mercoledì 24 marzo 2010

A PROPOSITO DELLE NUOVE INDICAZIONI NAZIONALI PER I LICEI



Rileggendo le varie Indicazioni nazionali per l’istruzione che si sono succedute in questi anni viene alla mente quella bibbia della composizione letteraria classica che è stata l’“Arte poetica” di Nicolas Boileau. Malgrado il discredito in cui avevano cercato di gettarla i romantici, ancora nel 1946 André Gide scriveva: «Quei saggi precetti di Boileau, che ci facevano imparare a memoria, in cui la tradizione classica veniva cristallizzata in versi alessandrini, sarebbe interessante riprenderli uno dopo l’altro». In particolare, vengono alla mente i versi: «Prima di scrivere apprendete a pensare. Secondo che la nostra idea sia più o meno oscura, l’espressione la segue, o meno netta, o più pura. Quel è ben concepito si enuncia chiaramente e le parole per dirlo vengono facilmente».
Proprio quel che non accade con le Indicazioni nazionali fin qui propinate, in cui abbondano, per dirla con Boileau, «pensieri oscuri avvolti da una nube spessa» che «la luce della ragione non saprebbe penetrare». Ora si prescriveva di sviluppare l’«approccio senso-percettivo all’ambiente circostante» e di «costruire le proprie geografie». Ora si sentenziava nientedimeno che «la costruzione del pensiero matematico è un processo lungo e progressivo nel quale concetti, abilità, competenze e atteggiamenti [sic] vengono ritrovati, intrecciati, consolidati e sviluppati a più riprese». Si indicavano obbiettivi tanto generali da essere vuoti e lapalissiani: «usare le conoscenze e le abilità per orientarsi nella complessità del presente», «esercitare la riflessione critica sulle diverse forme del sapere».
Pochi leggono questi testi e invece è istruttivo farlo. Essi dicono come la scuola si sia allontanata dal senso comune e dal buon senso, ma anche dal linguaggio della cultura, che tale è solo se è libero e corrispondente a un significato realmente pensato. La scuola si è isolata in un gergo autoreferenziale, fatto di formule tronfie e vacue («accesso critico agli ambiti culturali»), intrise di una terminologia didattico-burocratica in cui è vietato scrivere più di una riga senza pronunziare alcune parole sacre (“abilità”, “apprendimenti”, “competenze”, “attitudini”, ecc.), come la recita meccanica di una preghiera. È quasi superfluo dire che questo gergo riflette un intento: porre al centro la metodologia a totale scapito dei contenuti. «Non pensi mai a quello che dovrà insegnare, che è del tutto secondario» – ho sentito predicare a una futura insegnante – «pensi soltanto a come dovrà insegnare».
Le nuove indicazioni nazionali per i licei, da pochi giorni rese pubbliche, rovesciano questa tendenza e rimettono al centro i contenuti dell’insegnamento, proponendo semplici prescrizioni in un linguaggio chiaro e alieno da schemi preformati (com’è caratteristico di ogni testo che sia frutto di un pensiero autentico). Lo studio della lingua e della letteratura italiana non è più un pretesto per “qualcos’altro”, magari per inseguire obbiettivi reboanti come l’“esercizio pieno della cittadinanza” o il “rispetto dell’altro”. Il contributo della scuola alla formazione del cittadino sta nella formazione culturale in base al principio che la conoscenza è libertà. Lo studio della lingua ha come principale scopo il padroneggiare la lingua stessa per esprimersi correttamente e organizzare i ragionamenti, e per comprendere a fondo la cultura italiana. Lo studio della letteratura significa in primo luogo acquisire il piacere e l’arte della lettura, sviluppare la curiosità intellettuale, ancora una volta per entrare nello spirito della nostra cultura. Rimettere al centro la Commedia di Dante Alighieri va in questa direzione. Non meno significativo è l’accento posto sull’importanza della filosofia, con l’innovazione di dedicare l’ultimo anno del liceo alle filosofie posthegeliane, con una marcata attenzione per la problematica scientifica e la teoria della conoscenza.
Questo porta a dire qualcosa circa le indicazioni concernenti le scienze e, in particolare, la matematica. Si tratta, com’è noto, di una questione strategica per la riqualificazione della nostra scuola. Come rendere interessante lo studio delle materie scientifiche e soprattutto della “bestia nera”, la matematica? La corretta risposta sta nel presentare la matematica non come un insieme di tecniche autoreferenziali, ripetitive, meccaniche e di cui è incomprensibile il significato e la portata in un contesto più generale; bensì nel metterne in luce il ruolo centrale non soltanto nella scienza (in particolare nella fisica) ma nel processo generale della conoscenza. Queste nuove indicazioni nazionali riescono a realizzare questo obbiettivo perché mirano a mettere in luce le relazioni profonde tra le discipline, pur declinate nella loro inevitabile specificità, senza indulgere a fumose e inconsistenti visioni totalizzanti e “olistiche”. Perciò la chiave è mettere in luce le connessioni tra filosofia, storia e scienze, e tra le discipline scientifiche fra di loro, il che permette di portare in primo piano il valore culturale di queste ultime.
È quindi una grande innovazione che, sia per la fisica che per la matematica, si indichi come obbiettivo l’acquisizione da parte dello studente della «consapevolezza critica del nesso tra lo sviluppo» di quei saperi e «il contesto storico e filosofico» in cui essi si sono sviluppati. Non meno importante è che si indichi la necessità che lo studente si avvicini allo spirito sperimentale della fisica senza confonderlo con un cieco empirismo e senza dimenticare che la disciplina poggia su solidi fondamenti concettuali e teorici. Si enuncia con poche e chiare parole – poche e chiare perché ben pensate, avrebbe detto Boileau – il senso profondo del metodo sperimentale, «dove l’esperimento è inteso come interrogazione ragionata dei fenomeni naturali e strumento di controllo di ipotesi interpretative, scelta delle variabili significative, raccolta e analisi critica dei dati e dell’affidabilità di un processo di misura, costruzione di modelli».
Per quanto riguarda poi la scelta dei contenuti specifici dell’insegnamento della matematica, essa viene giustificata in termini storici, facendo riferimento ai «tre principali momenti che caratterizzano la formazione del pensiero matematico»: «la matematica nel pensiero greco, la matematica infinitesimale che nasce con la rivoluzione scientifica del Seicento, la svolta a partire dal razionalismo illuministico che conduce alla formazione della matematica moderna e a un nuovo processo di matematizzazione che ha cambiato il volto della conoscenza scientifica». Di qui deriva in modo naturale l’individuazione dei tre principali gruppi di concetti e metodi che lo studente dovrà padroneggiare: geometria euclidea; algebra, geometria analitica ed elementi del calcolo infinitesimale; elementi del calcolo delle probabilità e della statistica. Nessun astratto chiacchiericcio sulla “matematica del cittadino” e altre amenità, ma una chiara e solida riconduzione dei contenuti portanti della matematica ai grandi temi della cultura, della conoscenza, della tecnologia. Questa è la cornice per proporre agli studenti esempi di matematizzazione nelle scienze naturali e sociali. Chi abbia sperimentato questo approccio didattico sa che è quello giusto per stimolare l’interesse dello studente e dissolvere l’immagine della matematica come un oggetto alieno.


È davvero da sperare che questa svolta nella formulazione delle indicazioni nazionali dia un contributo decisivo alla riqualificazione della scuola italiana. Essa dovrà estendersi al primo ciclo dell’insegnamento, con una visione d’insieme che permetta anche un riassetto equilibrato e organico di materie strategiche come la storia e la geografia. Le numerose reazioni favorevoli a questi documenti permettono di nutrire fiducia che sia stata imboccata la via giusta.

(Il Messaggero, 20 marzo 2010)

martedì 23 marzo 2010

BESTIARIO MATEMATICO n. 5

Problema proposto in una classe di quinta elementare:


Dato un triangolo qualsiasi, è nota la lunghezza della base (4 metri) e dell'altezza (8 metri).
Determinare il perimetro.


Chi ci riesce guadagna un premio di 1000 euro.
Il maestro la soluzione l'ha data... ma il premio non glielo do...

domenica 21 marzo 2010

BESTIARIO MATEMATICO n. 4

Quasi tutti conoscono la proprietà commutativa dell'addizione e della moltiplicazione.
In altri termini, la proprietà (dei numeri ordinari, interi, razionali, ecc.) per cui:
a + b = b + a  (per l'addizione)
a x b = b x a (per la moltiplicazione).


Ebbene, sapete come la presentano alcuni libri e i maestri che adottano questi libri?
Non come una proprietà dei numeri interi, razionali, ecc. No, per carità. Bensì:
Come un metodo per verificare se il risultato dell'operazione è giusto!......


Ovvero, fate a + b. Il risultato è c.
Ora calcolate b + a. Se il risultato è ancora c vuol dire che avete fatto il calcolo giusto.


No comment


(E se per caso vi viene ugualmente sbagliato in entrambi i casi?......)
Qui di cappelli d'asino ce ne vuole una serie infinita.


P.S. Sapete la storia (assolutamente autentica) di quello studente che, abituato all'"ortografia" dei cellulari ha letto il nome del "generale Nino Bixio" (il luogotenente di Garibaldi) come il "generale Nino Biperio"?...
Bene, qui mi manca il simbolo del "punto" per il prodotto.
Nel caso che quel giovane legga questo post vorrei precisare che a x b = b x a non vuol dire "aperbi = bipera".

giovedì 18 marzo 2010

Un appello per abolire Dante con surreale dibattito allegato



Appena l’amico Dino Cofrancesco ha fatto pubblicare su L’Occidentale un appello per la cancellazione dell’insegnamento della Divina Commedia di Dante dalle scuole italiane, l’ho subito avvertito che avrebbe toccato con mano una realtà spiacevolmente sorprendente. Così è stato, ma lui giustamente sostiene che è meglio guardare la realtà in faccia.
Ricordiamo rapidamente di che si è trattato. Cofrancesco si è autonominato Segretario organizzativo dell’ARRE, Associazione per il rispetto di tutte le religioni e la convivenza pacifica delle etnie culturali – presieduta dal Prof. Franco Romano e avente come Presidente onorario Sergio Cardini – e, in tale veste, ha rivolto al Ministro Gelmini una petizione per la cancellazione dell’insegnamento di Dante dalle scuole. La motivazione era dettagliatissima, con riferimento a brani della Divina Commedia («a torto ritenuto capolavoro della lingua italiana») che testimoniano le ripetute offese rivolte dal «cosiddetto divin poeta» alle religioni non cristiane e persino a quella cristiana, le sue visioni reazionarie, oscurantiste, antiscientifiche, antifemministe, antisemite e, più in generale, l’assenza del più elementare “politicamente corretto”. Facendosi portavoce delle proteste di numerosi cittadini di religione islamica, dell’Associazione tosco-emiliana per la difesa delle tradizioni cittadine e della Federazione Gruppi Gay Riuniti, l’ARRE proclamava di voler sostenere la propria richiesta fondando un movimento antidantesco con sezioni in ogni città della penisola.
A distanza di pochi giorni è stato possibile trarre un bilancio dalla provocazione, un bilancio che chiunque può fare esplorando le reazioni che si trovano ancora in rete. Un numero consistente di persone si è infuriata contro l’ARRE, gli extracomunitari e gli islamici. Ma la maggior parte ha reagito in modo civile e ragionato, difendendo sì i valori della nostra cultura e opponendosi alla prospettiva di cancellare il “divin poeta” dalle scuole di ogni ordine e grado, ma proponendo un approccio tollerante, insomma chiedendosi cosa si potrebbe fare per non offendere troppo i “diversi”. Giustamente Cofrancesco ha trovato questo atteggiamento il più deprimente, «la prova del nove dello spappolamento irrimediabile dell’intelligenza e dell’etica sociale del paese»: «tutto può venir messo in discussione, su tutto si può argomentare pro o contro, l’essenziale è comunicare, scambiare idee, ascoltare quanto hanno da dire gli altri». È un atteggiamento che non esclude come via d’uscita che si continui pure a leggere Dante nelle scuole, ma censurando tutti i passi “offensivi” e “politicamente scorretti”, il che sarebbe anche un’ottima occasione per ridimensionare ulteriormente la lettura di un testo tanto lungo e prolisso…
Vorrei sottolineare un altro aspetto profondamente avvilente. Salvo pochissimi, nessuno si è dato la briga di controllare se l’appello fosse attendibile. Eppure quei “Sergio Cardini e Franco Romano” dovevano mettere sull’avviso e sarebbe bastata una rapida esplorazione della rete per rendersi conto che l’ARRE non esiste. Siti del tutto rispettabili, persino parecchi siti di associazioni di insegnanti hanno riportato la petizione senza controllare, hanno citato l’ARRE come se sapessero da tempo della sua esistenza. Lo so che un simile atteggiamento credulone era implicito nel fatto di discutere sul serio i contenuti della petizione. Ma mi chiedo: a quale livello siamo scesi, a quale forma di “wikipedizzazione” che spinge a bere qualsiasi cosa circoli in rete? C’è da stupirsi allora se i nostri giovani stanno cadendo in una condizione di abbrutimento culturale crescente?

(Tempi, 17 marzo 2010)

venerdì 12 marzo 2010

Sulla riforma dell'università

La riforma dell’università è un tassello fondamentale della riforma del sistema dell’istruzione nazionale. Attorno al disegno di legge in discussione in Parlamento si sta sviluppando un dibattito che, da un lato ha dimostrato un’ampia convergenza sulle linee fondamentali del testo, d’altro lato ha messo in luce gli aspetti su cui possono essere apportate utili revisioni.
In termini generali, ogni intervento dovrebbe ispirarsi al principio di non stressare un sistema che da decenni non conosce requie. Alla lunga, trasformare l’università in un perpetuo cantiere può avere effetti devastanti. Se l’attività prevalente dei docenti non è più insegnare e far ricerca bensì implementare nuove leggi e decreti, ciò non è soltanto negativo in sé, ma favorisce coloro che sono più abili a “gestire” che non a compiere le funzioni per cui sono stati assunti. Occorre quindi pensare a interventi che ricorrano al bisturi di precisione piuttosto che allo scalpello, limitando al massimo i provvedimenti attuativi.
Da questo punto di vista, il disegno di legge in discussione è convincente nello spirito generale – soprattutto per quanto riguarda il meccanismo di reclutamento e di carriera dei docenti – ma, da un lato, lascia aperti aspetti che andrebbero precisati subito, per evitare il rischio del “cantiere perpetuo” e, dall’altro, contiene troppe regole e meccanismi complicati di taglio dirigistico.
Il provvedimento articola il sistema di governo dell’università in modo convincente, secondo un modello largamente diffuso a livello internazionale, ma non definisce chiaramente le funzioni del Senato accademico rispetto a quelle del Consiglio di amministrazione, col rischio di conflitti di competenza. Inoltre tende a sottrarre al corpo docente la gestione della didattica e della ricerca (il Senato accademico si limita a formulare “proposte” in materia) e mostra una propensione aziendalistica evidente nella struttura del Consiglio di amministrazione, composto di «personalità italiane o straniere di comprovata competenza in campo gestionale e di un’esperienza professionale di alto livello» (per almeno il 40% non universitari). Di questo organo non sono chiarite le modalità di selezione, come se la competenza gestionale o professionale fosse evidente di per sé e al di sopra di ogni valutazione. È noto che il corpo docente non ha buona stampa, ma alla fin fine l’università è pur sempre un’istituzione di cultura, insegnamento e ricerca e non è introducendo una logica aziendale senza verifiche che si può sperare di sanare i mali creati da qualche decennio di assunzioni ope legis e di provvedimenti malamente accatastati e spesso improvvidi come il sistema localistico di reclutamento e il percorso laurea triennale–laurea specialistica. Un confronto con gli statuti di alcune università americane evidenzia in quest’ultime un sistema che attribuisce maggior peso al corpo accademico e che non fa concessioni demagogiche a organi docenti-studenti a composizione addirittura paritetica.
Il disegno di legge sceglie una via giusta quando mira ad attribuire maggiore importanza ai dipartimenti, conferendo loro funzioni didattiche e non soltanto di ricerca e riduce al minimo le funzioni delle facoltà. Ma bisogna fare i conti con le caratteristiche del sistema italiano. Se si volesse davvero fondare tutto il sistema universitario sui dipartimenti occorrerebbe abolire la strutturazione in settori scientifico-disciplinari. Pare evidente a molti che sarebbe un’ottima scelta perché questa strutturazione introduce rigidità grottesche: un docente che voglia cambiare di settore, magari perché ha cambiato attività di ricerca – per esempio da un settore di matematica a uno di fisica – si trova di fronte a ostacoli enormi. Ma abolire il sistema dei settori scientifico-disciplinari sarebbe una rivoluzione da bulldozer, altro che scalpello. E allora, non potendola fare, occorre tenersi le facoltà, altrimenti nessuno potrebbe gestire i tantissimi corsi di laurea interdisciplinari. Quale dipartimento potrebbe mai gestire un corso di laurea di formazione di un insegnante delle scuole secondarie di primo grado? Occorre pensare a facoltà “leggere”, che tengano sedute plenarie solo in casi eccezionali, che si strutturino per commissioni, e il cui preside sia una figura meramente “presidenziale”. Tutto questo dovrebbe essere precisato in dettaglio fin d’ora per rendere il processo di transizione rapido e agile.
È evidente che, per risanare l’università, è necessario un efficace sistema di valutazione. Ma anche qui è necessario alleggerire al massimo le regole e pensare a controlli a valle piuttosto che a tante prescrizioni a monte. Per esempio, per quanto riguarda il reclutamento, l’esperienza suggerisce che non esiste sistema, per quanto stringente, che non possa essere aggirato. È assai meglio concedere molta libertà nel reclutamento e poi valutare ex post i risultati ottenuti. Un esempio tipico di inutili controlli a monte è la norma della quantificazione dell’impegno dei docenti in 1500 ore annue. Può forse avere senso per un’équipe di laboratorio. Ma chi debba fare una ricerca in una biblioteca come sarà controllato? Con una cimice appesa alla giacca o con attestati dei bibliotecari che garantiscano anche che non abbia passato il tempo a fare videogiochi sul computer? Si dice che simili norme sono suggerite dall’Europa: ma non ogni stupidaggine deve essere accolta soltanto perché porta un timbro comunitario.
La scelta del sistema di valutazione non può essere lasciata nel vago in attesa che la costituenda agenzia di valutazione la costruisca chissà come e chissà quando. Per esempio, bisogna dire con chiarezza se il sistema di valutazione deve fondarsi tutto su procedure di valutazione numerica oppure su ispezioni incrociate capillari, ovvero su un severo sistema di autovalutazione di contenuto fatto dalle persone e non basato su procedure automatiche. Sarebbe bene non chiudere gli occhi di fronte alla crescente consapevolezza che certe tecniche di valutazione cosiddette “oggettive” – come l’indice delle citazioni (“citation index”) – funzionano bene soltanto in certi settori come la medicina, mentre danno risultati inattendibili o addirittura disastrosi nei settori delle scienze di base, per non dire delle scienze umane. Andrebbe evitato l’ennesimo errore di importare in ritardo un sistema in vigore all’estero, proprio mentre iniziano a evidenziarsi i suoi limiti. C’è qualcosa di puerile nell’idea – cara agli “esperti” di valutazione, per lo più esperti di tecniche aziendali che non hanno mai insegnato o fatto ricerca un’ora in vita loro – secondo cui la valutazione sarebbe una sorta di novità dei nostri giorni. La valutazione dei risultati della ricerca è inerente allo sviluppo stesso della scienza come attività organizzata e professionalizzata fin dall’Ottocento – inerente in quanto esprime il confronto culturale all’interno della comunità scientifica, un confronto che ha senso soltanto se si manifesta in modo aperto, rigoroso, non anonimo e mirante ai contenuti e non a parametri meramente formali. Un buon sistema di valutazione è soltanto quello che restaura un confronto culturale all’interno della comunità universitaria sui contenuti e sulla qualità della ricerca e della didattica. Ogni approccio che si affidi a meccanismi automatici è una concessione alla pigrizia mentale, penalizza la ricerca di base e stimola alle promozioni facili pur di mostrare che l’università laurea tutti in tempo.
(Il Messaggero, 10 marzo 2010)

mercoledì 10 marzo 2010

BESTIARIO MATEMATICO n. 3


La teoria degli insiemi ha visto la luce nella seconda metà dell’Ottocento ad opera di Georg Cantor. In più di duemila anni di matematica, da Euclide a Poincaré, nessuno ne ha avuto bisogno. Ciò detto, oggi, soprattutto in branche come la topologia, la combinatoria, calcolo delle probabilità, ecc. ecc. è un ottimo e vantaggioso linguaggio sintetico. Un linguaggio, niente più.
Ma non bisogna dimenticare che Cantor l’ha introdotta essenzialmente per costruire una teoria dei numeri infiniti” o “transfiniti”. Il punto di partenza è l’osservazione che la numerazione di un gruppo di oggetti si fa mettendolo in corrispondenza biunivoca con un altro insieme più semplice: p. es. le dita di una mano, una manciata di sassolini, ecc. Il fatto che due insiemi finiti siano in corrispondenza biunivoca equivale al fatto che abbiano lo stesso numero di elementi.
Nel campo dell’infinito non è così: un sottoinsieme strettamente contenuto in un altro (e quindi intuitivamente più “piccolo”) può essere posto in corrispondenza biunivoca con il secondo. Il classico esempio (illustrato anche da Galileo) è l’insieme dei numeri pari che è in corrispondenza biunivoca con l’insieme di tutti i numeri naturali (ad ogni numero n corrisponde il numero pari 2n, e viceversa), ma è strettamente contenuto in esso (più “piccolo”). Persino i numeri razionali (frazioni) possono essere posti in corrispondenza biunivoca con i numeri interi e con i pari… Perciò potremmo dire che hanno lo stesso tipo di infinità, hanno lo stesso “numero infinito” o “cardinalità”, “potenza”, o “numero transfinito”, pur essendo contenuti strettamente l’uno nell’altro.
Ovviamente qui non entriamo nella teoria cantoriana dei numeri transfiniti e nei paradossi cui ha condotto. Ma l’essenziale è questo: questa teoria è stata inventata assieme alla teoria degli insiemi per manipolare matematicamente l’infinito – obbiettivo riuscito soltanto a metà.

Conseguenza: nel caso finito, la teoria della cardinalità o potenza degli insiemi non serve assolutamente a niente, perché in questo caso il concetto di “cardinalità” o “potenza” coincide con quello di “numero” di elementi dell’insieme.

E questo spiega anche perché insistere sulla teoria degli insiemi è fuori luogo, poiché essa è davvero utile, anche nel caso finito, soltanto come linguaggio che abbrevia una serie di lunghi discorsi in contesti tecnici più avanzati.

Ebbene, nelle primarie è invalso il malcostume di introdurre il concetto di potenza di un insieme. D’altra parte gli insiemi considerati sono sempre finiti: sarebbe semplicemente irresponsabile e idiota pensare di introdurre un bambino al difficile e astratto concetto di potenza di un insieme infinito invece di insegnargli le tabelline. Pertanto questa nozione è assolutamente inutile, superflua, un aggravio di definizioni, una violazione del sano principio del rasoio di Ockham.

E invece…. Non soltanto questa nozione viene introdotta ma si dà luogo a un linguaggio non si sa se più idiota o osceno, insegnando al bambino che un insieme di 8 mele è “più potente” (sic!) di un insieme di 6 arance e l’insieme di 6 arance è “meno potente” (sic!) dell’insieme di 8 mele.

Basterebbe dire che il primo è più numeroso del secondo. No, bisogna dire che è “più potente”, termine ridicolo, mai usato da nessun matematico.

E così invece di manipolare numeri e apprendere a contare, i bambini vengono addestrati a una casistica ridicola con un linguaggio ancor più ridicolo.

martedì 9 marzo 2010

giovedì 4 marzo 2010

BESTIARIO MATEMATICO n. 2

Approfondiamo il bestiario matematico relativo alla teoria degli insiemi nelle scuole primarie (elementari).

In molti libri, in molti documenti in rete adottati anche da circoli scolastici, istituti, ecc. si legge che un insieme può essere definito o rappresentato in tre modi:

- per caratteristica, ovvero secondo una proprietà che lo definisce, detta anche definizione intensiva.
Esempio:  P = {insieme di tutti i numeri pari}

- per elencazione, ovvero elencando materialmente tra parentesi i suoi elementi, detta anche definizione estensiva
Esempio. A = {3, 5, 9, 17}

- con un diagramma di Eulero-Venn (locuzione inutilmente pomposa) ovvero con un disegno che rappresenta in modo simbolico l’insieme.




Prima castroneria (didattica):

I diagrammi di Eulero-Venn furono introdotti per la prima volta da Eulero nelle Lettere a una principessa di Germania, per spiegare alla principessa l’inclusione di certi concetti. Ad esempio, il fatto che ogni essere umano è mortale (ma non il viceversa) è rappresentato simbolicamente da questa inclusione (propria) di cerchi:

Ma è facile capire che se pretendo di rappresentare l'insieme delle vocali – dato "per elencazione", V = {a, e, i, o, u} con il sottostante disegno, il  bambino tende a confondere completamente l’insieme qual è realmente – un elenco finito di cinque oggetti – con la figura geometrica a ellisse  dentro cui ballano quei cinque elementi. 

E vedremo subito le conseguenze di questa confusione.
Comunque questa terza “definizione” è soltanto un espediente grafico, un disegno che aiuta, non ha niente a che vedere con le prime due.

Seconda castroneria (concettuale):

Le prime due non sono due definizioni o rappresentazioni della stessa nozione. DANNO LUOGO A NOZIONI PROFONDAMENTE DIVERSE. La definizione “intensiva” restringe enormemente il numero di insiemi considerabili – per esempio A non è definibile mediante alcuna proprietà e gli esempi analoghi si sprecano. La definizione per elencazione è completamente diversa e comprende una marea di casi di insiemi che non sono definiti da alcuna proprietà mentre, d’altra parte molti insiemi definiti da proprietà non sono elencabili (tali sono, per esempio tutti gli insiemi infiniti).
La “definizione” restrittiva è errata e fuorviante anche perché la nozione primitiva di insieme – ovvero dettata dalla nozione comune, usuale, di insieme – può tranquillamente includere i casi in cui l’insieme può essere caratterizzato da una proprietà. Il viceversa non è vero, e quindi la seconda oltre ad essere indebitamente restrittiva, non è intuitiva. I matematici possono anche adottare tale definizioni per alcuni loro scopi ristretti, ma si tratterebbe di una scelta oltre che discutibile, didatticamente sbagliata (nessun libro moderno lo fa).
A questo punto è evidente che è pazzesco assegnare come compito o “verifica” ai bambini esercizi consistenti nel rappresentare un dato insieme nei tre modi anzidetti. Se il bambino è sveglio presto si accorgerà che vi sono insiemi che non sono suscettibili di tutte le rappresentazioni e gli crollerà tutto addosso (a lui e all’insegnante… a meno che questi non cerchi di soffocargli lo spirito critico).

Ora veniamo alla più grande BESTIALITA’ (concettuale e didattica):

È il modo in cui viene frequentemente introdotto il concetto di elemento che non appartiene a un insieme (da cui poi viene il concetto di complementare di un insieme ecc. ecc.).

Si legge in alcuni dei testi suddetti:

Un elemento che non appartiene all’insieme viene chiamato INTRUSO.

Raramente un termine fu più infelice e fuorviante.

«Cerca l’intruso» si propone in un esercizio-verifica e si propone un diagramma di Eulero-Venn del tipo dato nella figura seguente, dove l’insieme dato in forma di elenco è quello delle vocali, V:

L’elemento “intruso” è 8……

Ma con questa rappresentazione geometrica il bambino interiorizza l’idea che l’intruso è un elemento che non dovrebbe stare dentro perché non è nella lista ma che si è infilato “dentro” abusivamente. DENTROperché, in effetti, sta DENTRO! Altrimenti non lo si chiamerebbe INTRUSO!!!
Proprio come un «imbucato» in una festa che non dovrebbe starci, ma di fatto ci sta, sta dentro casa e non fuori.
Cioé dovrebbe star fuori, ma viene messo dentro per farlo vedere, chiamandolo però "intruso".
Quando viene il buttafuori?.....
Ci sarebbe da ridere se non fosse da piangere.
Chi ha pensato questa trovata merita il cappello d’asino.

Una considerazione finale.
Tutte queste disquisizioni aberranti hanno una caratteristica comune:

la mancanza di semplicità, il voler complicare a tutti i costi, il non volersi rifare a nozioni intuitive, proprio mentre si dichiara di inseguire il facile e il semplice.

Chi realizza questo exploit è tipicamente una persona con le idee confuse.
E le persone con le idee confuse si rifugiano dietro la moltiplicazione delle definizioni e delle nozioni. Insomma violano sistematicamente l’aureo principio del rasoio di Guglielmo di Ockam:

Entia non sunt multiplicanda praeter necessitatem
(Gli enti non debbono essere moltiplicati al di là del necessario).

Vedremo prossimamente altri esempi di indebita moltiplicazione delle definizioni.

mercoledì 3 marzo 2010

BESTIARIO MATEMATICO n. 1

(il n. 0 è la proprietà dissociativa)


QUANDO SI SMETTERA' DI TORMENTARE I BAMBINI CON LA TEORIA DEGLI INSIEMI E CON LA LOGICA?
Ma se almeno venisse fatto in modo decente senza metter loro in testa idee fasulle...


Parecchi libri riportano la seguente definizione:

«Un insieme è un gruppo di oggetti che hanno una proprietà in comune»

Se considero un automobile, una mela e un canguro formano, oppure no, un insieme?
Certamente sì. 
Ma non hanno alcuna proprietà in comune.
Qualsiasi gruppo di oggetti è un insieme.

Un insieme non è definito da alcuna "proprietà comune" dei suoi oggetti!








Agli autori il premio cappello d'asino e il cortese invito a tornare a brucare l'erba nei campi

martedì 2 marzo 2010

La distruzione del principio di autorità

Voglio farlo io un elogio di don Giussani a cinque anni dalla morte. Lo voglio fare proprio in quanto ebreo, perché don Giussani era un cattolico che voleva bene agli ebrei, capiva l’ebraismo. So di ebrei con cui ha saputo parlare stimolandoli ad approfondire la propria identità, non per convertirli. E soprattutto voglio fare il suo elogio per quel che ha dato sul tema dell’educazione, dicendo cose coraggiose e giuste – giuste perché vere – e che forse troppi, anche tra i suoi discepoli, stanno dimenticando o travisando. Difatti, don Giussani ha visto in tempo il rischio che si profilava e che ora è realtà: la distruzione del principio d’autorità. Certo, egli respingeva l’idea di guardare indietro, ma per lui il motore dell’educazione era l’esistenza di un maestro – e quindi il richiamo a un principio di autorità, autorità affettiva e autorevole, beninteso – e la trasmissione della conoscenza, dell’esperienza, della tradizione.
Prescriverei la lettura nelle scuole dei brani sulla “conoscenza per testimonianza”. La prescriverei come medicina quotidiana per coloro che ripetono sventatamente i futili protocolli dell’“autoapprendimento” e dell’“autoformazione”. «Tutta la cultura umana si basa sul fatto che uno incomincia da quello che ha scoperto l’altro e va avanti». Banale? Ovvio? Non direi proprio, a stare a sentire chi predica che l’alunno deve ricostruirsi tutta la conoscenza da solo, che nessuno deve insegnare l’algoritmo della divisione o la fonetica, perché sarebbe violenza sui minori, educazione “trasmissiva”, lezione “ex-cathedra”. Non è né banale, né ovvio: è semplicemente vero perché dettato dal buonsenso. Diceva Cartesio che il buonsenso è equamente ripartito ma non tutti sanno usarlo. Qui c’è chi, lungi dal saperlo usare, lo disprezza.
Per convincersi che l’acqua può essere scissa in ossigeno e idrogeno sarà forse necessario rifare l’esperienza di Lavoisier? Si riporrà piuttosto fiducia nella testimonianza di chi l’ha fatta. Certo, occorre che la testimonianza sia affidabile. Ed è giusto essere capaci di verificare questa affidabilità e di riappropriarsi attivamente del sapere trasmesso. Ma chi potrà creare questa capacità se non un autentico maestro? Quando un alunno avrà acquisito questa capacità autonoma sarà in grado di rendersi conto che gli articoli dell’Enciclopedia Treccani sono affidabili mentre quelli di Wikipedia non lo sono. Se nessuno gli avrà insegnato – trasmesso – la capacità di muoversi sul terreno bibliografico andrà allo sbando. Solo chi abbia acquisito a fondo queste capacità – derivanti da conoscenze consolidate nel tempo – sarà in grado di rendersi conto che il Dizionario Biografico degli Italiani fin ad ora pubblicato è affidabile, mentre il seguito, se verrà fatto con i metodi di Wikipedia, non lo sarà.
Ma ora la parola d’ordine dell’autoapprendimento è persino superata. L’ultimo grido è l’“apprendimento personalizzato”, tagliato su misura per ogni studente e che garantisca il “successo educativo”. La perdita del buonsenso trionfa quando si promuove un seminario dal titolo «Perché mi bocci?», appena svoltosi a Bologna con tanto di autorevoli partecipanti. «Ti boccio perché non studi, perché non hai senso del dovere malgrado quel che si sta facendo per te, perché sei un nullafacente» – risponderebbe il buonsenso. Nient’affatto. Agli «studenti che si sentono alieni in classe, insofferenti ai ritmi delle lezioni, alle prescrizioni degli insegnanti, che non sopportano i riti e le regole di questa istituzione che ancora chiamiamo scuola» bisogna offrire «soluzioni educative accattivanti» - recita il depliant. Ma quando si parla di «soluzioni accattivanti» si promuove quella pseudocultura che, per dirla con Zygmunt Bauman, «non ha gente da educare, ma piuttosto clienti da sedurre». Né passa per la mente il dubbio che, se la scuola non funziona, è perché è governata dalle soluzioni imposte da qualche decennio dalla dittatura del pedagogismo dell’autoapprendimento.
No, si vuol raddoppiare la dose di questa cattiva medicina. Secondo l’“esperto” inglese Charles Leadbeater, personalizzare significa «partecipazione e co-creazione». A suo dire, gli studenti sono già co-creatori. Non sono «solo diventati i co-produttori di un nuovo servizio e di nuovi impieghi per il telefono mobile, ma i creatori di una nuova ortografia coniata sulle conversazioni digitali, rapida, snella, abbreviata, fonetica, che dai cellulari sta via via invadendo più generali forme di scrittura».
Insomma, signori dell’Accademia della Crusca e dell’Invalsi, siete inutili cariatidi. Mentre vi lamentate perché gli studenti non sanno più scrivere e usare la logica nel comporre testi, il mondo vi scorre sotto i piedi e i “co-creatori” edificano un nuovo mondo dotato di una nuova lingua. Anzi, toglietevi di mezzo. Lo ammonisce Leadbeater, assieme ai suoi allievi italiani: «dare voce in capitolo a coloro che apprendono».
Si tolgano di mezzo anche quei genitori che pretendono dai figli un rendimento di qualità, rigore, disciplina, concentrazione. Il potere andrà agli alieni in classe e a quei genitori che fanno i sindacalisti della nullafacenza contro l’istituzione «che ancora chiamiamo scuola». E si tolgano di mezzo gli insegnanti che pretendono di insegnare. Una valutazione severa è riservata soltanto a loro, per gli altri c’è soltanto il successo garantito.
Occorrerebbe rileggere e mandare a memoria il celebre brano de La Repubblica di Platone in cui si spiega come dall’eccesso di libertà si passi alla tirannide:
«Forse adunque l’insaziabilità di quel bene che la democrazia si prefigge, la manda in rovina? — Ma quale bene? — La libertà — E in che modo? — Quando uno Stato retto a democrazia, assetato di libertà, si trovi ad avere per capi cattivi coppieri, ed oltre il dovuto si inebrii di libertà non annacquata, allora esso punisce i suoi governanti se non sono molto miti e non concedono molta libertà, e li accusa di essere tristi e oligarchici. Ed è inevitabile che il disordine penetri anche nelle case private e finisca per ingenerarsi l’anarchia anche fra gli animali. — In che modo? — Così: che il padre si avvezzi a divenire simile al figlio e a temere i figli; ed il figlio si faccia simile al padre e non rispetti e non tema i genitori … in tale ambiente il maestro teme e adula gli scolari, e gli scolari fanno poco conto dei maestri e dei pedagoghi; e in tutto i giovani si mettono alla pari con gli anziani e con essi gareggiano a parole e in atti; e i vecchi, cedendo ai giovani, si mostrano pieni di arrendevolezza e di gentilezza, ed imitano i giovani per non sembrare sgraditi né autoritari. … tutto questo ammollisce l’anima dei cittadini… infine non si danno pensiero delle leggi né scritte né non scritte per non avere nessun padrone. Questo veramente è il bello e baldanzoso principio da cui si genera la tirannide».
(Il Giornale, 1 marzo 2010)

lunedì 1 marzo 2010

La complessità è davvero antiriduzionista?

Può sembrare strano a qualcuno che la scienza della complessità sia una nuova versione di riduzionismo materialistico? Me ne rendo conto. Una motivazione di questa tesi può trovarsi nel seguente articolo (n. 101, scaricabile in pdf):
The science of complexity: epistemological problems and perspectives