domenica 24 dicembre 2006

Un intervento sulla polemica concernente il presepio

Avvenire, 21 dicembre 2006


In questi giorni per gli ebrei è Hanukkah, la festa delle luci. Intorno le luci di Natale. Ma a scuola i miei figli non incontrano un’esperienza religiosa diversa. Trovano soltanto Babbo Natale con una slitta carica di giocattoli e di luoghi comuni multiculturali. Non devo spiegare loro chi era Gesù e cos’è il cristianesimo, bensì difendere la loro esperienza religiosa dall’assedio del consumismo, o arrabbattarmi a spiegare l’insipida storiella di Natale raccontata a scuola: la storia di un bambino italiano, svedese o musulmano (ma musulmano è una nazionalità?) che diventa un bambino qualsiasi per non far torto a nessuno.
Mi si potrebbe chiedere cosa mai pretenda. Rimpiango forse i tempi della mia fanciullezza, in cui circolava abbondantemente l’antigiudaismo? Tempi in cui potevo incontrare un sacerdote che spiegava alla classe che gli ebrei erano crudeli deicidi e, carezzandomi la testa, aggiungeva che io, poverino, non c’entravo, dopodichè nessuno voleva più sedere nel banco con me. Non li rimpiango, apprezzo il grande cammino percorso e non sono di quei masochisti che preferiscono non vederlo mentre amano farsi torturare dall’antisemitismo islamico. Quel che voglio lo vedo tangibilmente nel rapporto con gli amici di Comunione e Liberazione: un chiaro e dignitoso senso della propria identità, rispettoso di quella altrui, senza sincretismi e senza tentativi di conversioni, obliqui o invadenti che siano. Un atteggiamento che è la chiave dell’unico dialogo possibile, quello così ben spiegato da Benedetto XVI nel discorso alla sinagoga di Colonia.
È un atteggiamento che ho appreso da mio padre in quei tempi in cui era più difficile assumerlo: tanto egli era rigoroso nel contrastare ogni sussulto antiebraico, quanto era tenace nel difendere più che la possibilità, la necessità del dialogo ebraico-cristiano. Da lui ho appreso – e vorrei trasmettere ai miei figli – a ravvisare nelle preghiere cristiane e nella messa le frasi e le benedizioni delle ricorrenze ebraiche, a scoprire che la benedizione ebraica impartita dai genitori ai figli (“Il Signore ti protegga e ti custodisca”) è la stessa di San Francesco a Frate Leone. La propria identità religiosa non rischia nulla nel cercare quel che unisce, nel riconoscere che “non si può essere cristiani se non si è ebrei” (come ha detto il cardinale Caffarra) e che la prima esperienza religiosa con cui un ebreo deve misurarsi e con cui deve dialogare è quella cristiana.
Il dialogo non è soltanto reso impossibile dagli atteggiamenti di sopraffazione integralista, ma è vanificato dal buonismo confusionario che, alla fine, svela più intolleranza di quanto sembri. Ho incontrato questo secondo atteggiamento alla fine della mia vita scolastica, quando nel mondo religioso avanzava il progressismo. Il docente di religione nel mio liceo era un sacerdote molto “avanzato”, poi divenuto redattore di un giornale comunista. Mi propose di restare nell’ora di religione per “dialogare”. Poi quando vide che difendevo senza complessi le mie vedute mi invitò seccamente a non disturbare le lezioni… Aveva creato attorno a sé un circolo di adepti assai motivati, molto (troppo) pervasi di una sicurezza di sé che respingeva la mia identità di ebreo non meno drasticamente dei più incalliti integralisti. Colpiva il modo in cui trasformavano l’esperienza religiosa in un’esperienza meramente sociale.
Una decina di anni fa assistetti in Spagna al matrimonio cattolico di una coppia di amici. Un prete alquanto informale eseguì il rito in modo casereccio, fino a che lo sposo non salì dietro l’altare e tenne una specie di conferenza colloquiale per spiegare il significato del rito secondo le vedute più “progredite”. Finì con una chitarrata. Espressi a qualcuno il mio disappunto sollevando un’ondata di ilarità: un ebreo che assumeva le vesti del cattolico tradizionalista… Tentavo di spiegare che un rito assume valore se è circondato da un’atmosfera di intensa partecipazione e di silenzioso e assorto rispetto e che perdere questa dimensione è quanto distruggere l’esperienza religiosa alle radici. Non apprezzo la confusione chiassosa delle sinagoghe romane: malgrado ciò, nel momento della benedizione finale del giorno di Kippur, quando i figli si raccolgono sotto il manto di preghiera dei genitori, si crea un silenzio irreale, su cui si staglia soltanto la voce del rabbino celebrante, davvero “la voce del silenzio”. I riti religiosi hanno bisogno di questi momenti di intensità. Assistendo a una messa ho sempre evitato l’atteggiamento del curioso, cercando di capire l’esperienza religiosa e i sentimenti dei fedeli. Non vi è nulla da rimproverare alle forme più o meno mondane di socializzazione, ma è incongruo e insensato surrogare con esse l’esperienza religiosa. Inoltre, chi pretende di creare questi surrogati tende a conferire alle sue pratiche la sacralità della funzione originale e ad assumere atteggiamenti arroganti e intolleranti tipici dell’integralismo. Visto che si considera investito del potere di tradurre i riti della sua fede nelle forme socializzate da lui decise, figuriamoci quale rispetto può avere per le fedi altrui. Un giorno pranzai con uno di questi sacerdoti iperprogressisti che mi spiegò con sussiego e sdegno che l’ebraismo era una religione rozza e brutale e che il cristianesimo, pur avendo fatto qualche progresso, aveva ancora molto da apprendere da una religione tanto più evoluta come l’islam… Non poteva darsi una manifestazione più clamorosa di odio di sé.
Non rimpiango un certo passato ma non mi piace il “presepe” di oggi. L’evoluzione dell’insegnamento di religione nelle scuole illustra ulteriormente l’andazzo. Le novità introdotte dal secondo Concordato non hanno costituito affatto un progresso. Certo, prima occorreva chiedere l’esenzione dall’ora obbligatoria di religione, che però veniva concessa sempre: se eri piccolo restavi in classe a fare quel che volevi e l’unico rischio era di incontrare qualche persona malevola; quando eri più grande uscivi prima o entravi dopo, perché la collocazione dell’ora lo consentiva sempre. La perversa introduzione delle ore sostitutive obbligatorie crea un sentimento di esclusione molto più grave. Il mio figlio più grande fu costretto a sorbirsi un’annata di lettura del Corano, i più piccoli si destreggiano tra attività improbabili e libercoli intrisi di un insopportabile buonismo multiculturale da cui ricavano un’unica sbagliatissima conclusione: che sono “diversi”. Su tutto domina la tiritera secondo cui l’ora di religione è sì confessionale, ma a tal punto “aperta” che non può che “far bene a tutti”. Il guaio, per l’appunto, è che è troppo aperta, fino a generare il proselitismo del nulla. Così, può capitare l’insegnante – non meno devastante del sacerdote della mia infanzia – che invita i piccoli a fare pressioni psicologiche sul loro compagno perché partecipi anche lui e si tolga dall’isolamento. Sono manifestazioni di arrogante debolezza che alimentano soltanto il discredito e la disaffezione per l’insegnamento della religione.
È questo un tema su cui si possono fare proposte precise per un’ora di religione obbligatoria non confessionale ma per nulla confusamente “storico-culturale”, la quale trasmetta i valori spirituali che sono a fondamento delle nostre società. Ma è un discorso troppo serio e complesso per rischiare di trattarlo male in poche righe.
Vorrei concludere dicendo che occorre arrestare la corsa verso il disprezzo della spiritualità, in particolare di quella religiosa. Un Natale così non fa bene a nessuno. Si ricominci pure a fare i presepi nelle scuole e a cantare “Stille Nacht”. Ho accompagnato tante volte delle compagne di scuola a comprare le bellissime figurine dei presepi di stile napoletano e sono ancora qui, senza aver perso nulla della mia identità ebraica. È molto più importante sbarazzarsi di questo Babbo Natale politicamente corretto, con la pelle multicolore a vestito di Arlecchino e la slitta vuota di spiritualità e carica di cellulari.

Giorgio Israel

mercoledì 20 dicembre 2006

Una tragica e tremendamente realistica prospettiva

L'INCUBO DEL GIORNO DEL SECONDO OLOCAUSTO


• da Corriere della Sera del 20 dicembre 2006, pag. 1

di Benny Morris

Il secondo Olocausto non sarà come il pri mo. Certo, anche i nazisti ordirono uno stermi nio di massa. Ma, in qualche modo, avevano un contatto diretto con le vittime. Che disumanizzavano, dopo mesi, anni di atroce degrada zione fisica e morale, prima dell'uccisione ve ra e propria. Ma con cui avevano pur sempre stabilito un contatto fisico: vedevano, sentivano, talvolta toccavano le loro vittime. I tede schi — e i loro alleati — rastrellavano uomini, donne e bambini, per poi trascinarli e randel larli lungo le strade, freddarli nel bosco più vi cino o scaraventarli e stiparli nei vagoni di un treno, da cui iniziava il viaggio verso i cam pi di sterminio, dove «II lavoro rende liberi».

Separavano gli individui di costituzio ne robusta da quelli completamente inu tili, che adescavano nelle «docce» attraverso cui veniva pompato il gas; estrae­vano o presiedevano alla rimozione dei corpi e preparavano, infine, le «docce» per il plotone successivo.

CRISI - II secondo Olocausto sarà ben di verso. Un bel giorno, tempo cinque o die ci anni, magari nel pieno di una crisi re gionale, o quando meno ce lo aspettere mo, un giorno o un anno o cinque anni dopo che l'Iran si sarà dotato della Bom ba, i mullah di Qom convocheranno una seduta segreta, sulla quale campeggerà il ritratto dell'ayatollah Khomeini, con i suoi occhi di ghiaccio, per dare il placet al presidente Ahmadinejad, giunto ora mai al secondo o al terzo mandato. Tut ti i comandi saranno eseguiti, i missili Shihab-3 e 4 saranno lanciati verso Tel Aviv, Beersheba, Haifa, Gerusalemme e, probabilmente, anche contro alcuni campi militari, comprese le sei basi ae ree e missilistiche nucleari (o presunte tali) di Israele. Qualche missile sarà do tato di testata nucleare, in qualche caso addirittura multipla. Altri saranno di ti po standard, muniti solamente di agenti chimici o batteriologici, o stipati di vec chi giornali, per scalzare o spiazzare le batterie anti-missilistiche e le unità del l'esercito israeliano.

Per un Paese delle dimensioni e la con formazione di Israele (una striscia di ter ra oblunga di circa 21 mila chilometri quadrati), quattro o cinque lanci saran­no probabilmente sufficienti. E addio Israele. Un milione o più di israeliani, nel le maggiori aree di Tel Aviv, Haifa e Gerusalemme, periranno sul colpo. Milioni saranno gravemente irradiati. Israele conta sette milioni di abitanti circa. Nes sun iraniano vedrà né toccherà alcun israeliano. Tutto si svolgerà in modo molto impersonale.

DANNI COLLATERALI - Ci saranno inevitabil mente anche morti di nazionalità araba. Circa 1,3 milioni di abitanti di Israele so no arabi e altri 3,5 milioni vivono nelle aree ancora in parte occupate della Stri scia di Gaza e in Cisgiordania. Gerusa lemme, Tel Aviv, Jaffa e Haifa contano nutrite minoranze arabe. E attorno a Ge rusalemme (vedi El Bireh, vicino a Ramallah, Bir Zeit e Betlemme) e Haifa sor gono vaste aree a densa popolazione ara ba. Anche qui saranno in moltissimi a morire, sul colpo o poco a poco.

È improbabile che un si mile massacro possa tur bare Ahmadinejad e i mul lah. Gli iraniani non ama no particolarmente gli ara bi, nutrono particolare di­sprezzo per i palestinesi sunniti che, in fin dei con ti, pur essendo inizialmen te dieci volte più numero si degli ebrei, nel corso di un conflitto che si è pro tratto per anni non sono riusciti a impedi re loro di fondare lo Stato ebraico, né di prendere possesso di tutta la Palestina. Di più, i leader iraniani considerano la distru zione di Israele come un supremo coman do divino, l'araldo della Seconda Venuta, e la morte collaterale degli islamici come il sacrificio di shuhada (martiri) sull'altare di una causa nobile. In ogni caso, il popolo palestinese, sparso un po' in tutto il mon do, sopravviverà, assieme alla grande na zione araba di cui è parte integrante. E va da sé che, per liberarsi dello Stato ebraico, gli arabi devono essere pronti a qualche sa crificio. E il gioco, considerandolo nel bilancio generale, vale la candela.

Ma un'altra questione potrebbe essere sollevata nel corso di queste consulte: e Gerusalemme? La città, infatti, ospita due dei luoghi più sacri dell'Islam (dopo la Mecca e Medina) : le moschee di Al Aqsa e di Omar. Con ogni probabilità, però, la suprema guida spirituale Ali Khamenei e Ahmadinejad darebbero a questa domanda la stessa risposta che sfoggerebbero per il più generale problema del la distruzione e dell'inquinamento radio attivo dell'intera Palestina: la città e la terra, per grazia di Dio, in venti, cinquan ta anni al massimo torneranno come pri ma. E saranno restituite all'Islam (e agli arabi). Senza la benché minima traccia di contaminazioni radioattive.

RISCHIO CALCOLATO - A giudicare dai conti nui riferimenti, da parte di Ahmadi nejad, alla Palestina e all'urgenza di di struggere Israele, e dalla negazione, di cui si è fatto portavoce, del primo Olo causto, si direbbe che l'uomo sia osses sionato. Tratto che condivide con i mul lah: entrambi vengono dalla scuola di Khomeini, prolifico antisemita noto per le folgori scagliate contro il «piccolo Sa tana». E a giudicare dal concorso, da lui promosso, per le vignette sulla Shoah, o dalla Conferenza sull'Olocausto (appe na conclusasi), emerge un presidente ira niano arso da un vortice di odio profon do (oltreché, naturalmente, insolente). Ahmadinejad, infatti, è pronto a mettere a repentaglio il futuro dell'Iran, se non addi rittura di tutto il Medio Oriente musulma no, in cambio della distruzione di Israele. Non v'è alcun dubbio che egli creda che Allah, in un modo o nell'altro, proteggerà l'Iran da una risposta nu cleare israeliana o da un'eventuale controffensi va Usa. E, Allah a parte, è facile che egli creda che i suoi missili polverizzeran no lo Stato ebraico, annienteranno i suoi leader, di­struggeranno le basi nucle ari terrestri e demoralizze ranno o spiazzeranno i co mandanti dei sottomarini nucleari in modo così dra stico ed efficace da neutra­lizzare qualsivoglia reazio ne. E, con il suo profondo disprezzo per il pa vido Occidente, è improbabile che il leader iraniano prenda in seria considerazione la minaccia di una rappresaglia nucleare Usa. Ma può anche darsi che egli sia consa pevole del rischio di un contrattacco e si professi tout court — e, secondo il no stro modo di pensare, in modo assoluta mente irrazionale — disposto a pagarne le conseguenze. Come il suo mentore Khomeini ebbe a dire, nel 1980, durante un discorso ufficiale a Qom. «Noi non ve neriamo l'Iran, ma Allah...Per questo di co: che questa terra bruci. Che vada in fumo, purché l'Islam ne esca trionfan te...». Per tali cultori della morte, persino il sacrificio della propria patria vale bene la cancellazione di Israele.

Come il primo, anche il secondo Olocau sto sarà preceduto da lustri di indottrina mento dei cuori e delle menti da parte di leader arabi e iraniani, intellettuali occi dentali e sfoghi mediatici. Il messaggio è cambiato a seconda del pubblico ma, di fat to, l'obiettivo di fondo è stato sempre lo stesso: la demonizzazione di Israele. Ai mu sulmani di tutto il mondo è stato insegna to che «i sionisti e gli ebrei incarnano il ma le» e che «Israele dovrebbe essere distrut to». E agli occidentali, in modo più subdo lo, è stato inculcato che «Israele è uno Sta to tiranno e razzista» che «nell'età del multiculturalismo, è inutile e anacronistico».

COMUNITÀ INTERNAZIONALE - La campagna per il secondo Olocausto (che, tra l'al tro, alla fine provocherà all'incirca tanti morti quanti ne fece il primo) si è svolta in una comunità internazionale lacerata e guidata da ambizioni egoistiche e di scordanti, con Russia e China ossessio nate dalle prospettive di mercato nei Pa esi musulmani, la Francia dal petrolio arabo e gli Usa portati, dopo la débàcle irachena, a un profondo isolazionismo. L'Iran è stato lasciato libero di prosegui re sulla china del nucleare, e la comuni tà internazionale non è intervenuta nel lo scontro tra Israele e il regime degli Ayatollah.

Ma uno Stato israeliano sostanzialmen te isolato — come un coniglio improvvisa mente abbagliato dai fari di una macchina —, non può essere all'altezza della situazio ne. La scorsa estate, guidato da un mediocre politicante come Primo ministro e da un sindacalista da strapazzo come mini stro della Difesa, schierando un esercito addestrato per gestire le inesperte e sguar nite bande palestinesi nei Territori occupa ti (e troppo intento a fare fronte a eventua li disgrazie o a provocarle), Israele è uscito perdente da un mini-conflitto di appena trentaquattro giorni contro una piccola guerriglia di fondamentalisti libanesi spal leggiata dall'Iran. Quell'episodio ha total mente demoralizzato la leadership politi ca e militare israeliana.

Da allora, i ministri e i generali israeliani, così come i loro omologhi occidentali, assi stendo al graduale approvvigionamento di armi letali a Hezbollah da parte dei fian cheggiatori di quest'ultimo, sono divenuti sempre più sfiduciati e pessimisti. Parados salmente, è addirittura possibile che i lea der israeliani abbiano gradito gli appelli al la moderazione da parte dell'Occidente. E, con ogni probabilità, hanno voluto dispera tamente credere alle promesse occidentali che qualcuno — l'Onu, il G7 —, in un modo o nell'altro, avrebbe cavato la castagna ra dioattiva dal fuoco. C'è stato addirittura chi ha abboccato alla bislacca promessa di un cambio di regime a Teheran il quale, pi lotato dal cosiddetto ceto medio laico, avrebbe progressivamente messo il basto ne tra le ruote al fanatismo dei mullah.

NUCLEARE - Ma, fatto ancor più rilevante, il programma iraniano ha costituito una sfida infinitamente complessa per un Pa ese con risorse militari limitate e di tipo convenzionale qual è Israele. Prenden do l’imbeccata dall'operazione con cui l'Aeronautica militare israeliana, nel 1981, riuscì a distruggere il reattore nu cleare iracheno di Osiraq, gli iraniani hanno raddoppiato e dislocato i propri impianti, nascondendoli anche molti metri sottoterra (e a ciò va aggiunto il fatto che la distanza tra Israele e gli obiettivi iraniani è dop pia rispetto a quella con Bagdad). Per smantella re con le armi convenzio nali gli impianti iraniani conosciuti, occorrebbe una capacità aeronau tica pari a quella Usa im pegnata giorno e notte, e per oltre un mese. Nel la migliore delle ipotesi, l'aeronautica, la marina e il commando israelia no potrebbero sperare di fermare solo in parte il progetto iraniano. Il quale, tutto som mato, non subirebbe sostanziali modifi che. Con gli iraniani ancora più determi nati (ammesso che ciò sia possibile) a sviluppare quanto prima la Bomba. (Al tra conseguenza immediata sarebbe senz'altro una nuova campagna terrori stica di stampo islamista e su scala glo bale contro Israele — e forse anche con tro i suoi alleati occidentali — assieme, naturalmente, a un'involuzione presso ché generale. Manipolati da Ahmadinejad, tutti rivendicherebbero che il pro­gramma iraniano aveva scopi pacifici). Tutt'al più, un attacco convenzionale da parte di Israele potrebbe procrastina re il progetto iraniano di uno o due anni.

OPZIONI - In quattro e quattr'otto, dun que, la sprovveduta leadership di Geru salemme si troverà davanti a uno scenario apocalittico, sia che lanci un'offensi va convenzionale dagli effetti marginali, sia che opti per un attacco nucleare pre ventivo contro gli impianti iraniani, alcu ni dei quali situati vicino o dentro le prin cipali città. Ne avrebbe il fegato? La sua determinazione a salvare Israele baste rebbe a giustificare l'attacco preventi vo, con la conseguente morte di milioni di iraniani e, di fatto, la distruzione del l'Iran?

Il dilemma è stato rigorosamente chia rito già molto tempo fa da un generale molto saggio: l'arsenale nucleare israe liano a nulla può servire. Può soltanto es sere schierato «troppo presto» o «trop po tardi». Il momento «giusto» non arri verà mai. Se schierato «troppo presto», ossia prima che l'Iran si fosse procurato gli ordigni nucleari, Israele sarebbe sta to degradato a paria nello scacchiere in ternazionale, bersaglio della furia della comunità musulmana mondiale, senza più alcun Paese disposto a spalleggiar lo. Schierarlo «troppo tardi», invece, vor rebbe dire colpire ad attacco iraniano già avvenuto. E a che pro?

I leader israeliani, quindi, stringeran no i denti sperando che, in qualche mo do, le cose si aggiustino da sé. Magari, una volta ottenuta la Bomba, gli iraniani si comporteranno in modo «razionale»?

CATASTROFE - Ma questi ultimi sono guida ti da una logica superiore. Lanceranno i lo ro missili. E, come per il primo Olocausto, la comunità internazionale non muoverà un dito. Tutto avverrà, per Israele, in po chi minuti; non come negli anni '40, quan do il mondo stette cinque lunghi anni a tor cersi le mani senza battere ciglio. Dopo i lanci di Shihab, la comunità internaziona le manderà navi di soccorso e assistenza medica per quanti sopravviveranno alle esplosioni. Ma non attaccherà l'Iran. Qua le sarebbe il prezzo? E il tornaconto? Op tando per una controffensiva nucleare, gli Usa si alienerebbero definitivamente l'in tero mondo musulmano, esasperando e generalizzando il già acceso scontro di ci viltà. Ovviamente, senza potere riportare in vita Israele. E allora che senso avrebbe?

II secondo Olocausto, però, sarà diver so nel senso che Ahmadinejad non vedrà né toccherà concretamente gli individui di cui sogna tanto la morte. Anzi, non vi saranno scene come quella che sto per raccontarvi, riportata da Daniel Mendelsohn nel suo recente libro The Lost, A Search for Six of Six Million, in cui viene descritta la seconda Aktion dei nazisti a Bolechow, piccolo paesino della Polonia, nel settembre 1942.

«La signora Grynberg fu vittima di un episodio terribile. Gli ucraini e i te deschi, facendo irruzione nella sua casa, la trovarono che stava partorendo. A nulla valsero le lacrime e le suppliche degli astan ti: la portarono via, anco ra in vestaglia, dalla sua casa, e la trascinarono fi no alla piazza davanti al municipio. E lì... fu spinta a forza sopra un cassonet to per l'immondizia nel cortile del munici pio, e tra gli scherni e i dileggi della folla di ucraini presenti, insensibili al suo dolore, partorì. Il bambino le fu immediatamente strappato dalle braccia con tutto il cordo ne ombelicale. Fu scaraventato verso la folla, che prese a schiacciarlo coi piedi. Lei fu lasciata sola, con le ferite e i brandelli di carne sanguinanti, e così rimase per qual che ora, appoggiata a un muro, fino a che non fu portata alla stazione ferroviaria e, assieme agli altri, fatta salire su un vagone verso il campo di sterminio di Belzec».

Nel prossimo Olocausto non ci saran no episodi così strazianti. Non vedremo vittime e carnefici coperti di sangue (an che se, a giudicare dalle immagini di Hi roshima e Nagasaki, le conseguenze del le esplosioni nucleari possono essere altrettanto devastanti). Ma sarà comunque un Olocausto.

domenica 26 novembre 2006

Fortuna che c’è D’Alema, lui sì che la realtà “la compete”

(pubblicato sul settimanale TEMPI di giovedì 23 novembre 2006)
Il ministro D’Alema ha un vantaggio su chiunque altro: ha uno stuolo di “ammiratori” che ripete da mane a sera che egli è l’uomo più intelligente del mondo. Ciò gli rende possibile dire qualsiasi cosa, tanto ci sarà sempre chi dirà che nessuna mente è intelligente e razionale come la sua. E forse lo incoraggia a trattare sprezzantemente i suoi critici, come ha fatto di recente liquidando come “artificiose”, “pretestuose” e “caccia alle streghe” le critiche alla sua intervista in cui ha chiesto che Israele venga “fermato” con toni che molti hanno ritenuto unilaterali e tutt’altro che “equivicini”. Ha concluso sentenziando: “fine della polemica”; così dimenticando che non è in suo potere accendere e spegnere le polemiche a comando. Ci sarebbero molte altre cose da rilevare, tra cui la singolare pretesa di voler stabilire quali sono gli ebrei “democratici” e quali non lo sono.
Dice D’Alema che il governo italiano è addirittura più vicino a Israele che non al governo di Hamas contro cui applica l’embargo, “ancorché democraticamente eletto”. A parte l’ulteriore inciampo sulla democrazia, ci mancherebbe altro che l’Italia non rispettasse la decisione dell’Unione Europea. La questione è piuttosto che il ministro D’Alema non perde occasione per dare addosso a Israele, qualsiasi cosa faccia, e se critica Hamas, Hezbollah o l’Iran deve trattarsi di un caso di endofasia, visto che nessuno ha mai sentito le sue proteste, neppure quando Ahmadinejad dichiara che chiunque al mondo ha diritto ad essere tollerato salvo Israele. D’Alema imputa alla politica “di forza” di Israele persino la nascita di Hamas e di Hezbollah, che “qualche anno fa non esistevano”. Al contrario, esistono rispettivamente dal 1987 e dal 1982… E poi sarebbero i suoi critici a manifestare “assoluta incompetenza della realtà”. Quando parla di “violenza che chiama la violenza” trascura il fatto che Israele non ha nessun interesse a mettere piede a Gaza: se lo fa è perché da Gaza si continua a bombardare il suo territorio. Ma il ministro ha un’idea personale dei rapporti di causa-effetto. Difatti, egli addebita a Israele addirittura il prossimo ingresso sulla scena di Al Qaeda…
C’è da chiedersi se questo non sia un modo per mettere le mani avanti e colpevolizzare Israele persino del fallimento della missione Unifil. Questa missione – vantata dal ministro e dal premier Prodi come un evento “storico” – non ha realizzato neanche un solo punto della risoluzione 1701, salvo… il ritiro israeliano dal Libano. Non sono stati liberati “incondizionatamente” i soldati rapiti, il governo libanese non si sogna di “disarmare i gruppi armati” e di esercitare da solo l’autorità sul paese. Al contrario, Hezbollah si riarma, si rafforza e chiede maggior peso nel governo libanese. Intanto, l’Unifil non è in grado neppure di stabilire un checkpoint, ma è stato capace di minacciare Israele di usare la contraerea nel caso continui a fare voli di ricognizione. Insomma, l’Unifil serve solo a stendere un paravento sui preparativi di guerra di Hezbollah.
Questi sono i fatti. Eviti quindi il ministro di accusare i suoi critici di “incompetenza della realtà”. Oltretutto, che strano uso dell’italiano… Aver tanto a che fare con le lingue straniere non è un motivo per fare un uso discutibile della propria. Sembra un film di Totò: “lei è incompetente della realtà”, “lei si sbaglia, io la realtà la competo e la competetti!”

Giorgio Israel

venerdì 10 novembre 2006

ALLARME ISRAELE

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Da Il Foglio - 9 novembre 2006

Per una breve stagione, dopo il ritiro da Gaza, è sembrato che qualcosa cambiasse; che il mondo guardasse più benevolmente Israele; che ne capisse le ragioni e, in particolare, l’assurdità di creare uno stato palestinese governato da un movimento terrorista che nega il diritto all’esistenza di Israele. Oggi questo clima positivo è in frantumi e Israele fronteggia una condizione esterna e interna drammatica. Nello stesso giorno (20 ottobre) in cui Ahmadinejad intimava all’Occidente di “prendere nel suo interesse le distanze da uno stato che ha perso la ragione della sua esistenza”, aggiungendo “questo è un ultimatum”, il governo francese rompeva un tabù storico, dichiarando per bocca del presidente Chirac e del ministro della difesa che ai sorvoli di Israele sul Libano doveva essere posto fine “in un modo o nell’altro” e che, se i mezzi diplomatici non fossero bastati, si sarebbe fatto ricorso ad “altri mezzi”. Dunque l’Europa profila la possibilità di un confronto militare con Israele: a tanto siamo giunti.
Mi si perdonerà l’autocitazione se dico che la previsione fatta su queste pagine (12 settembre) circa la natura perversa della “trappola Unifil” si è purtroppo avverata puntualmente. Oggi Israele è messo in pericolo da una missione fallimentare che serve da paravento al riarmo di Hezbollah e al crearsi di una tenaglia iraniana tutt’attorno, mentre non una delle condizioni previste dalla risoluzione 1701 è ottemperata: non la “liberazione incondizionata” dei soldati rapiti, non il “disarmo dei gruppi armati”, non l’esercizio esclusivo dell’autorità e la detenzione esclusiva delle armi da parte del governo libanese. Intanto piovono missili su Israele da Gaza, che si trasforma in un territorio gestito sul modello Hezbollah, senza che nessuno deplori. Nella reazione israeliana cadono tragicamente dei civili creando un clima alla Sabra e Shatila, ma con una differenza: la fragilità esterna ed interna di Israele, investito da una crisi di orientamento politico e militare senza precedenti, con un ministro che chiede scusa, un altro che ribadisce la linea fin qui seguita e un terzo che blocca le operazioni militari.
Che succede? Come è potuto accadere che Israele si sia cacciato in luglio in una campagna militare condotta in modo incerto e fluttuante, ricorrendo dapprima soltanto all’arma aerea e concludendola con un’offensiva che ha prodotto perdite e nessun vantaggio diplomatico? Come è potuto accadere che Israele abbia accettato di entrare nella trappola Unifil e che il suo governo, pur non ricavandone altro che la prospettiva di una nuova guerra, continui a ringraziare chi ha costruito la trappola? Come può accadere che Israele continui a non trovare il bandolo della matassa tra diplomazia e opzione militare e non riesca a definire una linea di azione univoca guidata da un governo di emergenza nazionale che renda chiaro al mondo che sta lottando per la sopravvivenza contro un nemico che ha come unico scopo di distruggerlo?
La risposta l’ha data un giornalista di Ha’aretz, Ari Shavit, con una magistrale autocritica condotta da sinistra (“L’illusione della normalità”). E la risposta è: “il politicamente corretto coltivato per vent’anni da un’intera generazione di dirigenti israeliani”. Israele – dice Shavit – ha finito col credere che l’occupazione dei territori sia la causa di tutti i mali e che la sua potenza sia un fatto acquisito. La spesa militare è stata ridotta e il patriottismo deriso. “Nel mondo ideale del politicamente corretto, “forza” ed “esercito” sono diventati parolacce”. “Mezzi d’informazione e intellettuali hanno portato avanti un paziente lavoro di logoramento ai danni del nazionalismo e del sionismo… istillando la pratica suicida della critica dei fondamenti esistenziali” della nazione. Israele è un frammento di occidente che vive in un contesto ostile: perdere la consapevolezza di uno di questi due aspetti è, per Israele, quanto perdere l’identità. Israele ha voluto essere Atene – prosegue Shavit – ma in quelle terre non vi è futuro per un’Atene che non sia anche Sparta.
La crisi della fiducia in sé stessi può significare non riuscire a trovare la via né per la pace né per la guerra. Sarebbe un grave errore pensare che questa sia un’anomalia israeliana che non ci riguarda. De te fabula narratur. Il ciglio su cui si trova Israele è il medesimo verso cui si avvia l’occidente. Il suo dramma è il paradigma di un dramma che sta nel nostro vicino orizzonte.

Giorgio Israel

sabato 4 novembre 2006

Ma sì, ha ragione Giorello. Buttiamola in allegria

Pubblicato sulla rivista TEMPI (distribuita il giovedì con Il Giornale), 2 novembre 2006

Giulio Giorello mi bacchetta per aver difeso il discorso del Papa a Ratisbona. È turbato perché sarei intriso di “fondamentalismo religioso”; e trova deplorevole il mio discorso sulla necessità che l’occidente si liberi dei “demoni” dell’odio di sé, del relativismo e dello scientismo. Dice di non essersi imbattuto in simili “lagne” da molto tempo.
Non è un buon segno che uno sia ridotto a controbattere gli argomenti altrui con epiteti (“lagne”, “fondamentalismo religioso”), oppure parlando di pretesi “errori” contenuti in un mio libro su tutt’altro argomento. Oltre a evocare la classica situazione della casa dell’impiccato in cui si parla di corda, è una manifestazione di forza argomentativa e di “stile” che parla da sola.
Nel merito, Giorello mi rimprovera di aver criticato l’ex presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Amos Luzzatto perché aveva invitato il Papa ad andare addirittura “oltre le scuse” nei confronti di chi lo stava minacciando di morte per aver espresso il suo pensiero. Luzzatto aveva incitato a restare sul terreno politico, che permette il compromesso, mentre il confronto ideologico o teologico non lascerebbe possibilità di soluzione. Osservavo, e ribadisco, che la questione si gioca sul terreno religioso e che è mediocre pragmatismo far finta che le difficoltà che nascono su questo terreno possano essere aggirate politicamente. Giorello ne deduce che avrei accusato Luzzatto di non essere stato ideologico… e invita l’“amico Giorgio” a coltivare un sano pragmatismo invece di attardarsi nelle “lagne”.
Sarebbe interessante approfondire cosa dovrebbe essere questo pragmatismo. Di sicuro non impicciarsi delle idee altrui. Il motto potrebbe essere una parafrasi dell’appello per l’educazione: «Se ognuno si facesse i fatti propri tutti starebbero meglio». Per esempio, se il professore francese Redeker fosse stato pragmatico, avrebbe tenuto la penna a posto, e non si sarebbe attirato la condanna a morte degli “ideologi” con quell’articolo sul Corano. E quanto starebbe meglio Magdi Allam se fosse un po’ più pragmatico, invece di parlare di Corano e di Islam un giorno sì e l’altro pure. Certa gente se la tira proprio, come Daniela Santanché: se uno ha l’idea balzana di discutere con l’imam di Segrate è ovvio che si becca una condanna come “infedele” e “seminatrice di odio”. Insomma, agiscono bene quei politici e intellettuali che alle sparate teologiche e storiche del presidente Ahmadinejad sull’inevitabile trionfo della vera fede e sulla Shoah che non sarebbe mai esistita, oppongono un pragmatico silenzio o stendono la mano. Oppure fanno i raffinati, come quell’esponente del Pdci secondo cui il negazionismo di Ahmadinejad sarebbe la risposta “folle” a chi pretende di giustificare ogni azione di Israele sulla base del ricordo dell’Olocausto ebraico. Per cui, occorre “interrompere immediatamente ogni strumentalizzazione”: l’offeso non è l’indifendibile Israele ma l’antifascismo…
Mi viene voglia di definire questo pragmatismo “odio di sé”, ma dopo la reprimenda di Giorello non oso più. Basta con le “lagne”. “Allegria!”, diceva Mike Buongiorno. Anche l’amico Giulio sia coerente e la prossima volta, invece di cercare argomenti finti, la butti sul leggero: ricorra al pernacchio napoletano, almeno ci divertiremo tutti. Non meno di quanto ci ha fatto divertire dichiarando di preferire alle metafore del Papa il razionalismo del profeta Muhammad.

Giorgio Israel

sabato 30 settembre 2006

Razzismo antisemita europeo




La vignetta è stata pubblicata sul giornale spagnolo El Mundo.
Raffigura un soldato israeliano dal tipico naso adunco "giudaico".
Ha perso un occhio e un dente.
Tuttavia, invece del classico "occhio per occhio, dente per dente", torna con due sacchi rispettivamente stracolmi di denti e di occhi.
Ogni commento è superfluo.

martedì 19 settembre 2006

Scuse? Troppo poco. Un bel gesto di sottomissione e torniamo a farci i fatti nostri. La strategia di Luzzatto

Il Foglio - martedì 19 settembre 2006


Sono rimasto allibito – e non da solo – leggendo l’intervista rilasciata da Amos Luzzatto alla Repubblica (17 settembre) sotto il titolo “Le scuse non sono sufficienti, occorre un segnale diverso”. Si tratta delle scuse che il Papa deve porgere all’Islam e che, secondo Luzzatto, non bastano: occorre di più, un gesto di “apertura” verso l’Islam. Cosa vorrà mai dire? Convertirsi?
Una persona che conservi intatta la libertà di pensare, o che semplicemente sia libera, non può non fare una constatazione: la reazione ad affermazioni ritenute offensive, in quanto avrebbero asserito il carattere intrinsecamente violento della religione islamica, è stata di una brutalità smisurata, con minacce di distruzione, di morte, e assortita di violenze effettivamente esercitate (attacchi a chiese e persino l’omicidio di una suora), grotteschi ritiri di ambasciatori e affermazioni integraliste deliranti (“la religione musulmana è la sola bella, e tutto il mondo si dovrà convertire all’Islam”). Un simile scenario riporta alla memoria la reazione seguita alla vicenda delle vignette su Maometto: un mondo islamico che produce senza ritegno un’iconografia altamente offensiva dei simboli religiosi e dei libri sacri del cristianesimo e dell’ebraismo, mostrò di ritenere che soltanto la religione musulmana debba essere rispettata. Oggi, lo spettacolo tragicomico degli “offesi” che dimostrano con la loro reazione la fondatezza dell’imputazione, avrebbe dovuto suggerire a chiunque conservi un minimo di spirito libero di non chiedere al Papa di scusarsi.
Potremmo chiudere qui. Ma forse qualche soffio di razionalità circola ancora, per quanto reso flebile dal terrore, e quindi possiamo tentare qualche ulteriore riflessione. Qual era, in fin dei conti, il senso del discorso del Papa a Ratisbona?
Sono proprio le “scuse” del Papa – che, fortunatamente, non sono scuse, bensì una puntuale precisazione – a indicare l’intento di quel discorso. «Sono rammaricato – ha detto Benedetto XVI – per le reazioni suscitate da un breve passo del mio discorso all'Università di Ratisbona, ritenuto offensivo per la sensibilità dei credenti musulmani». Quindi: rammarico “per le reazioni”, e precisazione che la citazione è stata “ritenuta” offensivo in quanto erroneamente considerata espressione del pensiero del Papa; e riaffermazione della volontà di dialogo, “nel rispetto reciproco” – “reciproco”, è un aggettivo che va sottolineato.
Sono anni che il cardinale e ora Papa Ratzinger si adopera a rimuovere le radici più profonde dell’odio, che affondano nel terreno teologico. Nessuna dichiarazione irenista e di buona volontà può bastare se non si mette mano con cautela e coraggio alla sorgente profonda delle incomprensioni e dell’odio. Secondo Luzzatto bisogna restare sul terreno politico, perché questo riserva possibilità di compromesso, mentre «quando si passa a un confronto di carattere ideologico o teologico le possibilità di soluzione diventano esilissime». Ma così non si vede che la questione si gioca sul terreno religioso. Far finta che difficoltà che nascono su questo terreno possano essere “cortocircuitate” sul terreno politico, è una forma di mediocre pragmatismo. Evidentemente, Luzzatto, sebbene si fregi del titolo di ex-presidente delle comunità ebraiche italiane, non crede che il fattore religioso abbia rilevanza o, peggio, ritiene che sia un fattore negativo che occorre evitare come la peste, per non impantanarsi in una palude in cui non esistono vie d’uscita. Ma una simile visione, pur se legittima, è assolutamente irrealistica se rigetta l’obbiettivo di combattere a viso aperto l’integralismo di chi ha come scopo esplicito quello di piegare il mondo intero alla fede musulmana. Paradossalmente, la logica di Luzzatto esclude, in quanto “pericoloso”, il confronto franco e razionale, e lascia aperte soltanto due alternative: la guerra totale oppure l’assoggettamento, ovvero la “dhimmitudine”. Constatiamo che egli indica al Papa la seconda, invitandolo a piegarsi alla sopraffazione e cancellando dall’orizzonte il principio della libertà di pensiero e di espressione.
Ma torniamo alla linea di approfondimento teologico seguita da Ratzinger. Per quanto riguarda il secolare tema dei rapporti ebraico-cristiani, egli è andato al di là delle pur importantissime dichiarazioni di fratellanza per abbordare le questioni teologiche che ostacolano un dialogo rispettoso delle fedi e concezioni rispettive, senza indulgere al sincretismo. Il documento della Pontificia Commissio Biblica su “Il popolo ebraico e le sue Sacre Scritture nella Bibbia cristiana” (2001) rappresenta, a mio avviso, uno dei più profondi e costruttivi contributi all’esame dei passaggi attraverso cui una lettura tendenziosa dei Vangeli ha portato alla diffusione di sentimenti antiebraici. Chi scrive non è sospettabile di indulgenza nei confronti dell’antisemitismo cristiano. Ma è proprio lo sguardo non indulgente che consente di apprezzare i passi avanti compiuti e che, pur nella consapevolezza degli ostacoli da rimuovere, permette di dire che, sì, è possibile, anche sul terreno difficile – ma non aggirabile – della teologia, stabilire un terreno di dialogo e di comprensione. Del resto, le religioni ebraica e cristiana sono basate sull’idea che i testi sacri sono “rivelati” ma espressi nella parola umana, e quindi assoggettati all’interpretazione. Il “commento” è la via maestra per il confronto delle differenze nel reciproco rispetto.
La scelta di Benedetto XVI è di perseguire sul terreno del confronto teologico la sconfitta dell’intolleranza e dell’idea insana che la “verità” che si ritiene possedere possa essere affermata con la violenza e con la guerra santa. Il cristianesimo ha peccato su questo piano ma è altrettanto chiaro che, da quasi mezzo secolo, la Chiesa Cattolica si è avviata sulla strada di un coraggioso riconoscimento di questi errori e della revisione delle interpretazioni teologiche che hanno alimentato le tragedie del passato. Perché mai l’Islam dovrebbe essere esente da un simile processo di revisione proprio mentre dal suo seno si levano così forti propositi aggressivi basati su motivazioni religiose? Il discorso del Papa a Ratisbona ha affrontato il tema delle radici teologiche del concetto di guerra santa nell’Islam, con dotte citazioni che non implicavano l’adesione alla lettera della frase di Manuele II Paleologo, ma mettevano sul tappeto “la” questione. Un mondo islamico tollerante e aperto al dialogo avrebbe dovuto cogliere questo discorso come un’occasione di riflessione e di confronto. Abbiamo invece assistito a un’esplosione di minacce e violenze, in forme disonorevoli per chi le ha pronunciate e messe in atto.
È curioso. Per duemila anni gli ebrei hanno visto attaccata la loro religione nelle forme più truculente. Eppure nessuno ha mai pensato di rispondere con la minaccia di morte nei confronti di coloro che denigravano la religione ebraica. Al contrario. Quando non si trattava di accuse volgari – magari sfocianti nella solita tematica del deicidio – ma di critiche, esse venivano discusse, confutate e magari ribaltate razionalmente. È forse illegittimo difendere propria fede e criticare i principi dell’altra, fino a che si resta entro i giusti limiti della critica rispettosa?
Si pensi alla celebre disputa di Barcellona (1263) tra il rabbino Moshe ben Nachman (Nachmanide) e il predicatore cristiano Pablo Christiani. Rileggerla è istruttivo, perché Nachmanide vi sosteneva le ragioni della fede ebraica e confutava i principi del cristianesimo in modo assai fermo e pungente. Nella disputa, Christiani non si accontentò di replicare. Accusò Nachmanide di aver offeso la fede cristiana, e scatenò un’ondata di terrore, imponendo la conversione forzata a masse di spettatori della disputa. Questi venivano arruolati per contestare violentemente Nachmanide, fino a creare un clima di violenza tale che il confronto si concluse con l’esilio del rabbino in Palestina. Se pensiamo alle frasi “offensive” con cui Nachmanide negava la divinità di Cristo e contestava la “falsità” dei dogmi della religione cristiana, e seguiamo la logica di Luzzatto, Nachmanide avrebbe dovuto chiedere scusa alla Chiesa, all’Inquisizione, e anzi le scuse non sarebbero bastate. Avrebbe dovuto aprire un dialogo politico…
Per secoli, il cristianesimo ha rimproverato all’ebraismo di non aver assimilato l’idea della carità ed è stato ricambiato – penso, per restare a tempi recenti, agli scritti del rabbino Elia Benamozegh, noto anche come il “Platone dell’ebraismo italiano” – con l’accusa di ignorare l’idea della giustizia. Non trovo nulla di male in simili reciproche contestazioni, fino a che sono condotte sul terreno della dottrina e del confronto civile delle opinioni. I guai iniziano quando queste contestazioni degenerano sul terreno della denigrazione e dell’incitamento all’odio e, infine, sul terreno della persecuzione. L’ebraismo è stato vittima di tale degenerazione per duemila anni, e lo è ancora – religione di scimmie e porci, secondo una locuzione corrente in quegli ambienti che, secondo Luzzatto, dovrebbero ricevere le scuse, e qualcosa di più delle scuse, del Papa. È quindi con profondo imbarazzo che si assiste al fatto che un intellettuale ebreo, che si proclama laico e si fregia del titolo di ex-presidente delle comunità ebraiche italiane, si schieri dalla parte del fanatismo e dell’intolleranza.

Giorgio Israel

giovedì 7 settembre 2006

IN LIBRERIA



"Liberarsi dei demoni. Odio di sè, scientismo e relativismo", Editore Marietti 1820, Milano-Genova, 2006, pp. 332, € 20,00

DALLA PREMESSA:

I “demoni” sono il mito della palingenesi sociale e il mito della gestione scientifica dei processi sociali. Essi hanno alimentato le ideologie dei totalitarismi del secolo scorso, sono all’origine delle tragedie che hanno squassato l’Europa e l’hanno condotta verso un declino di cui è da temere l’irreversibilità. Tanto più il timore è fondato quanto più i demoni sono ancora vivi e vegeti e contagiano l’Occidente sotto la forma dell’ideologia del relativismo assoluto, di uno scientismo meccanicista che mina alle basi una visione umanistica della società e di un corrosivo “odio di sé”. Quest’ultima manifestazione ha origine nell’idea aberrante che l’umanità debba essere ricostruita dalle fondamenta ed esprime un male caratteristico dell’Occidente moderno: si tratta di quella capacità – così bene descritta da François Furet – di generare uomini che odiano l’aria che respirano senza averne mai conosciuta un'altra. Le manifestazioni più estreme di questa malattia – Lager e Gulag – esprimono nel modo più evidente quei miti fondatori: mitologie palingenetiche (politica razziale o programma di purificazione sociale), gestione scientifica dei processi sociali (deportazione, lavoro forzato, sterminio di massa). Purtroppo l’Europa compie continue azioni di penitenza per i mali commessi ma non sembra aver compreso le cause della malattia. L’“odio di sé” si manifesta in forme marcate nelle ideologie del postcomunismo e del pacifismo alterglobalista e anti-occidentale; mentre l’adesione acritica all’ideologia scientista assume le forme di un relativismo di radicalità estrema che nega ogni spazio all’etica, alla morale e alla religione nella vita pubblica, e oltretutto nega il valore conoscitivo della scienza, contribuendo così ad un ulteriore degrado culturale e civile.
I demoni rappresentano oggi la quinta colonna di un attacco all’Occidente di cui è protagonista l’integralismo islamico. Sconfiggerli è una condizione necessaria perché questo attacco non abbia successo e perché il tragico cammino verso la barbarie iniziato nel Ventesimo secolo venga interrotto. È una sconfitta che richiede una battaglia culturale, civile e morale che ha come fronte primario quello dell’educazione, oggi sempre più in preda a spinte distruttive. Si può obbiettare che i temi qui sviluppati sono troppo astratti rispetto all’urgenza delle drammatiche sfide che ci stanno di fronte. A ciò rispondiamo che il richiamo alla “concretezza” è l’ideologia della mediocrità che, sfiorando i problemi in superficie, porta a ignorare la realtà e quindi alla peggiore astrattezza.
Il libro si compone di due parti. La prima è costituita da un saggio che sviluppa queste tematiche nella loro generalità. La seconda parte raccoglie una serie di contributi più specifici che spaziano dall’analisi delle forme dello scientismo, al rapporto tra scienza, etica e religione, con particolare riferimento al recente dibattito sui temi della procreazione assistita e delle biotecnologie.

domenica 27 agosto 2006

LA BIOETICA E LA RICERCA DELLA FELICITA'



Meeting di Rimini - Martedì 22 agosto 2006 - ore 17

Perché si dice tanto spesso che le biotecnologie contemporanee hanno un carattere disumano e addirittura si evoca il nazismo in relazione ad esse? Non è forse esagerato accostare pratiche che hanno come scopo dichiarato la felicità dell’uomo con le pratiche dello sterminio di massa? È vero, c’è un tratto di collegamento tra queste due pratiche. Esso è rappresentato dal programma dell’eugenetica e non è un caso se questo fastidioso fantasma costringe i fautori meno acritici delle biotecnologie contemporanee a sottolineare ciò che le separa dalla vecchia eugenetica. Essi sottolineano che questo tratto di collegamento è lungo, molto lungo, talmente lungo da rendere eccessivo e persino arbitrario l’accostamento.
Per questo molti protestano contro quell’accostamento e dichiarano che esso costituisce una vera e propria offesa e aggressione alla scienza ed alla ragione scientifica.
Per parte mia voglio limitarmi a dare un solo indizio che mostra perché sia legittimo temere l’affacciarsi di una nuova eugenetica, non meno pericolosa di quella di un tempo. Mi limiterò a indicare come quel tratto di collegamento sia costituito da un aspetto molto grave e pesante, e cioè la disumanizzazione. Per spiegarmi, invece di sviluppare analisi articolate, mi baserò su una citazione letteraria, tratto da uno dei romanzi più straordinari dei nostri tempi: Vita e destino di Vassili Grossman.
Così descrive Grossman l’apparire di un campo di concentramento:
«Il recinto del campo uscì dalla nebbia…. Gli allineamenti delle baracche formavano strade larghe e rettilinee. La loro uniformità esprimeva il carattere inumano del campo. Fra i milioni di isbe russe non ve n’è e non ve ne possono essere due perfettamente simili. Ogni vita è inimitabile. L’identità di due esseri umani, di due cespugli fioriti è impensabile… La vita diventa impossibile quando si cancellano con la forza le differenze e le particolarità».

Ebbene, potrà – a prima vista – sembrare un accostamento forzato, ma a me pare la questione cruciale. Il principio della disumanizzazione – da cui può derivare ogni sorta di deviazione e anche di nefandezza – si ha quando non si concepisce più l’uomo come qualcosa di unico, come una persona, ma quando lo si concepisce alla stregua di una macchina.
Per questo penso che una sorgente fondamentale di danni e persino di tragedie stia nella concezione dell’uomo come una macchina, che ci viene proposta dal materialismo scientista da qualche secolo, e con crescente insistenza.
La scienza ha conseguito i suoi più grandi successi nel campo dei fenomeni inanimati e il centro di questi successi è proprio l’idea di poter considerare delle classi di oggetti e di fenomeni come identici e quindi applicare ad essi un principio di ripetibilità: se faccio questo e questo, accadrà sempre questo e questo. La tecnologia e i suoi successi si basano proprio su questo principio. Come potrei costruire una macchina (e venderla senza suscitare lo scontento degli acquirenti), come potrei lanciare un razzo verso un obbiettivo, senza essere certo che, almeno entro un margine ragionevole di errore, quel che ho previsto e garantito, accadrà davvero?
Il guaio è iniziato quando – sotto l’influsso dell’esaltazione per i successi conseguiti da questo metodo – si è pensato di applicarlo ad altri contesti, in particolare a quello dei fenomeni della vita.
Della medicina si è a lungo detto che non è una scienza vera e propria, ma un’arte, perché coniuga l’applicazione di principi generali e regole di una certa uniformità a un ambito in cui l’aspetto individuale è ineliminabile. Ma da qualche tempo, la medicina è cominciata a divenire qualcos’altro, qualcosa di molto simile alla fisico-chimica e la sua pratica rassomiglia sempre di più a quella della riparazione delle macchine guaste.
Eppure è facile constatare quanto questa china presa dalla medicina sia sbagliata, fuorviante e pericolosa.
La nostra conversazione ruota attorno al tema della felicità. E allora chiediamoci: che cos’è la felicità di una macchina? Per esempio della nostra automobile? È semplice: funzionare bene, secondo i parametri descritti nel libretto di garanzia e di manutenzione. Funzionare bene significa che il motore è efficiente in tutte le sue parti, che la carrozzeria non è sconnessa, che le ruote hanno una buona aderenza, e così via. Se qualcosa non va, per esempio se la carburazione non funziona bene, sappiamo bene cosa fare: una serie di operazioni di sostituzione mirate riporteranno la nostra macchina al suo stato precedente. Almeno per quella funzione, sarà come se la macchina fosse appena prodotta. E, in linea di principio, io posso sempre ricondurla allo stato di “salute” originario.
Posso fare lo stesso con un essere umano?
Certamente no. Perché, come ha bene osservato lo storico della medicina Georges Canguilhem, «ogni guarigione non è mai un ritorno allo stato di innocenza biologica», e la definizione dello “stato di salute” è quanto mai sfuggente.
Lo stato di salute che una persona ritrova dopo una malattia è un nuovo equilibrio che differisce profondamente da quello in cui egli si trovava prima, sia dal punto di vista fisico che – e ancor di più – dal punto di vista psicologico. Eppure egli può trovarsi in una forma di benessere e di felicità parimenti soddisfacente, e persino più soddisfacente di quella precedente, che però con la precedente ha poco o nulla a che fare. Anzi, l’esperienza della malattia può essere fonte di un nuovo stato che procura nuove riflessioni, l’acquisizione di nuovi pensieri e sentimenti, e persino una felicità sconosciuta in precedenza, più intensa, profonda e inattesa.
La felicità di una persona umana non è uno stato definibile in termini strettamente oggettivi, tantomeno uniformi per ogni persona.
Guardiamo, ad esempio, alla definizione di salute data dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. Essa rappresenta un esempio plateale di contaminazione meccanicista. “Salute” – ci si dice – è uno «stato di completo benessere fisico, mentale e sociale». È perfino impietoso insistere sul carattere tautologico di questa definizione. Cos’è benessere? bisognerebbe chiedere… E quando una persona può dire di essere in uno stato di benessere fisico, mentale e sociale “completo”? Non è la vita un fluire di situazioni diverse, in cui uno stato di malessere fisico può accompagnarsi a uno stato intenso di appagamento emotivo? Non si tratta di un processo in cui continuamente ci assestiamo su nuovi equilibri, tutti instabili, che si succedono l’uno all’altro proponendo nuove situazioni inaspettate?
Cosa diventa il cultore della “salute” entro una concezione del genere, se non una parodia del medico? Egli diventa un meccanico del corpo umano, che chiude gli occhi, le orecchie e la bocca per non comunicare con la “persona” che ha di fronte. La disumanizza, ne elide i tratti specifici e individuali. Come un fisico-matematico, quando tratta del moto dei pianeti prescinde dal loro colore o da altre caratteristiche secondarie, e li considera come una massa di materia sferica o addirittura assimilata a un punto, così il medico meccanicista, trascura le caratteristiche individuali della persona malata, per considerarla come una macchina e ripararne la funzionalità degli organi. Oltretutto lo farà in conformità a una visione del corpo inteso come un aggregato di parti indipendenti – come lo sono il carburatore e la dinamo di un’auto – per cui lo specialista del fegato guarderà al fegato, ignorando il resto e quello del cuore si occuperà del cuore ignorando il resto.
Ma torniamo all’idea di salute come stato. Perché essa ci fornisce un ulteriore indizio per comprendere la disumanizzazione che sta introducendosi nella visione contemporanea dei fenomeni della vita.
Ho letto in più luoghi delle definizioni di bambino profondamente indicative al riguardo. Un bambino sarebbe un “essere che non è ancora completo”, un essere “sulla via di”. Ne consegue che esisterebbe uno stato di completezza e maturità dell’individuo adulto cui il bambino tende, mentre, in quanto tale, esso è ancora un essere incompleto, qualcosa in via di formazione verso l’obbiettivo. Secondo certi aspetti – la statura, l’apparato dentario e altre caratteristiche consimili – ciò è certamente vero e persino ovvio. Ma, in senso generale, si tratta di un’idea non soltanto sbagliata, ma profondamente fuorviante. Chi, fra i presenti, può seriamente asserire di essere un individuo che ha raggiunto uno stato di realizzazione completa e stabile? E chi può seriamente identificare, nella propria vita, l’istante in cui è avvenuta la propria realizzazione, la realizzazione del proprio essere adulto? Non soltanto questo è sbagliato perché ognuno di noi è consapevole di vivere in un processo di cambiamento continuo in cui la propria identità affronta continui processi di modificazione e assume nuove finalità di esistenza. Ma è eticamente e moralmente sbagliato, perché il bambino non è un essere parziale in attesa della sua completa formazione, bensì anche in questo processo di formazione è un soggetto, una persona a pieno titolo e che vive una vita piena.
Essere bambini non è vivere una vita menomata o parziale, in attesa di conseguire quella “vera” o, peggio ancora, vivere una vita che ha come funzione e scopo la costruzione della vita “vera”. Un bambino non è una macchina in costruzione. Un bambino è una persona che vive una fase della propria vita. Il gioco del bambino non è una mera forma di apprendimento, è gioco e basta, e il suo fine è anche e soprattutto la felicità che esso da. Oppure vorremmo far credere che l’unica fase della vita in cui il gioco è puramente gioco è quella adulta – perché l’individuo ha raggiunto la sua completezza – mentre nei primi anni della vita è apprendimento mascherato?
Capite che questo è un punto cruciale. Perché se un bambino non è una persona, ma un essere in formazione, allora la finalità del suo essere bambino è rappresentato da quel che quella persona vogliamo che sia, e non dalla sua vita reale e presente, dalle gioie effettive che egli può vivere; essa è rappresentata da quel che deve essere secondo il piano che ci siamo fatti noi adulti del suo futuro. Se ammettiamo questo modo di vedere, allora ammettiamo che quando nasce un bambino non nasce una persona, ma nasce un progetto, anzi un nostro progetto. Perciò, in una simile ottica, sarà perfettamente ammissibile programmare un bambino che diventi l’adulto che vogliamo: bello, forte, senza malattie, intelligente (ma che vuol dire intelligente?), di successo (ma perché la nostra idea di successo dovrebbe essere universale e perché ciascuno dovrebbe aspirare al successo?), simpatico, longevo.
È curioso. Per decenni, stuoli di psicologi e di educatori hanno predicato contro la pedagogia impositiva, contro l’idea di trattare i bambini come oggetti da manipolare secondo le finalità e le aspirazioni di felicità dei genitori – devi studiare il pianoforte, fare fisica, diventare un Nobel della medicina, battere il record del salto in alto – e hanno incitato a trattare i bambini come esseri autonomi di cui occorre favorire le propensioni, sia pure in un quadro di regole etiche e dei principi elementari della vita associata, e non costringere entro i nostri progetti. Insomma, ci hanno incitato ad aiutare la crescita dell’albero, correggendone le cattive tendenze, ma delicatamente, in modo da lasciarlo libero di svilupparsi secondo le proprie propensioni individuali.
Ed ecco che arriva la scienza meccanicista, e con la sua indiscussa e temibile autorità, spazza via tutto e restaura una visione autoritaria del ruolo dei genitori che fa impallidire i rigori della famiglia patriarcale, mentre il pedagogisti di cui sopra si genuflettono. L’ingegneria genetica e le scienze (si fa per dire) della procreazione programmata conferiscono ai nuovi genitori democratici la possibilità, tra mille carezze e baci democratici, di determinare i figli secondo il loro piacimento e le loro più segrete idiosincrasie: promette loro il potere assoluto di scegliere il sesso, di farli biondi e con gli occhi azzurri, robusti e simpatici, mai depressi e soprattutto felici. Senza curarci di quel che essi veramente vorranno e cosa sarà per loro il conseguimento della felicità.
Non intendo qui occuparmi degli aspetti prettamente scientifici di queste promesse della nuova eugenetica, perché pur sempre di eugenetica si tratta. Ho una formazione scientifica di carattere matematico, e quindi nelle cosiddette “scienze dure”. E, da questo punto di vista, trovo assolutamente sconcertante la leggerezza con cui viene presentato come credibile un certo determinismo biologico e, in particolare, genetico. I fisico-matematici sanno da un secolo che è impossibile persino dire qualcosa di certo circa la stabilità del sistema solare, perché non siamo in grado di trattare in modo esatto neppure il moto di tre corpi celesti. Figuriamoci se ha senso garantire l’esito di manipolazioni genetiche in cui intervengono elementi e processi di una complessità infinitamente maggiore rispetto a quella dei fenomeni fisici! Chi promette un risultato sulla base di un principio deterministico del genere non è uno scienziato, ma semplicemente un ciarlatano. Ovvero, un apprendista stregone che manipola senza avere alcuna idea seria dell’esito delle sue operazioni.
L’aspetto più grave è che si da per certa la possibilità di ottenere effetti mentali o caratteriali sulla base della manipolazione genetica. Questo assunto si basa su un’ipotesi che non ha nulla di scientifico, e che è semplicemente un’assunzione metafisica materialistica, e cioè che tutti gli aspetti mentali siano determinati dai geni. Quando si dice che le neuroscienze ci hanno condotto a una migliore comprensione dei processi mentali, si dice qualcosa che non ha il minimo fondamento. Le neuroscienze e la genetica ci permettono di capire sempre di più cosa accade nel nostro cervello quando si verificano certi processi mentali, ma non ci dicono e non ci possono dire nulla circa questi processi mentali. Tantomeno è lecito dire che nei geni e nei neuroni stiano le cause dei processi mentali e i fondamenti del nostro carattere. Tanto varrebbe dire che, siccome quando vedo la persona amata mi batte il cuore, il cuore produce l’amore.
È importante approfondire e criticare in dettaglio queste visioni materialistiche – per quanto la loro grossolanità induca nella tentazione di liquidarle sommariamente – perché da esse derivano una serie di conseguenze disastrose che riguardano direttamente uno dei temi principali di questa conversazione: la bioetica. La principale di queste conseguenze è la pretesa di voler ricavare i principi dell’etica e della morale dall’analisi della struttura neuronale del cervello. Prodotto esimio di questa visione è la cosiddetta neuroetica che pretende, ad esempio, di mostrare l’emergere del “sé etico”, della coscienza etica, dalle sinapsi.
Anche qui meriterebbe soffermarsi sulla fragilità, per non dire l’inconsistenza, di queste sedicenti teorie scientifiche. Ma voglio limitarmi a un’osservazione dall’esterno. Qual’è la modalità con cui, in fin dei conti, vengono definiti i principi etici, su questa base materialistica? Si tratta nientemeno che di quell’approccio che in matematica, e in economia, si chiama una procedura di ottimizzazione dell’utilità. Principi etici e raggiungimento della felicità sarebbero conseguenza del fatto che il nostro organismo tende alla massimizzazione di tutti i parametri che ne caratterizzano il comportamento.
È quasi superfluo dire che la vita reale – né la vita delle persone, né la vita associata – non risponde affatto a un criterio di ottimizzazione dell’utilità, se non per aspetti marginali.
Noi constatiamo con evidenza che la vita è fonte di eticità – ma la vita nella sua pienezza, non soltanto nel suo mero lato materiale, bensì nella sua pienezza spirituale. E la sorgente di questa spiritualità non è riconducibile a fattori meramente fisici. Anche se determinassimo una correlazione tra sinapsi ed emergenza della coscienza etica, si potrebbe chiedere al nostro pseudo-scienziato – in realtà, metafisico della più bell’acqua – perché mai la struttura sinaptica è stata fatta in quel modo. E noi l’abbiamo trovata fatta in quel modo, non è stata fatta da noi. Questo è il vero grande enigma. E cioè che, malgrado la ricerca della felicità abbia senso soltanto come realizzazione dei fini della persona nella sua irriducibile particolarità, la vita faccia emergere dei principi etici e morali aventi un valore generale e che si impongono alla coscienza individuale. Su questi temi, e in particolare sul tema delle fonti dei principi etici e morali, le scienze naturali non hanno nulla da dire. Questa è una sfera che appartiene al dominio dell’esperienza religiosa o della riflessione filosofica, comunque allo sforzo di noi esseri finiti di attingere alla dimensione dell’infinito.
Torniamo così, per concludere, al tema della felicità.
Anche qui, noi vediamo chiaramente la miseria di una concezione scientista della felicità che vuol definirla in termini di pura e semplice massimizzazione di un non meglio definito “benessere”, il quale poi – proprio perché è difficilmente definibile – si riduce alla ricerca dell’ottimizzazione delle “performances”.
L’autentica felicità tocca il tema del rapporto con l’infinito. L’autentica felicità è è incomprensibile e impensabile separatamente dal dolore. E non soltanto per una mera ragione di contrasto, come se la felicità-benessere fosse il positivo e l’infelicità-malessere il suo negativo, il suo opposto algebrico. Dolore e felicità sono inestricabilmente connessi e poche cose sono talmente enigmatiche e affascinanti quando questo intreccio infinitamente complesso.
Voglio permettermi un riferimento personale. in un momento difficile della mia vita un mio caro amico scrittore, recentemente scomparso, che aveva grande sensibilità per la complessità dell’animo umano, mi disse in tono scherzoso: “Certo, ora tu soffri, ma quando tutto sarà passato ti renderai conto di quanto ti sei divertito”. Naturalmente “divertito” era un termine volutamente grossolano per sottolineare con forza quanto la sofferenza possa essere fonte di vitalità.
Tema centrale di questo Meeting è l’infinito. Ed è quindi persino banale pensare a Giacomo Leopardi e al suo poema “L’infinito”.
Leopardi… Difficile pensare a un uomo più infelice. Deforme, solo, depresso, chiuso nell’astio per il mondo circostante. Può parlarsi di salute, nel senso dell’OMS, per una persona come lui? Non riscontriamo nella sua persona nessuno stato di ottimalità biologica e mentale.
Eppure questo gobbo infelice – scusate il termine, ma non amo il politicamente corretto – trascinato dal suo senso del dolore ad annegare nell’immensità dell’infinito, ha spiegato quanto fosse straordinariamente dolce “naufragare in questo mare”. E ci ha fatto toccare, con poche parole, una dimensione di felicità ineguagliabile, la felicità autentica, perché è quella che nasce in quegli attimi miracolosi in cui percepiamo l’infinito.

Giorgio Israel

venerdì 25 agosto 2006

La "nuova" politica estera italiana

Il ministro degli esteri Massimo D’Alema farebbe bene a non dare troppo ascolto al coro adulatorio che tutti i giorni vanta la sua insuperabile intelligenza. Difatti, per quanto lucido egli sia, rischia di illudersi di poter far credere al prossimo qualsiasi cosa, per esempio che egli sia “equivicino” tra le parti in Medio Oriente. Gettare alle ortiche l’uso di questo infelice aggettivo non potrebbe che far bene. In primo luogo perché, essere equidistante tra Israele e un movimento terrorista come Hezbollah non è degno del ministro degli esteri di un paese democratico. In secondo luogo, perché neppure coloro che ripetono da mane a sera il mantra della superiore intelligenza di D’Alema possono più credere alla favola che egli sia equidistante. Per quanti sforzi egli faccia per celare i suoi sentimenti, essi spuntano da tutti i lati come un pezzo di gomma che si cerchi di comprimere in uno spazio troppo piccolo.
L’onorevole D’Alema usa respingere le critiche dicendo che è inammissibile che ogni accusa a Israele sia tacciata di antisemitismo. Ma si tratta di uno stratagemma inutile. Qui non si parla di antisemitismo. Si parla semplicemente del fatto che l’insopportazione e l’antipatia di D’Alema per Israele, la sua mancanza di obbiettività e di apertura mentale nei confronti di Israele e delle sue ragioni, esce da tutti i pori come il pezzo di gomma di cui si diceva.
Non faremo qui l’elenco delle condanne passate di D’Alema contro la politica di Israele, con termini durissimi che mostrano quanto D’Alema sia capace di indignazione morale quando vuole. Ricorderemo soprattutto un’intervista rilasciata in rete alcuni mesi fa in cui D’Alema manifestò in modo quanto mai chiaro la sua profonda antipatia per Israele e per gli Stati Uniti, parlando di superiorità dell’Europa rispetto a coloro che credono di portare la democrazia con la violenza di stato. Naturalmente, siccome D’Alema è una persona intelligente, si rese conto del ridicolo dell’affermazione e osservò che, certo l’Europa ha avuto Auschwitz, ma che “proprio per questo” aveva capito la lezione. Come si usa dire, peggio la toppa del buco.
La lista delle manifestazioni di sdegno morale di D’Alema nei confronti di Israele è tanto lunga quanto è corta quella delle critiche – per non dire delle condanne – nei confronti dei nemici di Israele. Egli ha ripetutamente accusato l’esercito israeliano di praticare il tiro al bersaglio sui civili ma non ricordiamo condanne nette della pratica degli stermini suicidi. Quando Israele si è ritirato da Gaza, sono state devastate e date alle fiamme le sinagoghe, ma non ricordiamo una condanna dell’on. D’Alema di questo gesto efferato. I palestinesi avevano l’opportunità di cominciare a creare uno stato su un territorio totalmente in mano loro, e non hanno saputo neppure creare una forza di sicurezza unificata: l’unica cosa che hanno saputo fare è organizzare dei tiri di missili Kassam entro Israele, rendendo la vita impossibile agli abitanti di Sderot. Non ricordiamo una critica dell’on. D’Alema di tale comportamento illegale e criminale. Eppure per essere davvero amico di qualcuno bisogna dirgli la verità. Non ricordiamo critiche dell’on. D’Alema nei confronti di Hezbollah e delle sue mire dichiarate e ripetute di distruzione di Israele. Non ricordiamo neppure vibrate condanne da parte dell’on. D’Alema dei propositi criminali del presidente iraniano Ahmadinejad e delle sue efferate affermazioni circa lo sterminio degli ebrei d’Europa. Al contrario, ricordiamo la sua dichiarazione circa il ruolo di potenza regionale che deve essere riconosciuto all’Iran (a “questo” Iran). E si potrebbe continuare a lungo.
Dal momento della sua nomina a ministro degli esteri, l’on D’Alema ha voluto ostentare una posizione di assoluta oggettività, fuori da ogni ideologia e moralismo, parlando – come è apparso evidente in una recente intervista a Repubblica – alla maniera di Talleyrand, criticando cioè Israele per aver commesso qualcosa di peggio di un crimine, ovvero un “errore”; e aggiungendo che i problemi si risolvono per via diplomatica e mai con la guerra. Ma per aspirare ad essere una replica di Talleyrand bisogna capire lo spirito della sua azione. Talleyrand approvò molte delle guerre di Napoleone e ne criticò altre perché erano, appunto, un “errore”; ma si guardò bene dall’aderire a un’ideologia pacifista o guerrafondaia. Quando enuncia il principio dell’assoluta inutilità, ed anzi negatività della guerra, D’Alema è agli antipodi dall’idea che un errore è peggio di un crimine: aderisce a una visione ideologica. Dire che la guerra è sempre un male (o viceversa) è pura ideologia moralistica e non ha nulla a che fare con una visione razionale dei fatti. E qui si scorge il filo rosso della continuità con il D’Alema dell’intervista in rete.
Non c’è da stupirsi allora che l’immagine del nostro ministro degli esteri come un novello Talleyrand sia esplosa come una bolla di sapone, riportando alla luce i suoi autentici sentimenti. Egli valuta la crisi israelo-libanese come se fosse una questione del rapimento di qualche soldato e di una reazione “sproporzionata” – cosa sarebbe stato proporzionato? rapire un paio di militanti Hezbollah? – e non il frutto di un disegno vastissimo dietro cui vi è l’Iran e che muove in unico quadro Siria, Hezbollah e Hamas verso l’obbiettivo della distruzione di Israele come passo decisivo per un attacco globale che va avanti da più di un decennio. Non vedere questo significa non guardare oltre la punta del naso e rinunciare a una visione geopolitica a vantaggio di un pregiudizio ideologico, basato sul solito ritornello dell’oppressione che genera reazione. Non meno falsamente oggettivo è l’insistere sul fatto che Hamas o Hezbollah (o l’integralismo iraniano) non sono classificabili sotto la rubrica “terrorismo” perché godono di un’ampia adesione di popolo, talora sancita attraverso elezioni. È persino stucchevole dover ricordare che anche i grandi movimenti totalitari europei si sono affermati attraverso elezioni e hanno goduto di ampio sostegno di popolo – e non soltanto quelli: pure le recenti dittature sudamericane godevano di un radicamento di massa – e che la democrazia non si identifica con le elezioni. Al contrario. La democrazia è anche conferimento di un potere speciale allo stato che include la negazione o limitazione dei diritti a coloro che lottano per sopprimerla: in buona sostanza, se si consente a un movimento antidemocratico di presentarsi alle elezioni la democrazia è già morta in partenza.
Non c’è quindi da stupirsi se al nostro ministro degli esteri riesce sempre facile trovare aspre parole di critica e condanna per Israele e mai per i suoi avversari, anche quando questi dichiarano il fine di volerlo distruggere. Egli va a visitare le rovine di Beirut a braccetto di un esponente Hezbollah – fatto discutibile se lo fa un uomo politico, gravissimo da parte di un ministro degli esteri – e pronunzia parole di sdegno per quanto ha visto, e che giustificherebbe a suo avviso la critica di “sproporzione” della reazione israeliana. Ma non sente l’esigenza neppure per pura diplomazia, magari soltanto di facciata, di andare a vedere i drammi dell’altra parte, provocati non come danni “collaterali” ma con l’intento deliberato e terroristico di colpire la popolazione civile e soltanto questa. D’Alema chiama la comunità internazionale alla ricostruzione del Libano, mentre Israele dovrà provvedere da sola a riparare le distruzioni provocate da un movimento terrorista e l’on D’Alema non trova una parola di sdegno per il fatto che un terzo – un terzo! – della popolazione del paese sia stata costretta a vivere per un mese nei rifugi o a emigrare per non morire sotto i missili. Invece di passeggiare per Kiriat Shmona, il ministro è volato direttamente al Cairo e ha rilasciato durissime dichiarazioni contro Israele, parlando di errore catastrofico per aver fatto la guerra. Come se una guerra non fosse stata scatenata contro Israele.
Certo, ogni critica contro la conduzione militare-diplomatica da parte del governo israeliano è più che ammissibile. La stampa e l’opinione pubblica israeliana stanno sottoponendo il proprio governo a critiche di una severità straordinaria. Ma altra cosa è la critica ideologica, la critica non per aver perseguito male una causa giusta, ma per aver commesso l’errore in sé di aver reagito a un complotto di cui vediamo le dimensioni inquietanti sempre di più ogni giorno che passa.
Pertanto, se il ministro degli esteri vuole guardare ai fatti oggettivamente e non trascinare sé stesso e il nostro paese in un’avventura disastrosa, dovrebbe tenere conto dei dati più profondi e gravi del problema. Senza risolvere questi dati – primo di tutti il disarmo di Hezbollah e la sconfitta del disegno iraniano di procedere nel piano di distruzione di Israele – la missione Onu si risolverà in qualcosa tra la farsa e la tragedia. Difatti, quel che abbiamo di fronte non è certo il trionfo del multilateralismo, ma il crearsi delle condizioni – per errori di molti, inclusi quelli del governo israeliano – per un secondo atto più drammatico del primo.
Tutte queste cose l’on. D’Alema certamente le vede, anche perché è persona intelligente. Ma non le vuol vedere perché non riesce a liberarsi dalle sue antipatie e simpatie. Egli ha iniziato la sua missione di ministro degli esteri tentando di azzerare le riserve nei suoi confronti, dicendo persino di essere un “amico” di Israele, tutt’al più un “amico che sbaglia”. Ma, alla luce di quanto sta accadendo appare evidente che l’ultima cosa che gli passa per la mente è di aver sbagliato. Ben più che pentito egli appare irriducibilmente intriso di pregiudizi nei confronti di Israele. A tal punto che viene da chiedersi se, nel suo foro interno, egli non pensi che Israele stesso sia un “errore”.

Giorgio Israel

giovedì 13 luglio 2006

Fidarsi degli equivicini. Il peggio non è mai morto.

(Intervento su Informazione Corretta)


L’Austria è ormai da tempo in totale sfacelo politico e preda di fazioni armate in conflitto tra di loro, ma unite da un solo obbiettivo: rivendicare il Sudtirolo, abusivamente occupato dall’Italia. Per conseguire questo obbiettivo esse chiedono la distruzione totale dell’entità statale razzista italiota. Nel corso di un anno, dopo che l’Italia ha ceduto alcune zone di confine, sono piovuti più di mille missili tra Rovereto e Trento (alcuni hanno raggiunto Verona) e alcuni militari italiani sono stati uccisi o rapiti. Nel frattempo, il braccio militare di un partito al potere in Croazia, in solidarietà con le fazioni austriache ha rapito anch’esso alcuni militari e ha scatenato un lancio di razzi katiusha su Trieste.
Il governo italiano ha perso la pazienza e ha posto in atto una dura risposta militare. Con l’eccezione dei soliti imperialisti americani, tale risposta è stata generalmente deprecata. Il ministro degli esteri francese, noto per il suo costante sforzo di essere amico di tutti, ha deplorato il rapimento dei soldati, glissando sui lanci missilistici, e ha condannato la risposta italiana come “sproporzionata” e capace soltanto di suscitare altro odio anti-italiano. Negli ambienti italiani, o nei pochi ambienti vicini all’Italia, si manifesta sorpresa, in quanto il ministro aveva dichiarato di essere un fervente un amico dell’Italia e, a proposito di alcune sue precedenti dichiarazioni che erano apparse duramente critiche (aveva parlato dell’Italia come di uno stato terrorista), aveva commentato con humour di essere tutt’al più un “amico che sbaglia”. A proposito di tale dichiarazione, alcuni commentatori hanno riportato all’attenzione una domanda rimasta in sospeso, e cioè se il ministro andasse considerato come un pentito o un irriducibile. Qualche scalmanato ha chiesto perché non ci si chiedesse quanto odio provocasse nella popolazione italiana il lancio di missili sulla popolazione civile, i rapimenti e gli attentati; ma è stato prontamente zittito. Altri commentatori hanno saggiamente rilevato che era meglio accontentarsi della condanna del ministro, perché alcuni partiti della coalizione di governo francese avevano espresso una condanna nei confronti dell’entità italiota ben altrimenti dura. Si è notato che alcuni gruppi (per ora disarmati) di militanti di questi partiti, o di simpatizzanti, hanno accusato lo stato razzista italiota di comportarsi come i nazisti hitleriani e hanno osservato che il mondo non può subire il fatto che la “razza italiota mieta morte” soltanto perché è protetta dai criminali di Washington e che è giunto il momento di boicottare e stroncare i razzisti di Viterbo. Si noti, al riguardo, che Roma non è riconosciuta come capitale dell’Italia, ed è rivendicata dai discendenti di coloro che la occuparono dopo il crollo dell’Impero Romano.
Il governo di Viterbo ha pertanto deciso di affidarsi alle cure del ministro degli esteri francese, ed ha promesso che nel futuro non sparerà più di una cannonata per ogni trecento missili e non muoverà un dito se la quota di rapimenti si manterrà entro i dieci l’anno. Tale proporzione è stata comunque ritenuta sproporzionata e il detto ministro ha promesso di operare affinché il G8 indichi una soglia di reazione equa al disotto della quale lo stato terrorista italiota non correrà il rischio di essere condannato dal Consiglio di Sicurezza. S’intende che una siffatta garanzia non pregiudica tutte le legittime rivendicazioni a risarcimento dell’operato criminale dello stato italiota che discende dalla sua natura razzista e dall’errore strutturale consistente nel fatto stesso di essere nato.
Nel frattempo, il governo di Viterbo, per dar prova di buona volontà, ha deciso di accedere alla richiesta della madre di un noto calciatore di origini austro-croate di ricevere su un piatto d’argento i testicoli del calciatore italiota Cuscini.

Giorgio Israel

giovedì 29 giugno 2006

Dite quel che volete ma lasciate perdere questa farsa dell’ “equivicinanza”

Quando si iniziò a parlare di “kamikaze”, Luciano Tas scrisse una lettera al Corriere della Sera per dissuadere dall’uso di questo termine improprio. I kamikaze giapponesi erano militari, che si suicidavano contro obbiettivi strettamente militari. Nulla a che fare con gli “shahid” del terrorismo islamico e palestinese. Niente da fare. Tornava comodo dire “kamikaze” e l’uso della parola si è malauguratamente affermato.

Qualcosa di analogo sta per succedere con il termine “equivicinanza” coniato – se ben ricordiamo – da Giulio Andreotti, e che rischia, nelle circostanze presenti, di suonare come una via di mezzo tra una beffa e una pomposa insulsaggine. Difatti, quel che si dimentica sistematicamente di precisare è che, se è concepibile essere “equivicini” al popolo palestinese e al popolo israeliano, essere “equivicini” a un governo democratico e a un’associazione di terroristi – poco importa se eletta: anche Hitler fu eletto – implica una sordità morale la cui inevitabile conseguenza è di schierarsi al fianco della seconda. Casomai non fosse ancora chiaro, proviamo a cimentarci con questa domanda: si può essere “equivicini” a un membro delle Brigate Rosse e ad una sua vittima?

Ma il presente governo è costellato di soloni che, per sostenere la teoria dell’equivicinanza, avanzano ogni sorta di argomenti; e quanto più sono inconsistenti tanto più è reboante la retorica con cui li propongono.

Dichiara Ugo Intini sul Corriere della Sera che Israele non può essere sicuro senza uno Stato palestinese… Tenuto conto di questi chiari di luna e dei figuri che compongono il governo palestinese, un povero di spirito penserà che si tratta di una battuta spiritosa. Ma no. Perché Intini ci spiega che questo lo ha già dimostrato la Storia (con la S maiuscola): si disse per anni che Arafat era il capo dei terroristi e poi ci furono gli accordi di Oslo. Peccato che gli accordi di Oslo siano falliti, che Arafat abbia scatenato la seconda intifada, che abbia esaltato gli assassini di massa degli “shahid” innumerevoli volte (per chi voleva sentire), peccato che era proprio lui il “capo dei terroristi”.

Poi Intini scomoda ancora la Storia (con la S maiuscola) che – ahimé – non insegna mai nulla e invece dovrebbe convincere Hamas a riconoscere lo Stato di Israele “come ha fatto l’Olp di Arafat”. Peccato che l’Olp di Arafat Israele non l’abbia riconosciuto mai, come ancora può constatarsi leggendo la sua carta in rete, e che Israele sia stato così ingenuo da accontentarsi di quattro bofonchiamenti verbali del Rais.

Se ci affidiamo a gente con questa memoria Storica, stiamo freschi. Se per loro “riconoscere” uno Stato significa questo, come stupirsi che accolgano con ammirato fervore il “documento dei prigionieri” che riconoscerebbe “implicitamente” Israele? Dopo più di mezzo secolo, uno stato sovrano che siede all’ONU deve baciare per terra perché un gruppo di terroristi lo riconosce “implicitamente”… E lo riconosce con un documento che serve soltanto a ricomporre le loro fratture interne e ripropone senza varianti il programma di Hamas: una “hudna” lunga in cambio del ritiro sui confini del 1967 e del rientro di 5 milioni di profughi… Poi dopo la hudna, si riprende il discorso sulle briciole restanti…

Questi sono gli “equivicini”. Gli “equivicini” sono persone che dicono che il Muro d’Israele è peggio di quello di Berlino “perché quello era costruito al confine tra i due Stati e questo invece è costruito dentro il territorio altrui”. Salvo il piccolo dettaglio che il muro di Berlino divideva in due lo stesso popolo (tedesco) e la sua capitale, mentre questo divide due popoli diversi. Salvo il piccolo dettaglio che, anche quando il muro passa esattamente sui confini del 1967, c’è chi spara al di sopra di esso missili sulle città israeliane, o vi passa sotto per uccidere e rapire.

Ognuno ha diritto di dire quel che vuole, ma poi si adonti se, autodefinendosi “equivicino”, suscita il riso.


Giorgio Israel

sabato 24 giugno 2006

Una domanda

Al Direttore de Il Foglio

Non crede che sarebbe opportuno evitare la definizione di "equivicinanza" per la politica del nuovo ministro degli esteri, prima che si consolidi nell'uso? Difatti, pare una definizione del tutto inappropriata.
Assistiamo per strada alla seguente scenetta. Un tizio investe una persona di sanguinosi insulti rivolti a lui e ai suoi antenati e dichiara di volerlo uccidere. Interviene un paciere che procede così. Evita accuratamente di far riferimento alle ingiurie e alle minacce e invita l'energumeno ad affidarsi ai suoi buoni uffici: una persona eccezionale come lui merita la massima stima e, se seguirà i suoi consigli, non potrà che ricavare una considerazione molto maggiore di quella che ha avuto fino ad ora, come è giusto che sia. Poi ammicca ai presenti osservando che è meglio non contrariare il soggetto, perché possiede dei bicipiti tali da mandare in poltiglia il setto nasale.
Un paciere così lo definireste "equivicino"? O non piuttosto un "vicino"?

Giorgio Israel

giovedì 1 giugno 2006

Un appello alla coerenza

Abbiamo visto grandi intellettuali, giornalisti di primo piano, ex-presidenti dell’Unione delle Comunità ebraiche e tanti altri sezionare rigo per rigo il discorso di Benedetto XVI ad Auschwitz ed emettere una severa sentenza: il Papa ha minimizzato la Shoah, ha assolto il popolo tedesco dalle sue responsabilità, è fuggito nelle nebbie dell’escatologia, ha nascosto le colpe della Chiesa. Fino alla condanna più terribile e infamante: il Papa è revisionista.
Lasciamo per un momento da parte le diversità di valutazione. Tanta spasmodica attenzione per la Shoah, tanta occhiuta vigilanza affinché nessuno osi sfiorarla in forme non perfettamente confacenti a quelle codificate dalle sue vestali, commuove profondamente. Davvero la memoria ha elevato un impenetrabile ombrello di difesa.
E allora non sarà troppo chiedere un piccolo gesto di coerenza, nient’altro che un banale corollario di tanto rigore.
Siamo di fronte al più grande negazionista vivente, il Presidente iraniano Ahmadinejad. Costui nega la Shoah e la ridicolizza come una montatura, chiede all’Europa di accogliere sul suo suolo sei milioni di ebrei di Israele, altrimenti lui li farà fuori non appena disporrà dell’atomica. Si appresta a venire in Europa per l’inaugurazione dei campionati del mondo di calcio, accolto da un comitato d’onore composto anche da gruppi neonazisti. Il ministro dell’interno tedesco ha detto che non si potrà non accogliere Ahmadinejad, se vorrà venire, per questioni di “ospitalità”.
Non possiamo credere che i paladini della memoria della Shoah di cui sopra taceranno di fronte a un simile affronto, e si limiteranno a guardare lo spettacolo in televisione, distesi in poltrona con un bicchiere di birra in mano, mentre la mente stanca viene attraversata dall’idea di una puntuta freccia polemica che – peccato! – avrebbero potuto aggiungere alla loro requisitoria contro il Papa.
Siamo certi che vorranno farsi promotori di un appello vibrato, con tutta l’autorità di cui dispongono, per chiedere che un simile affronto venga evitato all’Europa, vigile custode della memoria della Shoah. Potremmo chiedere molte altre cose. Per esempio, che, prima di promuovere iniziative di dialogo con Hamas, si chieda con pari vigore la cancellazione dalla sua carta costitutiva delle efferate dichiarazioni antisemite e negazioniste di cui è farcita. Ma, una cosa per volta.
Per ora ci accontenteremmo dell’iniziativa sul presidente iraniano. Per ragioni di coerenza, si diceva. Oseremmo dire: per ragioni di decenza.

Giorgio Israel

martedì 30 maggio 2006

Reazioni sbagliate al discorso del Papa ad Auschwitz

Articolo pubblicato su Il Foglio, 30 maggio 2006

C’è qualcosa di superficiale e di esagerato se, dopo un discorso meritevole di una riflessione distaccata e seria, come quello tenuto da Benedetto XVI ad Auschwitz, inizia una corsa frettolosa alla dichiarazione sdegnata e all’invettiva.
Per ragioni di coerenza occorrerebbe tenersene fuori, se non fosse che certi argomenti sgangherati – e quindi pericolosi – meritano una risposta.
Sono felice di sapere che una persona autorevole e rappresentativa come Marek Edelman abbia detto che «è stato un discorso di grande forza sentimentale ed emotiva», aggiungendo: «Il Papa è venuto ad Auschwitz, e là sulla terra ancora bagnata dal sangue dei morti ha detto che Dio allora non era là. Che cosa doveva dire di più?». Sono felice di saperlo perché il discorso di Benedetto XVI a me è piaciuto e, come a Edelman, è parso «una eccezionale sequenza di emozioni per la Memoria di oggi».
Sono passati pochi decenni da quando autorevolissime voci della Chiesa auspicavano come una “liberazione” la morte di tutti i Giudei e interpretavano Auschwitz come «conseguenza dell’orribile delitto che perseguita il popolo deicida ovunque e in ogni tempo». Oggi la massima autorità della Chiesa dice che i nazisti «con la distruzione di Israele volevano strappare anche la radice su cui si basa le fede cristiana». Misuro questa distanza e sono colpito e commosso dallo straordinario passo avanti che è stato compiuto.
Si è detto che il Papa ha parlato troppo del silenzio di Dio e poco delle colpe degli uomini. Dai Salmi citati dal Papa al Libro di Giobbe, il tema del silenzio di Dio percorre tutto l’Antico Testamento e le riflessioni del pensiero religioso ebraico. «Non ti farai idoli davanti alla Mia faccia», dice il secondo comandamento; e un midrash lo interpreta nel senso: «quale che sia il volto che Io ti presento, per quanto esso possa essere per te incomprensibile e anche terribile, tu non dovrai rinnegare la fede in Me». Mille riflessioni sono state e possono essere sviluppate su questo tema. Perché mai esse escluderebbero il tema delle colpe degli uomini?
Abbiamo letto su L’Unità che il Papa si è reso colpevole di revisionismo per non aver menzionato le responsabilità collettive del popolo tedesco. Si tratta di una critica priva di fondamento, sia sotto il profilo morale che sotto il profilo storiografico. Dal punto di vista morale, rendere un intero popolo responsabile di una colpa collettiva è un’aberrazione in cui soprattutto gli ebrei – vittime del mito del deicidio – non possono cadere. Essi debbono essere fedeli al precetto del Deuteronomio secondo cui nessuno può essere punito se non per il proprio delitto. Durante la cena della Pasqua ebraica è d’uso leggere un “rituale della rimembranza” della Shoah, in cui si parla di coloro che furono sterminati «da un tiranno malvagio» e dagli «esecutori del suo perfido progetto». Sembrano le parole del Papa. Per quanto estesa sia la responsabilità, essa resta soggettiva e non può essere estesa al concetto di responsabilità collettiva di un “popolo” – concetto eminentemente razzista. Nessuno può responsabilmente parlare di responsabilità collettiva del popolo italiano per il fascismo, o dei popoli sovietici per i crimini dello stalinismo.
L’entità del coinvolgimento della popolazione tedesca nella Shoah – così come di altre popolazioni in altri crimini di massa – è una questione eminentemente storiografica che deve essere mantenuta su questo terreno e non può essere usata come una mazza per condanne morali. Porre la questione nei termini: “O dici che tutti erano responsabili oppure sei corresponsabile morale”, è un ricatto inaccettabile che uccide alla base ogni possibilità di libera riflessione. È assolutamente sconcertante che l’attacco a pretese interpretazioni riduttive dell’adesione del popolo tedesco al nazifascismo venga da certi pulpiti che per decenni hanno propinato una storiografia secondo cui il fascismo in Italia era opera di pochissimi mascalzoni che erano riusciti a irreggimentare un intero popolo che vibrava di fervidi sentimenti antifascisti repressi dal tallone dei Tribunali Speciali. Il peso di questa storiografia è tale che ancor oggi viene demonizzato come “revisionista” Renzo De Felice, per aver messo in luce l’entità dell’adesione del popolo italiano al fascismo. E ci tocca leggere uno scritto di Furio Colombo – evidentemente ignaro di quanto in Germania sia stato approfondito il tema delle colpe del nazismo, senza reticenza e in modo persino spietato, come qui non ci siamo neppure lontanamente sognati di fare, viste le recenti vergognose reazioni al libro “I redenti” di Mirella Serri, perché ha osato ricordare i trascorsi antisemiti di alcuni mostri sacri dell’intellettualità italiana – che si permette di parlare di «molti cittadini tedeschi» che avrebbero trovato «una scorciatoia per non convivere con un passato vergognoso», magari «parlando più di Stalin che di Hitler». Di certo, Colombo di Stalin ha poca voglia di parlare, visto che riesuma una logora retorica su chi ha abbattuto i cancelli di Auschwitz, come se il merito tecnico di essere arrivati per primi contasse di più del trattamento criminale che Stalin riservò agli ebrei resistenti.
È comprensibile l’attenzione spasmodica con cui, da parte ebraica, si analizza ogni affermazione concernente la Shoah. Ma essa non giustifica un atteggiamento che, anziché guardare al senso generale di certe affermazioni, indugia su dissezioni meticolose e persino cavillose (quante volte è stata pronunziata la parola Shoah? perché non è stato pronunziato il nome di Hitler?). Del tutto inaccettabile è poi pretendere che quando si parla di Shoah sia vietato persino accennare ad ogni altro crimine di massa: in tal caso, spesso non è più l’ebreo che parla ma l’inconsolabile vedova del comunismo.


Giorgio Israel

mercoledì 17 maggio 2006

Risposta ad Alberto Asor Rosa

Lettera inviata al Corriere della Sera e non pubblicata

La lettera di Alberto Asor Rosa al Corriere della Sera (16 maggio 2006) è basata sul seguente ragionamento: "la causa ebraica non coincide con quella dello Stato d'Israele"; quindi egli ha diritto di criticare il secondo senza essere accusato di ledere la prima; invece, i suoi critici non fanno che confondere le due cause e così lo fanno oggetto di una forma acuta di intolleranza. Così messa sembrerebbe ineccepibile. Se non fosse che colui che ha fatto confusione è proprio Asor Rosa quando, nel suo libro, ha dedotto dalla critica allo Stato d'Israele conclusioni pesantissime nientemeno che nei confronti della "razza ebraica" - espressione che non dovrebbe uscire dalla penna di un intellettuale contemporaneo, tenuto a sapere che il concetto di razza non ha basi scientifiche ed è soltanto un aggregato di pregiudizi dalle tragiche conseguenze -, una "razza" che da perseguitata sarebbe diventata persecutrice, e altre consimili deduzioni riguardanti gli ebrei nel loro complesso che è soltanto triste ricordare. Ad Asor Rosa è stato chiesto ripetutamente di rivedere questa infelice uscita. Al contrario, qui, con un gioco dialettico, per nasconderla egli ne scarica la colpa sui suoi critici. In tal modo, egli ha dato soltanto prova della fondatezza della tesi secondo cui la manifestazione attuale dell'antisemitismo è l'antisionismo. Sta a lui, se e quando vorrà finalmente farlo, correggersi e dimostrare di essere soltanto vittima di questa manifestazione, e combattere ora e qui l'antisemitismo nel modo che serve.
Tralascio per brevità di entrare su altri aspetti di merito, come il richiamo all'"ingiustizia della fondazione dello Stato d'Israele" cui - per sua grazia - non si deve porre rimedio con la sua distruzione. E' davvero curioso che si debba parlare di ingiustizia soltanto nel caso della fondazione dello Stato d'Israele e non di innumerevoli altri casi analoghi di cui è intessuta la storia. Per esempio, la fondazione della Grecia è stata pagata al prezzo di ingiustizie, come quella della famiglia di chi scrive, deprivata di case e averi. Eppure viviamo qui tranquilli senza rivendicare diritti al ritorno, come non li rivendicano il milione e passa di ebrei deprivati di case e averi nei paesi arabi. Se dovessimo rifare le bucce alla storia trasformeremmo la terra in uno scannatoio.
Infine, se il Presidente dell'Unione delle Comunità Ebraiche non ha il diritto di esprimere perplessità di fronte a chi parla (e in termini così negativi) di razza ebraica, tanto vale sciogliere l'Unione e mandarne a casa organi e presidenza. In tal caso, sarà stato Asor Rosa ad aver esercitato una pressione indebita e intimidatoria volta a inibirne la libertà di espressione.


Giorgio Israel

martedì 16 maggio 2006

L’Occidente ormai si disprezza fino a tollerare il nuovo odio per gli ebrei

Il Foglio - martedì 16 maggio 2006


Il presidente iraniano Ahmadinejad è un politico ideologo, la specie più pericolosa. Sembra che nella lettera al presidente Bush abbia parlato soprattutto del ruolo della religione nel mondo contemporaneo. «Il liberalismo e la democrazia occidentale non sono serviti a realizzare gli ideali dell’umanità. Oggi queste due dottrine hanno fallito. I più perspicaci riescono già a sentire il suono del frantumarsi e crollare dell’ideologia e delle idee dei sistemi democratici liberali. Signor Presidente, che ci piaccia o no, il mondo gravita intorno alla fede». Naturalmente, Ahmadinejad pensa che l’Islam, il suo Islam, riempirà il vuoto che quel crollo sta aprendo nel mondo: chi altro può esserne capace? Ma, se ci è consentita un po’ di libera esegesi, forse egli non è tanto sicuro di sé. Infatti, perché scrive a Bush? Perché gli dicono che «Sua Eccellenza segue gli insegnamenti di Gesù e crede nella promessa divina sul regno dei giusti»: perciò più di altri dovrebbe capire i suoi argomenti. E forse anche perché, più di altri, è capace di resistere. Forse Ahmadinejad percepisce che il crollo è più difficile dove il sistema democratico liberale è sorretto da una visione etica e morale – che sia religiosa (come la intende lui) o secolare. Lui non si rivolge all’Europa, perché ha capito benissimo che l’Europa è ormai vicina al crollo. La nostra libera esegesi non si spinge al punto di accreditare al presidente iraniano la conoscenza del pensiero postmoderno che, non contento della liquidazione delle religioni, ha liquidato anche ogni morale secolare, ritenendo che essa riporti inevitabilmente alla religione; e la conoscenza di quelle brillanti analisi che hanno disvelato il bigotto mascherato che si nasconderebbe in Kant. Ma è assai probabile che senta nell’aria l’andazzo; anche se non sa che, in buona parte della cultura occidentale, le parole “etica” e “morale” suscitano tanto imbarazzo che, dopo essere state liquidate in quanto frutto della rivelazione o della storia umana, si attende con trepidazione di poterle gettare nella pattumiera dell’oscurantismo e sostituirle con parole come “neuroetica”. Frattanto, nell’attesa millenaria che vengano a galla le basi biologiche della morale, sarà la sharia di Ahmadinejad a fare da supplente. Se Ahmadinejad sapesse tutte queste cose sarebbe felice di aver fatto la scelta giusta: rivolgersi a uno dei pochi avversari ancora in piedi.
Non che i dissacratori dell’etica, della morale e della religione non esistano nel Nuovo Continente: al contrario, le università americane ne sono strapiene, se non dominate. Ma la società americana è più articolata, ed è percorsa da forti correnti che vanno in tutt’altra direzione. L’etica e la morale non sono ancora parole ridicole e, oltre ai neuroetici e ai neo-eugenisti, c’è chi segue percorsi scientifici diversi, oppure considera razionale conservare una robusta fede religiosa. Per questo, Ahmadinejad si rivolge a Bush e non si cura dell’Europa, che vede soltanto come un territorio vuoto da occupare. L’ostacolo al crollo finale permane dove la democrazia liberale trae forza e vitalità da un afflato etico e morale, cui l’esperienza religiosa autentica (e non formalistica) da un contributo importante. Come in Israele. Anzi, qui l’ostacolo è talmente forte che le uniche soluzioni possibili sono quelle radicali. Perché l’ebreo, anche quando non è religioso, vive di utopia. Anzi, come scrive Henri Meschonnic «la sua utopia è sé stesso, è utopia di sé» e anche utopia della società, «utopia degli altri, per sé e per gli altri». Perciò per un popolo che mostra di credere nell’utopia, e con l’utopia del sionismo ha ricostituito sé stesso, Ahmadinejad vede possibili soltanto due trattamenti: l’atomica – previa verifica del rapporto costi-benefici, e secondo autorevoli esponenti iraniani, un costo di una ventina di milioni di morti sarebbe accettabile – o, in alternativa, la soluzione di spedirlo nel Vecchio Continente, in parcheggio in attesa della liquidazione finale dell’azienda. Anche qui emerge la folle lucidità dell’ideologo. Poco importa che l’idea sia delirante e insensata, perché passa sopra al fatto che gran parte degli israeliani non sono europei e che Israele non è il mero frutto della Shoah, ma dell’utopia sionista. C’è una logica (consapevole o no) in questa follìa: costringere l’Europa a prendere definitivamente posizione sulla questione ebraica, o manifestando un sussulto di dignità e moralità, oppure scegliendo la “soluzione” che Fiamma Nirenstein ha chiamato l’“abbandono”. Perché la questione ebraica europea non è una faccenda degli ebrei, ma qualcosa che ha a che fare con l’identità stessa dell’Europa. Pur in mezzo a tanti drammi, incomprensioni e orrori, duemila anni di storia dell’ebraismo sono stati dentro e con l’Europa. Come dice ancora Meschonnic, con la sua utopia, l’ebraismo è legato all’Occidente quanto l’Occidente lo è a lui, e la separazione definitiva dell’ebraismo da una parte dell’Occidente – l’Europa – è uno scacco di portata epocale.
Questo scacco è ormai a un passo dal suo definitivo avverarsi e i prossimi eventi decideranno se il passo sarà compiuto oppure no. Dipenderà da quello che l’Europa deciderà di fare per i suoi ebrei e per gli ebrei che stanno di fronte a lei, dall’altra parte del mare “nostro”. Il che è quanto dire cosa deciderà di fare di sé stessa. Pensiamo alla vecchia faccenda delle radici giudaico-cristiane dell’Europa. Che vi sia tanta reticenza in giro a tenere in piedi il primo termine (giudaico) è malinconico, ingiusto, ma purtroppo non stupisce più di tanto. Di recente, passeggiando per il ghetto di Venezia, un collega ebreo francese mi diceva: «Per noi sarebbe tragico, triste, ma non sarebbe la prima volta. Anche fare le valigie. Ma che l’Europa non abbia il coraggio di dire che le sue radici sono cristiane, questo è veramente incomprensibile, stupefacente. Che dire? Cosa resta all’Europa se rinnega anche queste radici?». Non si tratta di ritornare sulla faccenda del rifiuto di costituzionalizzare di quel termine, che era probabilmente una scelta sensata. Si sarebbe dovuto parlare anche delle radici greche, anche perché la tradizione giudaica e cristiana si è contaminata profondamente di pensiero ellenico ed ellenistico e poi non si sarebbe potuto trascurare la romanità. Insomma, si sarebbe dovuto fare un trattato di storia culturale anziché l’articolo di una costituzione. Ma quel che è stato stupefacente è stato il rifiuto del tema in sé. Gli ebrei sono abituati ad essere considerati una vergogna, tanto che una delle loro utopia è trovare un posto dove “sporco ebreo” significa soltanto un ebreo che non si è lavato. Ma che dal “non possiamo non dirci cristiani” si dovesse passare al “ci vergogniamo di essere cristiani”, questo francamente era al di là di ogni immaginazione. Ed è al di là di ogni immaginazione la debolezza con cui si reagisce a tale stato di cose, la timidezza con cui si dice una verità evidente, e cioè che se qualcuno avesse osato scrivere un Codice da Vinci in chiave islamica avrebbe già fatto una brutta fine, ed anche l’errore di credere che si possano contrastare queste aberrazioni per via legale e di divieto.
Lo si creda o no, per uno che si chiama Israel parlare troppo di antisemitismo e di antisionismo è una noia. Non una noia esistenziale. Perché l’utopia della fine dell’antisemitismo è talmente proiettata verso la fine della storia, che esiste una panoplia consolidata di tattiche di resistenza. È una noia razionale: quando una parte troppo importante del tempo di un ebreo europeo deve essere impiegata a difendersi, a decrittare le forme attuali dell’antisemitismo, a dimostrare invano che la manifestazione attuale dell’antisemitismo è l’antisionismo, allora c’è qualcosa che proprio non va.
Difatti, ogni giorno si ricomincia daccapo. Il 27 maggio il più importante sindacato dei professori universitari inglesi (NATFHE) chiamerà a votare i suoi 67.000 membri un appello al boicottaggio delle istituzioni universitarie israeliane e, individualmente, dei loro professori. Bisognerà ricominciare a spiegare a chi non vuol capire che questo è puro e semplice razzismo?
Giorni fa, sul Corriere della Sera, Sergio Luzzatto ha osservato che «l’opinione pubblica europea si sta mostrando distratta davanti ai recenti sviluppi della situazione politica in Polonia», dove sono entrate al governo due formazioni cattoliche reazionarie apertamente antisemite, uno dei cui leader ha dichiarato che «il peggior nemico della Polonia è la nazione giudaica». Per un breve tempo, si era sperato che le nuove nazioni orientali entrate in Europa fossero più aperte di altre a un rapporto con il Grande e Piccolo Satana. È una speranza durata poco, e pare che i vecchi fantasmi si stiano riaffacciando, davanti a un’opinione pubblica “distratta”. Ma il guaio è che l’elenco di queste distrazioni è ormai infinito. Questo è il vero problema.
È passato poco tempo da quando in Francia è avvenuto un delitto razziale che avrebbe dovuto suscitare una reazione degna di un caso Dreyfus. Parliamo del caso del giovane Ilan Halimi, torturato per un mese e poi gettato a morire su una scarpata, mentre tante persone che vivevano nello stabile maledetto udivano le sue grida disperate e facevano finta di nulla. Un delitto razzista che – come ha scritto in un bellissimo articolo il padre di Daniel Pearl – è stato possibile perché un intero paese ha introiettato l’idea che gli ebrei sono colpevoli in quanto non rinnegano Israele, quel “piccolo paese di merda”, secondo l’elegante espressione di un ambasciatore di Francia. Non è tanto o soltanto il delitto in sé, ma il clima che lo ha preparato, lo ha accompagnato e il silenzio torbido che è seguito, come una sorta di alzata di spalle collettiva. Dopo questo episodio, risulta che la già consistente emigrazione ebraica dalla Francia sia aumentata. Invece di interrogarsi su un sintomo così grave – che una comunità così integrata nel paese dia segni di cedimento e pensi ad andarsene, malgrado i disagi connessi – la “gauche” intellettuale non ha trovato di meglio che coniare lo slogan di un’Opa che il sionismo avrebbe lanciato sull’ebraismo francese.
Nel delitto Halimi si è visto lo stesso clima, lo stesso torbido silenzio, la stessa cinica indifferenza che ha accompagnato l’assassinio di Theo Van Gogh. È lo stesso insopportabile cinismo con cui viene trattato ora il caso di Ayaan Hirsi Ali, la coraggiosa donna somala che sta pagando il prezzo di essersi opposta all’estremismo islamista e che un tribunale olandese ha sfrattato dalla sua casa ritenendo prevalente il diritto dei vicini alla quiete e a star lontani dalle minacce terroriste, rispetto al suo diritto di vivere liberamente nella sua casa.
Così, il politicamente corretto, degenerato in servilismo nei confronti dei violenti, ha fatto a pezzi i principi più elementari della democrazia liberale ed ha usato persino la giustizia per calpestare la morale senza alcun ritegno. In effetti, il “politicamente corretto” in versione europea è arrivato al punto di battere largamente le peggiori manifestazioni statunitensi. Bisognerebbe un giorno fare la storia del palleggio culturale che è avvenuto tra le due rive dell’Oceano: noi abbiamo lanciato di là la palla del pensiero postmodernista dei vari Foucault, Lacan e Derrida e ne è germinato il politicamente corretto americano. Ora, negli Stati Uniti si stanno manifestano tante versioni diverse e contraddittorie del politicamente corretto da neutralizzarsi a vicenda. Mentre la palla è ritornata al mittente assumendo forme di rigidità univoca e, in taluni paesi europei, soffocanti e totalitarie: non si predica più la parità per decreto, ma l’asservimento all’“altro”. È il prostrarsi umiliante e degradante della sentenza de L’Aja, le chiacchiere tra l’insensato e l’infame della “gauche” parigina, i genitori A e B dello zapaterismo. Non ha ragione il presidente Ahmadinejad a sentire i rumori del crollo della democrazia liberale?
E noi? La situazione nel nostro paese sembra meno grave che in altri paesi europei, ma non c’è da stare tranquilli. Mentre dilaga l’esercizio del ricordo e la Giornata della Memoria si è trasformata in Settimana, anzi in Sagra della Memoria, la Brigata ebraica che sfila nel corteo del 25 aprile viene pesantemente fischiata e aggredita con grida assassine. Lo sdegno generale e unanime ha proclamato trattarsi di un gruppetto di pochi irresponsabili, ma è una bugia. Per non farsi male bisogna avere il coraggio di guardare in faccia la realtà: i quattro pesci nuotavano in un bacino di consenso o quantomeno di “comprensione” molto, troppo vasto. Di che stupirsi? Sono quarant’anni che si educano generazioni all’odio del sionismo. Ne abbiamo avuto un ultimo esempio con l’indecente vignetta pubblicata su Liberazione che riprende un cavallo di battaglia dell’antisemitismo contemporaneo: l’identificazione degli israeliani come i nazisti di oggi. L’educazione all’odio continua e si raccolgono i frutti di ciò che è stato e viene metodicamente seminato. Perciò, le deplorazioni e le minimizzazioni – in un paese in cui le università sono inaccessibili a un diplomatico israeliano – sanno di ipocrisia e, nel migliore dei casi, di elusione.
Oggi per l’Europa si tratta di decidere se continuare a cavarsela “ricordando” e strofinandosi addosso il cilicio per i misfatti del passato mentre viene lasciato libero corso all’antisionismo e all’antiamericanismo; sbattendo in galera Irving e lasciando ammazzare Ilan Halimi; pretendendo la chiusura dei CPT (Centri di permanenza temporanea) in quanto sarebbero dei “lager”, e scacciando dai condomini le Ayaan Hirsi Ali. Fino a che il dilagare del disprezzo di sé non si concluda nel suicidio finale.



Giorgio Israel