mercoledì 27 aprile 2011

Consulenti "competenti"

La scuola ridotta a corso di addestramento


Valutare la scuola per migliorarla: è un tema all’ordine del giorno da anni e su cui si sono infranti parecchi tentativi, anche per le resistenze corporative di molti docenti a farsi giudicare. Ma, al di là di queste resistenze, esiste il problema delle modalità della valutazione, che non sono affatto scontate. La modalità più semplice, largamente seguita all’estero, è quella dei test. Non a caso, siamo quotidianamente sottoposti a piogge di statistiche che certificano carenze e successi delle scuole dei vari paesi in questa o in quella materia. Una visione critica imporrebbe molta prudenza nel valutare (è il caso di dirlo) il significato e il valore di queste statistiche, soprattutto in relazione al contenuto dei test “somministrati” (è l’orrido termine ormai in uso). È facile mostrare come certi “successi”, come quello della scuola finlandese, derivino dall’adeguamento della didattica all’obbiettivo di avere successo nei test, e celino gravissime carenze nella qualità degli apprendimenti scolastici. Ma siccome siamo in mano agli “esperti” scolastici – tecnocrati competenti nelle tecniche di valutazione ma assolutamente ignoranti dei contenuti – la considerazione della natura dei test è considerata come una perdita di tempo: basta che la loro preparazione sia affidata a “specialisti” per disinteressarsi del loro contenuto. Come costoro siano stati scelti, quali competenze abbiano, perché non vi sia un controllo incrociato del loro operato, pare cosa totalmente irrilevante.
Comunque, pur difendendo la necessità del massimo rigore e della massima trasparenza sui contenuti, non intendo affatto negare l’utilità dei test al fine di stabilire se esista un livello minimo di capacità in ortografia, grammatica, nozioni di base della matematica, ecc. Insisto sull’aggettivo “minimo”, perché se si pretende che con i test si possa valutare anche la capacità di uno studente di comporre un testo stilisticamente valido o di impostare correttamente un problema in termini matematici e risolverlo, allora siamo alla pura e semplice cialtroneria. Tuttavia, ripeto, si può concordare sull’utilità di base di test accuratamente pensati e verificati. Il vero problema è però quello accennato prima: e cioè che la didattica non si pieghi al fine del successo nei test. Questo significherebbe aprire la strada al famigerato “teaching to the test” – l’insegnamento completamente funzionale ai test – che ha fatto danni disastrosi laddove è stato applicato. Quando ho paventato questo rischio sono stato accusato di catastrofismo. Era un timore riduttivo perché, dai segnali che arrivano, purtroppo ci siamo. In vista dei prossimi test Invalsi in molte classi si è smesso di insegnare per dedicarsi all’addestramento a superare i test. In altre classi gli insegnanti resistono e si rifiutano giustamente di smettere di insegnare Leopardi per dedicarsi ai test: quando i test verranno si faranno, e basta. (Si noti che anche questo dimostra l’utilità delle classi, non dispiaccia ai buontemponi che vorrebbero la scuola “open space”). Il guaio è che è difficile resistere: le scuole sono soggette a un diluvio di libercoli ed eserciziari volti ad addestrare al superamento dei test Invalsi, spesso di contenuto indecente (ma qui non vi è spazio per documentarlo). È un tipico fenomeno di affarismo all’italiana. Si dice anche che alcuni autori siano tra coloro che preparano i test: non voglio crederci neppure per un attimo. Ma, di certo, sarebbe necessaria una parola chiara e forte da parte del Ministero: in nessun caso l’insegnamento può essere trasformato in un addestramento a superare i test. Altrimenti, alla scuola italiana potremo dare l’addio finale.
(Tempi, 27 aprile 2011)

lunedì 25 aprile 2011

Un libero pensatore


Su “Il Fatto quotidiano” Riccardo Chiaberge, se la prende vivacemente con l’“intellettuale di sinistra” Stefano Rodotà, autore – secondo lui – di una ricetta infallibile per scoraggiare il libro e la cultura. Poi riserva una stilettata anche a me:
«Seconda ricetta: dalle colonne del Giornale l’intellettuale di destra Giorgio Israel se la prende coi “pedagogisti progressisti” che starebbero smantellando la scuola italiana: videogiochi al posto dei libri, insegnanti trasformati in “facilitatori”. Una vera e propria Caporetto educativa, voluta e pianificata dalla sinistra. Fortuna che gli austeri pedagogisti di centrodestra stanno provvedendo a riportare la serietà negli studi: televisivi e odontoiatrici, s’intende. Nessuna facilitazione per le igieniste dentali».
A parte le battute un po’ sceme sui fantomatici pedagogisti di centrodestra e i loro problemi di carie, peccato che l’“intellettuale di destra” se la sia vivacemente presa – e proprio sul Giornale – con il centrodestra, anche qualificando la riforma Moratti come un disastro, beninteso dopo e sulla scia del più grande disastro compiuto ai danni della scuola e dell’università italiane, quello ad opera di Luigi Berlinguer, secondo quanto afferma ripetutamente un altro noto intellettuale di estrema destra, Luciano Canfora.
Ma per illustrare la libertà di pensiero di Chiaberge voglio raccontare un episodio.
Nel 2008 ebbi il Premio Capalbio per il libro “Chi sono i nemici della scienza”. Questo comportava automaticamente entrare nella giuria del Premio del 2009 e proporre un libro da premiare. Con tipico settarismo di destra, decisi di proporre un libro di Riccardo Chiaberge: “La variabile Dio. In cosa credono gli scienziati?”.
Ecco la motivazione per il premio che, in quanto proponente, lessi pubblicamente la sera della premiazione:
«Viviamo in tempi in cui l’opinione più diffusa è che la scienza e la fede religiosa siano assolutamente incompatibili. La maggior parte dei libri e dei saggi che vengono pubblicati sull’argomento accreditano l’idea che la religione sia un intralcio per la ricerca scientifica e che una libera mente scientifica non può concedere alcuno spazio alla fede. Queste tesi vengono spesso propugnate in modo molto aggressivo e danno luogo a polemiche aspre e incomprensioni insanabili. Eppure, come disse con felice espressione Amos Funkenstein, quasi tutti i grandi fondatori della scienza moderna sono stati dei “teologi laici”.
Tanto più opportuna appare la pubblicazione del libro di Riccardo Chiaberge che mira ad affrontare la questione in modo pacato, aperto e civile. L’autore ha suscitato e organizzato un dialogo tra l’astronomo di Papa Giovanni Paolo II, il gesuita George Coyne, e il fisico ebreo Arno Penzias, premio Nobel 1978 per aver scoperto la radiazione cosmica di fondo. Il dialogo condotto da Chiaberge si dipana nello studio dello scienziato gesuita a Mount Graham in Arizona e tocca tanti temi, dal Big Bang all’evoluzionismo, connettendoli alla tematica religiosa. Dal confronto tra la posizione di uno scienziato credente e quella di uno scienziato agnostico è venuto fuori un libro avvincente oltre che di notevole qualità letteraria. Lo si legge di un fiato per poi ritornare a riflettere sui tanti temi che esso solleva attraverso i discorsi di due personalità che hanno l’arte di discutere per capire e capirsi, come si addice ai veri scienziati. Un libro “laico” e aperto, nel senso più autentico del termine, di cui c’era bisogno».
Chiaberge prese il premio, ma questa motivazione non gli piacque né punto né poco. Salito sul palco, subito dopo la mia motivazione, dichiarò di non gradire molto che egli venisse considerato equanime tra scienza e religione e che per dissipare questa sensazione sbagliata presto avrebbe pubblicato un altro libro che avrebbe mostrato i suoi veri sentimenti circa la religione… Insomma, pensavo che gli sarebbe piaciuto essere definito un "laico", ma evidentemente non avevo capito che laicità non è essere equanime e pensare liberamente, bensì detestare la religione in modo militante.
Tanto per non lasciar dubbi, alla cena ufficiale, invece di sedersi – come da usanza naturale – accanto a colui che aveva proposto di conferirgli il premio, si rifugiò in un altro tavolo.
Decidere se egli sia di destra e di sinistra è faccenda che non mi appassiona. E che sia una persona scortese non interessa nessuno. Ma, di certo, è un settario.

martedì 19 aprile 2011

LA SCUOLA "PROGRESSISTA". SENZA VOTI, LIBRI E PROF

Con una postilla interpretativa marxiana...

Dopo il successo di pubblico del libro di Paola Mastrocola (“Togliamo il disturbo”) sembra diffondersi sempre di più la consapevolezza che, per arginare il disastro della scuola, occorra battere con decisione la via del rigore, della serietà e della qualità degli studi, della restituzione all’insegnante di tutto il prestigio della sua funzione, soprattutto per ridare al paese speranze nel futuro, che soltanto una gioventù preparata, colta e capace può rendere concrete. Si può dunque sperare che le forze che hanno propugnato con tutti i mezzi l’ideologia del “non studio” siano in ritirata? Ecco una bella illusione. Al contrario. Nei laboratori del pedagogismo “progressista” – che trova peraltro alleati anche a destra e si avvale di agganci in talune associazioni professionali, taluni sindacati e in settori dell’amministrazione – si almanaccano ricette ancor più “avanzate” e “rivoluzionarie”; si procede con l’ostinazione delle termiti e con la sordità a qualsiasi obiezione tipica di chi si sente investito di una missione sacra.
Si vuole un assaggio delle ricette che vengono apprestate in questi laboratori? Basta rifarsi a un riferimento esemplare che circola in questi ambienti, il decalogo dell’analista di politiche scolastiche Robert Hawkins. Vediamo quale immagine della scuola del futuro ne emerge, tanto per avere un’idea dei modi con cui dovrebbero studiare (si fa per dire) i nostri figli.
Cominciamo dall’ambiente fisico. Gli studenti vanno a scuola. Entrano in un’aula? Niente affatto. Tutti i muri sono abbattuti e la scuola è diventata un “open space”. Qua e là vi sono tavoli con apparati tecnologici, in modo che gli studenti si aggreghino per fare delle “attività”. Un gruppetto decide di fare una ricerca un argomento di storia, un altro di approfondire a scelta un argomento di ecologia, qualcuno vuole fare da solo. Stiamo scherzando? Niente affatto. Il grande “progresso” è che non devono esistere più “programmi” scolastici, né libri, né tantomeno insegnanti che rappresentino la fonte della conoscenza. La scuola (ma è in discussione se debba ancora chiamarsi così) deve trasformarsi in uno spazio di costruzione autonoma delle proprie conoscenze e competenze. Insomma, bando alla deleteria “trasmissione” della cultura del passato. I giovani ricostruiscono da soli o in gruppo le conoscenze. I libri non servono, anzi sono l’immagine di un’orrida cultura impositiva, trasmissiva, autoritaria, ex-cathedra. I ragazzi, dotati di mezzi informatici, mettono in rete le loro esperienze didattiche, costruite sfruttando quelle già depositate da altri studenti. La cultura, la conoscenza, le biblioteche, i libri, sono sostituiti dal “repository” delle esperienze didattiche “autonome”. Quale ruolo resta all’insegnante in questo processo? Soltanto quello di “specialista della gestione dell’istruzione”, un “facilitatore” che aiuta gli studenti a cercare le informazioni, una sorta di animatore culturale del genere degli animatori delle feste di compleanno dei bambini; tanto che è in discussione se nel futuro la figura dell’insegnante servirà ancora.
Ho sentito più di un manager o dirigente di sezioni di ricerca di aziende lamentarsi degli inconvenienti dell’“open space”, degli ostacoli che frappone a pensare, riflettere, progettare. Ma, per questi ideologi, l’“open space” deve essere introdotto proprio nel luogo deputato allo studio. Ma qui sta l’equivoco: parlare di studio è roba da vecchi arnesi della cultura. Un punto centrale del decalogo è che la scuola deve basarsi sulla centralità del “giocare”, il “giocare serio” su Internet che permetterebbe di far crescere le interazioni sociali e addirittura il senso civico. Insomma, la scuola non serve a studiare ma è soprattutto un luogo di socializzazione. Del resto, non è da questi laboratori ideologici che è uscita l’esilarante affermazione secondo cui il videogioco è la più grande rivoluzione epistemologica del Novecento?
Quindi, esperienze didattiche autonome, apprendimento giocoso che si fa ovunque, da soli, da compagno a compagno, o a gruppi, pescando in rete quel che serve con l’eventuale aiuto del gestore-facilitatore. Qui nasce il capitolo “strumenti” che vede il ruolo centrale della tecnologia informatica. Se qualcuno crede che tutto si riduca a dotare gli studenti di “tablet” per non portare a scuola carichi di libri, è rimasto alla preistoria. Quali libri? Qui si parla di un sapere diffuso costruito raccattando di tutto in rete con ogni mezzo. Quindi, anche i computer e le reti di computer connessi in rete sono importanti ma non si proiettano nel futuro didattico, che ha il nome di telefono cellulare, di smartphone. Scuola sarà sinonimo di smartphone. Del resto, già ora c’è chi dice che gli editori farebbero bene a non mettere figure nei libri, tanto lo studente munito di smartphone (genitori, preparatevi all’acquisto) su suggerimento del facilitatore scaricherà dalla rete le figure richieste, che si tratti del teorema di Pitagora o del Mosé di Michelangelo.
Un ultimo capitolo riguarda la valutazione. Niente più voti, ma soltanto valutazioni formative completamente automatizzate, e un “portfolio” che illustra le competenze acquisite, eventualmente anche un portfolio di gruppo (sarà da ridere quando verrà presentato al datore di lavoro).
Qualsiasi persona ragionevole capisce quale insulto all’intelligenza rappresenti l’idea forsennata di sostituire la cultura accumulatasi in qualche millennio di storia con il “repository” delle esperienze didattiche di adolescenti. Qualsiasi persona con i piedi per terra, chiunque abbia mai visto in vita sua un bambino o un ragazzo, si figura quale colossale buffonata, quale circo, quale farsa produrrebbero inevitabilmente ricette del genere, che possono uscire soltanto dalla cucina del più astratto fanatismo ideologico.
La mattina si entra a “scuola” a orari variabili, personalizzati. «Papà, oggi entro alle 12, perché ho concordato a quell’ora una ricerca transdisciplinare sulla questione energetica con Franco ed Elena; prima vado a fare un “gioco serio” in rete». «Ci dà una mano, facilitatore? Vorremmo fare una ricerca sul conflitto d’interessi». «Ma non vi sembra che da tempo non fate nulla di matematica?». «La matematica è antisociale e comunque le equazioni di secondo grado no, sono repressive». «Facilitatore, ho saputo che in Spagna hanno avviato un progetto scolastico sulla masturbazione detto “La felicità nelle tue mani” [verissimo, N.d.R.]. Io e Francesco vorremmo studiarlo  e approfondirlo». «Ora vi aiuto a trovarlo in rete». «A me non mi si scarica la foto di Einstein, mi si è impallato l’i-phone». Non vi va di studiare la fisica? Nessun problema: non ci sono programmi. C’è chiasso nell’open space? Niente da fare. Non esiste voto di condotta. Del resto, le urla sono una modalità di socializzazione, come il bullismo.
Bene, non possiamo abusare dello spazio del giornale e offendere la fantasia del lettore che certamente immaginerà da solo scenari ancor più surreali e divertenti, si fa per dire. Si chiederà chi propugna queste cose. Non vogliamo far torto a nessuno, prendendocela con l’uno piuttosto che con un altro. Del resto, basta andare in rete (magari con lo smartphone…) per rendersi conto di quanto pulluli questa ideologia. Questa è la scuola che si vorrebbe costruire per far impallidire le descrizioni dell’attuale degrado proposte da Paola Mastrocola. Questo è il medioevo prossimo venturo che si vorrebbe riservare al paese.

Giorgio Israel

(Il Giornale, 18 aprile 2011)
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Open space e attività autogestite liberamente? Una reminiscenza marxiana:



«E infine la divisione del lavoro offre anche il primo esempio del fatto che fin tanto che gli uomini si trovano nella società naturale, fin tanto che esiste, quindi, la scissione fra interesse particolare e interesse comune, fin tanto che l’attività, quindi, è divisa non volontariamente ma naturalmente, l’azione propria dell’uomo diventa una potenza a lui estranea, che lo sovrasta, che lo soggioga, invece di essere da lui dominata. Cioè appena il lavoro comincia ad essere diviso ciascuno ha una sfera di attività determinata ed esclusiva che gli viene imposta e dalla quale non può sfuggire: è cacciatore, pescatore, o pastore, o critico, e tale deve restare se non vuol perdere i mezzi per vivere; laddove nella società comunista, in cui ciascuno non ha una sfera di attività esclusiva ma può perfezionarsi in qualsiasi ramo a piacere, la società regola la produzione generale e appunto in tal modo mi rende possibile di fare oggi questa cosa, domani quell’altra, la mattina andare a caccia, il pomeriggio pescare, la sera allevare il bestiame, dopo pranzo criticare, cosí come mi vien voglia; senza diventare né cacciatore, né pescatore, né pastore, né critico.»
K. Marx-F. Engels, L’ideologia tedesca, Editori Riuniti, Roma, 1972, pag. 24

Inutile dire che tutto il "piccolo" problema sta in quel «la società regola la produzione generale». La "regolazione" è un fatto cruciale, altrimenti se tutti una mattina decidono di andare a pescare… E come può una società avanzata sopravvivere senza specializzazione? E chi "regolerà"? La "società"? Chi è la società? La "società" non è un soggetto, se non si affronta e risolve il problema della rappresentanza.
Si è visto com'è finita questa "regolazione": con la dittatura del Partito, la polizia politica, la collettivizzazione forzata, le distribuzioni forzate di popolazioni, e il Gulag.
E a scuola? Ci sono diversi possibili sbocchi: dal ritorno del più bieco autoritarismo, alla dittatura dei bulli (scenari compatibili), allo sfacelo. Mentre la società (non comunista) si "difende" creando scuole private strutturate sul vecchio modello e riservate ai ricchi, mentre i poveri vanno nel Gulag scolastico.
Sarà un caso che idee simili vengono proposte da personaggi che in anni non tanto lontani difendevano a spada tratta il modello sovietico?

domenica 17 aprile 2011

BESTIARIO MATEMATICO n. 11

Prendiamo Il Libro degli esercizi per la 2a elementare edito da Giunti scuola, pag. 23.
Si propone la tavola pitagorica con le sole prima riga e colonna, chiedendo di compilarla, ovvero di fare le relative moltiplicazioni.
Fin qui nulla da ridire.


Poi si propongono le seguenti domande:
1) Quali sono i numeri che compaiono 4 volte?
2) Di quali moltiplicazioni sono il risultato?
3) Quali numeri compaiono una sola volta?
4) Di quali moltiplicazioni sono il risultato?


Naturalmente, in tutto questo non c'è nulla di sbagliato, e quindi si potrebbe dire che non andrebbe messo sotto la voce "bestiario".


Tuttavia, il problema è: qual è il senso di un simile esercizio? Che cosa mira a far scoprire? Quali capacità pretende di sviluppare?


Nessuna, eccetto, forse, delle abilità del tipo "settimana enigmistica". 
Propone un'attività osservativa che andrebbe forse bene nelle scienze naturali, ma non corrisponde a niente in matematica, non rivela alcuna regolarità, alcuna proprietà, non stimola alcuna capacità specificamente matematica.


Che cosa si ricava dallo scoprire ed elencare i numeri che compaiono 4 volte? Se ne ricava soltanto una perdita di tempo a osservare e annotare la tabella. Un'attività che con l'acquisizione di capacità matematiche non ha nulla a che fare.
I numeri che compaiono una sola volta sono 1 e 100 e poi alcuni che si trovano sulla diagonale principale. Stavo per ricavare distrattamente qualche proprietà da questa osservazione, ma neanche questa esiste... Grazie a chi me l'ha fatto notare, osservando che vi sono altri numeri che compaiono una sola volta sulla diagonale principale. Il guaio è che neanche questa è una caratterizzazione di alcunché. Difatti, non tutti i numeri della diagonale principale compaiono una sola volta. E non soltanto 2 e 4, ma anche 36 (che è uguale a 4 per 9) e anche 16 (2 per 8). Dobbiamo fare un elenco di osservazioni, come fossimo entomologi, doppiati da enigmisti? Oppure qualcuno ha voglia - per fare il matematico per davvero - di fare qualche studio di analisi combinatoria per trovare qualche risultato dotato di senso? Roba da seconda elementare, evidentemente...
Risulta così ancor più evidente l'assoluta idiozia di questo "esercizio" che è tutto, salvo che un esercizio di matematica.
Quel che si richiede è soltanto una penosa, noiosa, inutile, defatigante ricerca sulla tabella senza alcuno scopo se non quello enigmistico.
Provate a sottoporre un esercizio del genere a un bambino (io ci ho provato): se ne ritrarrà disgustato.
È un modo perfetto per rendere odiosa la matematica, presentandola come un'attività meccanica, un'enigmistica insensata, inutile e mortalmente noiosa.


Per il resto, c'è tutto il solito armamentario di bestialità: come il dedicare una pagina di esercizi a eseguire "divisioni di ripartizione" e un'altra a "divisioni di contenenza", come se fossero due operazioni diverse... E, ovviamente, disegnando...


Ci piacerebbe intrattenerci sulle parti dedicate alla storia. Si propongono episodi storici o almeno aneddoti? Figurarsi. I temi sono: successione, contemporaneità, tempo ciclico, calendario, misurare il tempo, durata (fanno pure i bergsoniani- einsteiniani...), orologio, causa-effetto, ecc.
E la geografia: spazi aperti e chiusi, pubblici e privati, punti di riferimento, piante, mappe, paesaggio.
Ma qui parliamo di matematica, e quindi lasciamo perdere. Questa assurda inversione, per cui la matematica diventa entomologia e storia e geografia discipline formalizzate l'ho discussa nel mio "Chi sono i nemici della scienza?".


Quando si riuscirà a rottamare le Indicazioni nazionali che producono questa disastrosa didattica?

mercoledì 13 aprile 2011

Ma davvero solo l’istinto animale spiega i nostri comportamenti?



Francis Fukuyama è divenuto famoso una ventina di anni fa per aver pubblicato un libro in cui prevedeva La fine dalla storia. Raramente una profezia fu tanto nettamente smentita: la storia continua a scorrere impetuosa, sempre più turbolenta e spessa, sotto i nostri occhi. Ma il saggista statunitense-giapponese è indubbiamente tentato in modo compulsivo dal desiderio di prevedere la fine di qualcosa, visto che pochi anni fa ha addirittura previsto la fine dell’uomo in un libro sul futuro postumano, la quale fine sarebbe conseguenza della rivoluzione biotecnologica. Ora viene annunciata la prossima uscita di un altro libro di Fukuyama dedicato ad analizzare l’evoluzione culturale dell’umanità dalla preistoria fino a quei tempi presenti che si protendono verso il futuro postumano. Non sarebbe serio parlare di un libro prima che sia uscito e prima di averlo letto. Ma colpisce il fatto che esso venga annunciato in associazione con l’uscita di un altro libro scritto dal saggista statunitense David Brooks dal significativo titolo The Social Animal, l’animale sociale, l’uomo ovviamente. Questo libro è frutto di un’intensa frequentazione dell’autore con neuroscienziati, sociologi, psicologi behavioristi e mira a ricostruire i meccanismi dei comportamenti umani in termini di istinti ed emozioni anziché entro i vecchi consunti schemi della razionalità, e quindi in un’ottica che definiremmo “postumanistica”. Insomma, il lancio di questi libri è all’insegna del motto “più biologia, meno filosofia”. Come dice Brooks, «la filosofia e la teologia ci aiutano meno che nel passato, si sono come atrofizzate». Certo, se si assume come unico motore dei comportamenti umani l’istinto animale e si riduce tutto a biologia c’è poco da sorprendersi: più che atrofizzata la filosofia viene eliminata d’autorità, non ha semplicemente ragione di esistere.
Questa dilagante ossessione di rifugiarsi nel riduzionismo biologico fa venire in mente un passaggio de L’insostenibile leggerezza dell’essere di Milan Kundera. L’autore narra che la prima volta che Tereza entrò nell’appartamento di Tomás, il suo futuro amante, la sua pancia si mise a gorgogliare, rivelando così «l’inconciliabile dualità di corpo e anima, esperienza umana fondamentale». È un’esperienza che ciascuno vive quando si manifesta il conflitto tra i propri fini e i limiti imposti dal corpo, soprattutto nella malattia e nella vecchiaia. Ormai, osserva Kundera, la scienza ci spiega «che l’anima non è che un’attività della materia grigia del cervello. La dualità di corpo e anima si è avviluppata in una terminologia scientifica e ne possiamo ridere allegramente come di un pregiudizio fuori moda. Ma basta innamorarsi follemente e sentire il brontolio del proprio intestino, perché l’unità di corpo e anima, questa lirica illusione dell’età della scienza, svanisca di colpo». E nel suo svanire ritornano i problemi cruciali della filosofia, falsamente accantonati. Ma la lirica illusione “vende” molto di più anche in nome di stereotipi abilmente diffusi con metodi da marketing pubblicitario, tra cui lo slogan secondo cui la filosofia non rispetta i principi del “problem solving”; come se le teorie comportamentistiche su basi biologiche fossero in grado di spiegare alcunché. Ma non importa. Come scriveva di recente una rivista di divulgazione scientifica americana, chi confessi di star leggendo un libro di filosofia fa la stessa figura di una persona che venga sorpresa mentre esce da un cinema dove viene proiettato un film pornografico.
(Tempi, 13 aprile 2011)

sabato 9 aprile 2011

L'universo nasce da un gas intestinale, ecco la nuova cosmopetologia della Hack


Ritengo che non si sia prestata la dovuta attenzione alla nuova proposta di cultura scientifica avanzata da Margherita Hack quando ha detto che spiegherà ai bambini il Big Bang come una grande scorreggia dell’universo da cui è nato tutto quel che vediamo. L’analogia pone un sottile problema epistemologico derivante dal fatto che la scorreggia è contenuta nell’intestino. Perciò siamo qui di fronte al caso paradossale del contenente che diventa contenuto. L’universo prima del Big Bang era estremamente compresso, praticamente puntiforme (quasi come il punto di Euclide, “ciò che non ha parti”) e da questa entità atomica è esplosa una colossale scorreggia che ha incluso l’“intestino” che l’aveva prodotta. Così il corpo umano è solo in apparenza solido, in realtà, è scorreggia espansa da un microintestino puntiforme e compresso. Del resto, come dice Hack, le stelle sono soltanto palle di gas, ovvero parti di scorreggia. Allo stesso modo, non c’è ragione di ritenere che il cervello sia altro che scorreggia che produce quelle piccole scorregge che sono i pensieri – inclusi quelli di Hack, non se avrà di certo a male, visto che lei stessa osserva che qualcuno «nelle stelle ci vede il romanticismo ma son tutte balle». Insomma, per parafrasare Sraffa, il pensiero è produzione di scorregge a mezzo di scorregge.
Nasce però un altro problema, oltre a quello della puzza che però tralasciamo perché troppo complesso: ovvero, l’universo puzza oppure no? trattasi di una scorreggia a base di metano o a base di anidride solforosa? Difficile stabilirlo dall’interno, si rischia di restare impigliati in qualche paradosso logico. Il problema sollevato dalla teoria della scorreggia è simile a quello dell’uovo e della gallina: cosa c’era prima del Big Bang? Secondo Ilya Prigogine prima v’era un altro universo talmente espanso da collassare in un punto per dar luogo a un nuovo Big Bang, per cui il processo cosmico sarebbe una sequenza di collassamenti ed esplosioni separati dai punti di singolarità in cui avviene il Big Bang. Ora la visione della Hack (in onore della quale proponiamo di chiamare quei punti di singolarità “punti di Hack”) permette di vedere concretamente il processo cosmico come una sequenza di scorregge che si espandono fino a collassare in modo puntiforme per aprire la strada a sempre nuove e immense scorregge. E via scorreggiando.
Apprendiamo che Francis Fukuyama (specialista in “morti” che non avvengono mai) dopo la fine della storia ha decretato la fine dell’umano. Il saggista americano David Broooks nel suo The Social Animal ha decretato la fine della teologia e della filosofia. A sua volta Stephen Hawking decreta che «la filosofia è morta, non ci resta che la fisica». Alexandre Koyré sosteneva che senza una metafisica influente la scienza è morta. Smettiamola con questo pessimismo. Non c’è da temere: ora sappiamo che della filosofia la scienza non ha davvero più bisogno. Essa d’ora in poi poggerà sulle solide basi della cosmopetologia.
(Il Foglio, 6 aprile 2011)

Post scriptum — Dopo attenta riflessione va, al contrario, osservato che con la cosmopetologia ha luogo una grande rivincita della filosofia, anzi della metafisica, e precisamente di quella tanto cara al prof. Emanuele Severino. Difatti, potremmo dire che risulta ristabilita la visione di Parmenide secondo cui l'essere, unico e indivisibile, è assolutamente immutabile dietro la multiforme apparenza del cambiamento, in quanto eterna e immutabile scorreggia.