova a quiz che interviene e altera il processo di valutazione facendo parte delle prove per l’uscita dalle scuole medie. Siamo in molti ad aver svolto critiche dettagliate della prassi dell’ente senza alcuna risposta perché esso è chiuso, autoreferenziale ed esente da qualsiasi controllo.

Approvata la riforma, che cosa diventerà la scuola?


Speriamo che non sia approvata. Altrimenti, questo insieme di provvedimenti sconnessi, incoerenti, prodotti da chi non ha alcuna autentica competenza sul tema dell’istruzione oppure ha idee devastanti, produrrà semplicemente terra bruciata. I migliori insegnanti non vedranno l’ora di andarsene – come già accade – e la scuola diventerà una mera propaggine della burocrazia e di chi vuol servirsene soltanto a scopi meramente strumentali. Addio cultura e conoscenze, in un paese che ha una delle più ricche tradizioni culturali del mondo e aveva costruito un’ottima scuola.

venerdì 15 maggio 2015

Intervento scritto al Convegno che si tiene oggi a Roma, al Liceo Mamiani, in difesa del Liceo Classico

Intervento scritto al Convegno che si tiene oggi a Roma, al Liceo Mamiani sul tema:

«Sotto l'egida di Atena, saper essere e saper fare – Liceo Classico passaporto per il futuro»


È con gran dispiacere se, per motivi di salute, non posso intervenire a questo incontro cui mi ha gentilmente invitato la preside Sallusti. Me ne dispiace ancor di più in quanto lo ritengo un evento di grande importanza. La difesa del Liceo Classico è un tema cruciale su cui si gioca il futuro dell’istruzione italiana e, in generale, anche della cultura che vogliamo conservare, valorizzare e trasmettere ai giovani, come momento fondamentale della nostra identità nazionale.
Ferme restando tutte le esigenze di rinnovamento dell’istruzione, dei nuovi rapporti tra cultura e tecnologia – il che significa in concreto una valorizzazione della formazione tecnica e professionale, in cui pure l’Italia è stata ai primi posti prima che questa venisse demolita – si tratta di pronunciarsi su una questione centrale. Vogliamo una scuola che sia esclusivamente luogo di addestramento di forza lavoro per le imprese, il che significa molte cose negative? Ovvero, riduzione del ruolo dell’insegnante da “maestro” a mero esecutore di direttive imposte per via burocratica, per giunta in un contesto di basso livello, in quanto in Italia ormai non esiste più una grande industria a elevato contenuto tecnologico, bensì soltanto piccola e media impresa? Oppure vogliamo una scuola che formi “persone” e non addetti, che conferisca in modo aperto e critico, rispettoso delle dinamiche individuali degli alunni, le conoscenze necessarie per poi compiere libere scelte? Insomma, vogliamo una scuola che formi alla libertà, e non di indottrinamento costruttivista mirante a formare soggetti coerenti con linee ideologiche preformate?
Per parte mia aderisco con forza a una visione che definirei umanistica. Il Liceo Classico ne è la rappresentazione e il baluardo più valido.
Al contrario, stiamo vivendo il tentativo di distruggere questo baluardo e a ciò contribuisce una prassi buro-tecnocratica che affoga la scuola sotto cumuli avvilenti di prescrizioni, circolari, certificazioni, ecc. oltretutto scritte in un modo che costituisce un attentato alla lingua italiana e alla dignità di chi deve subirle. La prepotenza di questo apparato buro-tecnocratico è capace di arrivare alla mistificazione. Collaborai anni fa alla redazione delle nuove indicazioni nazionali per i Licei: la parte matematica è in buona parte farina del mio sacco. Già allora fu criticata aspramente perché troppo “culturale”: era vero perché l’intento era di proporre le relazioni tra matematica e altre discipline, in particolare filosofia e storia, nel quadro di una visione umanistica. Il che non significava ignorare il ruolo della matematica nella rappresentazione dei fenomeni, ma escludendo nettamente che la matematica possa ridursi a problem solving, un’idea limitativa e anche profondamente ignorante, incapace di capire che spesso è la riflessione sui problemi insolubili (e ve ne sono tanti in matematica!) che è la fonte della formazione più ricca. Ho letto con sconcerto che il ministero ha proposto le prove preliminari per la matematica argomentando che al centro di esse deve esservi il problem solving per renderle coerenti con gli orientamenti delle Indicazioni nazionali… Ogni commento è superfluo.
La questione dei rapporti tra materie scientifiche e materie “umanistiche” (greco, latino, storia, filosofia), è cruciale. Il tentativo di considerare appunto “umanistiche” le seconde e non le prime deve essere battuto. Esso significa distruggere d’un colpo una peculiarità della tradizione scientifica europea e italiana in particolare, che hanno costruito la propria modernità nella relazione profonda con una tradizione che viene dalla cultura scientifica dell’Antica Grecia.
All’indomani dell’Unità d’Italia, il paese era l’unico in Europa che doveva costruirsi i fondamenti di un’istruzione unitaria, dove tutto mancava, dalle istituzioni ai libri di testo e alla definizione dei loro contenuti. Si accese allora un dibattito su come impostare un insegnamento della matematica e come creare i manuali di base. Non furono coloro che oggi verrebbero definiti come polverosi umanisti, bensì ingegneri come Francesco Brioschi e Luigi Cremona (sostenuti da Quintino Sella), i fondatori dei grandi Politecnici di cui oggi meniamo vanto, a fare una scelta di un’audacia estrema: tornare a Euclide. I primi manuali di matematica erano addirittura soltanto una traduzione degli Elementi di Euclide. Fu una scelta avventata? In una ventina d’anni appena, un paese appena affacciatosi sulla scena si produsse in uno sviluppo impressionante e verso la fine dell’Ottocento la matematica italiana poteva considerarsi senz’altro come la terza potenza europea (e mondiale) dopo la Francia e la Germania.
L’approccio umanistico aveva funzionato anche sul terreno specifico della scienza e l’Italia ha avuto uno dei grandi protagonisti di tale visione nel grande matematico e filosofo Federigo Enriques, i cui manuali hanno improntato la formazione scolastica di tante generazioni fino a poco tempo fa – manuali che peraltro sono ancor oggi superiori alle tante mediocrità circolanti.
Nella prolusione del 1860 all’Università di Bologna, Luigi Cremona spiegò con estrema chiarezza e con parole attualissime quali sono le relazioni profonde tra i vari ambiti della conoscenza e, in particolare, quello tra scienza pura e applicata che è proprio la chiave del successo della tecnologia nella società contemporanea.
Per concludere, ne propongo un passaggio:

«Respingete da voi, o giovani, le malevole parole di coloro che a conforto della propria ignoranza o a sfogo d’irosi pregiudizii vi chiederanno con ironico sorriso a che giovino questi ed altri studii, e vi parleranno dell’impotenza pratica di quegli uomini che si consacrano esclusivamente al progresso di una scienza prediletta. Quand’anche la geometria non rendesse, come rende, immediati servigi alle arti belle, all’industria, alla meccanica, all’astronomia, alla fisica; quand’anche un’esperienza secolare non ci ammonisse che le più astratte teorie matematiche sortono in un tempo più o meno vicino ad applicazioni prima neppur sospettate; quand’anche non ci stesse innanzi al pensiero la storia di tanti illustri che senza mai desistere dal coltivare la scienza pura, furono i più efficaci promotori della presente civiltà – ancora io vi direi: questa scienza è degna che voi l’amiate; tante sono e così sublimi le sue bellezze, ch’essa non può non esercitare sulle generose e intatte anime dei giovani un’alta influenza educativa, elevandoli alla serena e inimitabile poesia della verità! I sapientissimi antichi non vollero mai scompagnata la filosofia, che era allora la scienza della vita, dalla studio della geometria, e Platone scriveva sul portico della sua accademia: Nessuno entri qui se non è geometra. Lungi quindi da voi questi apostoli delle tenebre; amate la verità e la luce, abbiate fede nei servigi che la scienza rende presto o tardi alla causa della civiltà e della libertà».
Oggi, ancor più di ieri, difendere il Liceo Classico significa opporsi ai nuovi apostoli delle tenebre.

                                                                  GIORGIO ISRAEL

mercoledì 13 maggio 2015

E DALLI CON IL TERMOMETRO !…

Sono anni – non mesi – che vengono avanzate critiche argomentate e costruttive nei confronti dell’Invalsi: autoreferenzialità dell’ente sottratto a ogni valutazione e composto sempre dalle stesse persone, discutibilità dei metodi statistici e dei test proposti, eccesso di intervento con la prova per la secondaria di primo grado che fa media, sconsiderata incentivazione del deleterio “teaching to the test”, ecc.
A tanti sforzi si è sempre opposto uno sdegnoso commento: «Chi critica è solo uno che non vuol farsi valutare ed è contro il merito». L’Invalsi ha sgomitato soltanto per ottenere lo stesso potere che ha ottenuto l’Anvur nell’università, per ragioni che sarebbe interessante approfondire.
Ora l’Invalsi paga tale arroganza con il crollo della partecipazione ai test, senza contare che anche quelli compilati sono pieni di cose inattendibili: so direttamente di studenti italiani che hanno scritto che a casa loro la lingua corrente è il bulgaro o lo swahili e altre amenità …
Ma oggi su buona parte della stampa – in cui ogni voce anche moderatamente contraria non trova più spazio – si leva un grido unanime: «È uno scandalo. Rifiutare i test Invalsi è come rompere il termometro quando si ha la febbre». E giù prediche sulla valutazione e l’assenza di meritocrazia.
Ora, che questo lo faccia un personaggio che ha millantato due lauree e un master mai avuti e tante altre cosucce e che, mostrando impavido di non sapere e capire nulla di scuola, s’impanca – proprio lui! – a parlare di merito, dovrebbe essere considerato un fatto comico, se non fosse che il fatto che gli si dia credito è l’immagine più lampante di come davvero quando si pronuncia questa parola si fa soltanto retorica, e in modo sfacciato.
Che parli di termometro il capo dei presidi italiani, si può anche capire. Lui questa frase l’ha sentita dire da personaggi che reputa di alta e indiscutibile competenza. Per esempio, da Roger Abravanel, il quale appare sostenuto da un network così potente da potersi permettere qualsiasi svarione – per esempio che l’università italiana è gratis, quando invece è una delle più costose d’Europa – senza pagare pegno. Tanto lui si è definito da solo l’incarnazione della “meritocrazia” e allora visto che è tanto influente quel che dice deve essere vero. Quella frase l’ha sentita dire poi da accademici propriamente detti, come il prof. Andrea Ichino che, ancor oggi, sul Corriere della Sera, ricanta la solfa del termometro.
Vorrei allora raccontare al riguardo un episodio di alcuni anni fa. Mi trovavo in una commissione ministeriale per la valutazione assieme a lui e una decina di altri componenti. Si accese proprio una discussione sui metodi di valutazione oggettivi e standardizzati, con il prof. Ichino che sosteneva accanitamente le metodologie tipo Invalsi, con i quiz ecc. Gli feci notare che parlare in questo ambito di oggettività era assolutamente improprio e che ogni parallelismo con la fisica (con le scienze dei fatti materiali) era assurdo: tale era il parallelismo con il termometro. Osservai che la fisica si distingue per una piccola cosuccia come la possibilità di definire unità di misura in modo tale da essere adottate in modo universale da chiunque senza possibilità di equivoci e contestazioni, insomma aventi carattere oggettivo. Tale era l’unità di lunghezza (metro, di cui esiste un campione universale di riferimento) e anche l’unità di temperatura, anche se a voler essere rigorosi, prima dell’avvento della termodinamica anche la temperatura non era considerata come una grandezza misurabile in modo oggettivo. Osservai: «Se ci mettiamo a misurare il perimetro di questo tavolo ciascuno con un metro non truccato e garantito conforme allo standard, a parte piccoli scarti previsti dalla teoria della misura otterremo lo stesso risultato». E poi chiesi: «Nel campo della valutazione delle qualità immateriali quali sono le unità di misura? In particolare, quale sarebbe l’unità di misura delle competenze?»
Il collega ci pensò su un poco e poi sentenziò in modo netto: «L’unità di misura delle competenze è il test». Una risata omerica avrebbe dovuto accogliere una simile frase. Chiunque capisce che il test è anch’esso una costruzione immateriale, fabbricata da una persona o da un gruppo di persone con le proprie (rispettabili quanto discutibili) idee circa cosa sia la matematica, la letteratura, la storia ecc. Un’altra persona o gruppo di persone potrebbe avere idee diverse, anche opposte e degne di confronto. Per esempio, chi scrive ritiene che concepire la matematica come “problem solving” è non soltanto discutibile ma espressione di ignoranza crassa. Avrò ragione o torto ma ho buoni argomenti degni di essere discussi. Come è possibile costruire test di validità universalmente condivisa, oggettivi, su simili basi?
Una buona valutazione non può andar oltre un processo di confronto tra vedute diverse che miri al massimo possibile di condivisione e di equanimità nei giudizi; il che non è  affatto la stessa cosa dell’oggettività.

Ora se siamo al punto che anche un rispettabile professore universitario coltiva una simile confusione di idee e straparla di oggettività e termometri, come se l’Invalsi potesse essere l’equivalente dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare, di che stupirsi? Questo è il pantano in cui stiamo affondando.