sabato 29 novembre 2008

Memento sulla valutazione

La Commissione Scientifica dell'Unione Matematica Italiana esprime il
suo apprezzamento per il progetto del Ministero dell'Istruzione,
dell'Università e della Ricerca di individuare criteri
internazionalmente riconosciuti per la valutazione dei titoli e delle
pubblicazioni nelle procedure comparative per il reclutamento dei
ricercatori e dei professori universitari. Nel recente passato criteri
di questo genere erano già stati adottati in maniera autonoma dalla
stragrande maggioranza delle commissioni dei settori MAT/*.

Rileva però che nessun criterio basato unicamente su indicatori
numerici di tipo statistico può sostituirsi al giudizio scientifico
motivato da parte di un gruppo di esperti. In una pubblicazione
esauriente e ben documentata [1], l'International Mathematical Union,
l'International Council of Industrial and Applied Mathematics e
l'Institute for Mathematical Statistics, massimi organi scientifici
della comunità matematica a livello mondiale, hanno sostenuto di
recente che nessun gruppo di parametri basati esclusivamente su dati
bibliometrici (numero di citazioni, indice H, impact factor delle
riviste su cui compaiono le pubblicazioni) può, da solo, dare
risultati affidabili nella valutazione dell'attività scientifica, pur
costituendo un utile elemento di giudizio.

La Commissione Scientifica dell'Unione Matematica Italiana auspica
quindi che tra i parametri che verranno individuati dal Ministero
figurino, in posizione predominante, la qualità, l'originalità, il
rilievo e la persistenza dei risultati scientifici ottenuti dai
candidati. Sulla base dell'esperienza internazionale, tali parametri
non possono essere calcolati automaticamente a partire da dati
statistici, ma possono essere determinati soltanto sulla base del
parere di un gruppo di esperti della materia, che si assume la
responsabilità del giudizio scientifico. Nel caso delle valutazioni
comparative per il reclutamento dei ricercatori, la soluzione più
naturale è affidare questo compito alla stessa commissione
giudicatrice, che potrebbe, ove lo ritenesse opportuno, richiedere il
parere di riconosciuti esperti internazionali.

La Commissione Scientifica dell'Unione Matematica Italiana fa infine
notare che, nelle istituzioni scientifiche internazionali, prima della
decisione finale i candidati migliori vengono convocati per un
colloquio, permettendo così una valutazione diretta delle loro
capacità di esporre i propri risultati e di discutere i problemi della
propria disciplina. Auspica quindi che le nuove norme per il
reclutamento dei ricercatori universitari continuino a prevedere
questa possibilità.


NOTE
[1] R. Adler, J. Ewing, P. Taylor: Citation Statistics, International
Mathematical Union, International Council of Industrial and Applied
Mathematics, Institute for Mathematical Statistics, June 2008.

mercoledì 26 novembre 2008

EBREI E CRISTIANI: IL DIALOGO NON VA ROTTO

(Corriere della Sera, 26 novrembre 2008)

In quanto ebrei italiani impegnati da tempo nel dialogo ebraico-cristiano, pur rispettando le decisioni prese il 17 novembre dall’Assemblea dei Rabbini d’Italia, esprimiamo il nostro profondo dissenso da ogni tentativo di imporre la rottura di tale dialogo e ci impegniamo a proseguirlo sia con gruppi religiosi e laici sia con strutture riconducibili alle autorità ecclesiastiche.
La reintroduzione, nella preghiera in latino del venerdì precedente la Pasqua cristiana, della speranza di “illuminazione” per i fratelli ebrei è un fatto, peraltro circoscritto, al quale è seguita una spiegazione autorevole che ha fatto affermare al presidente dell’International Jewish Committee, Rabbino David Rosen: «Siamo molto grati per le chiarificazioni che abbiamo ricevuto dal Cardinale Kasper reiterate dal Cardinale Bertone nella sua lettera al Rabbino Capo di Israele, che affermavano che questa preghiera ha una natura escatologica e in nessun modo riflette nessuna presa di posizione di proselitismo nei confronti degli Ebrei».
Il Talmud insegna che le spiegazioni e i chiarimenti sono ancor più importanti delle affermazioni del testo: ne rappresentano il completamento e mirano alla loro corretta interpretazione. Queste spiegazioni, e gli atti conseguenti, come le reiterate dichiarazioni del Papa contro l’antisemitismo, di amicizia e di affetto nei confronti degli Ebrei, ci inducono e ci convincono a considerare circoscritta e risolta la discussione, sia pur legittima, seguita alla reintroduzione nella preghiera in latino.
Il dialogo e l’amicizia ebraico-cristiana sono troppo importanti – soprattutto nel contesto di una crisi etica di dimensioni planetarie e di fronte alla minaccia del fondamentalismo di matrice islamica – perché si possa pensare di interromperli o di attenuarli delimitando le modalità e gli interlocutori da prescegliere.
Fin dalla metà dell’Ottocento insigni studiosi e rabbini hanno posto, in condizioni ben più difficili delle attuali, l’obbiettivo del dialogo ebraico-cristiano, nell’intento di superare secoli di persecuzioni, di teologia della sostituzione e di quello che Jules Isaac chiamò “l’insegnamento del disprezzo”. Il grande rabbino livornese Elia Benamozegh scriveva: «La conciliazione sognata dai primi cristiani come una condizione dalla Parusia o avvento finale di Gesù, il ritorno degli ebrei nel grembo della Chiesa … si effettuerà in verità non nel modo in cui si è voluto attenderla, ma nel solo modo serio, logico e durevole, soprattutto nella sola maniera vantaggiosa per la nostra specie. Sarà come lo dipinge l’ultimo dei profeti, il sigillo dei veggenti, come i dottori chiamano Malachia, un ritorno del cuore dei figli ai loro padri e di quello dei padri ai loro figli, vale a dire dell’ebraismo e delle religioni che ne sono derivate».
Noi crediamo che, se crescerà la capacità di ascolto, i figli di Israele e i figli della Chiesa giungeranno dopo duemila anni di incomprensioni a quella riconciliazione nella differenza, la cui importanza e urgenza deve essere riconosciuta da ogni uomo responsabile.
In una recente lettera il Papa Benedetto XVI ha osservato che «un dialogo interreligioso nel senso stretto della parola non è possibile senza mettere tra parentesi la propria fede», mentre è invece necessario «affrontare nel confronto pubblico le conseguenze culturali delle decisioni religiose di fondo» e «qui il dialogo e una mutua correzione e un arricchimento vicendevole sono possibili e necessari». Questo è un approccio che prefigura una forma di dialogo corretto, alieno da confusi sincretismi e tentativi di riappropriazione, e volto a promuovere la dimensione religiosa nella sfera pubblica. Questo obbiettivo è fondamentale per l’ebraismo. Vogliamo ricordare, al riguardo, Isaia quando afferma: «È troppo poco che tu sia mio servo per ristabilire le tribù di Giacobbe e ricondurre i superstiti di Israele. Voglio fare di te la luce delle genti onde tu porti la mia salvezza fino all’estremità della terra» (Isaia, 49,6).
Ebraismo e cristianesimo sono legati da vincoli assolutamente speciali, e questo fatto ha reso ancor più dolorose le vicende dei due millenni passati. È un terreno che rende particolarmente necessario, importante e proficuo il dialogo. Nel 2001 il Cardinale Ratzinger, scriveva ne “Il popolo ebraico e le sue Sacre scritture nella Bibbia cristiana”: «È chiaro che un congedo dei cristiani dall’Antico Testamento non solo avrebbe la conseguenza di dissolvere lo stesso cristianesimo, ma non potrebbe neppure essere utile a un rapporto positivo tra cristiani ed ebrei, perché sarebbe loro sottratto proprio il fondamento comune».
Su questo sentiero ormai largo e agevole, in questo campo dissodato, va proseguito il dialogo, secondo le parole del salmista: «Ecco, come è bello e come è dolce sedere fra fratelli che vivono d’accordo!….Perché il Signore vi ha imposto la benedizione e la vita per sempre» (Salmo, 133, 1-3).

Guido Guastalla
Assessore alla cultura della Comunità ebraica di Livorno

Giorgio Israel
Professore all’Università di Roma “La Sapienza”

sabato 22 novembre 2008

Un articolo per il mensile ebraico Shalom

La copertina di Shalom di Ottobre (“La nuova riforma scolastica e il modello educativo ebraico”) dietro cui vi sono solo giudizi negativi dei provvedimenti del governo in tema di scuola, nonché l’aspro attacco contenuto nel “giornale per i giovani”, potrebbero far credere che il mondo ebraico sia schierato compattamente contro tali provvedimenti in nome di una loro incompatibilità con la visione ebraica dell’educazione. Tutto ciò è privo del minimo fondamento.
«È semplice smontare una scuola che funziona» dichiara Clotilde Pontecorvo, riproponendo il consunto slogan di una scuola primaria italiana tra le migliori del mondo. Lo era, non lo è più. La scuola elementare italiana, di cui i disinformati vantano l’ininterrotta eccellenza da più di mezzo secolo, è in realtà il segmento scolastico più rivoluzionato dal 1985 in poi. Oggi i test parlano di drammatiche carenze matematiche e linguistiche dei nostri adolescenti. È ragionevole pensare che chi avrebbe appreso perfettamente a leggere, scrivere e far di conto nelle primarie diventi improvvisamente un semianalfabeta incapace dei calcoli più elementari per sola colpa delle scuole secondarie? Non è ragionevole. Difatti, i test Ocse favorevoli alle nostre scuole primarie riguardano soltanto l’impiego di risorse, in cui primeggiamo per via delle spese per stipendi (numerosi e miseri), mentre i test che valutano gli apprendimenti (Timss e Pirls) sono molto parziali e indicano comunque un cattivo livello per la matematica e le scienze (sedicesimo posto su 25!).
Le riforme dal 1985 e l’introduzione del maestro plurimo – un’innovazione che è una singolarità tutta italiana, dettata dall’esigenza di assumere precari, ovvero dall’uso deleterio della scuola come ammortizzatore sociale – hanno prodotto una grottesca moltiplicazione delle materie e delle attività, in un appiattimento generale che pone le lezioni di matematica allo stesso livello di quelle di ceramica. Un educatore serio deve prestare attenzione alle proteste dei maestri che sono sommersi dalla miriade di progetti inclusi nei famigerati POF (piani di offerta formativa): mostre, teatro, canti, balli, progetti “voce che canta” o “voce che parla”, interventi psicologici; oltre alla pioggia corsi di aggiornamento per l’autoapprendimento, la sicurezza, la prevenzione incendi, la privacy, e le riunioni per la pianificazione didattica. Come ha scritto di recente una maestra, «è concesso di fare tutto (animatore, ballerino, artista, vigile del fuoco, agente della sicurezza, crocerossina, occultatore dell’ignoranza degli alunni), tutto tranne l’insegnante». E non è certamente un’opinione isolata! In questa sagra caotica le materie basilari vanno a farsi benedire e non stupisce che gli obbiettivi di apprendimento della primaria italiana facciano pietà rispetto a quelli della scuola indiana (in cui le tabelline vengono apprese entro la fine delle scuole materne mentre in Italia soltanto alla fine della terza elementare).
La nuova scuola primaria italiana è la realizzazione di un’ideologia pedagogica i cui capisaldi possono essere così riassunti. La pedagogia non è un’arte bensì una scienza rigorosa ed esatta al pari delle scienze fisico-matematiche e che deve seguire regole codificate (è una visione che deriva dalle concezioni di John Dewey). Quel che conta non è tanto ciò che si apprende quanto il metodo, ovvero l’“apprendere ad apprendere”. Poiché allo studente non vanno trasmesse conoscenze, bensì la capacità di apprendere, l’insegnante deve trasformarsi in “facilitatore” del processo di autoapprendimento. Inutile dire che l’unico che conserva il diritto di “insegnare” in modo trasmissivo (ex-cathedra) è il pedagogista…
Da questa visione discendono varie conseguenze. In primo luogo, la svalutazione delle conoscenze a vantaggio delle “competenze”, in nome dell’impostazione metodologica della scuola. Poco importa quanto gli studenti sappiano. Importa quel che sanno fare. Come se fosse possibile apprendere un metodo senza costruirlo su contenuti. È istruttivo leggere i programmi (o indicazioni nazionali) che sono frutto di queste teorie, le quali hanno dominato incontrastate durante tutti gli ultimi ministeri, da Berlinguer a Moratti a Fioroni. La matematica è vista come una disciplina empirica, e i bambini debbono apprenderla attraverso assurde pratiche di disegni, colori e manualità che deprimono lo sviluppo delle capacità di calcolo mentale. La storia è intesa come lo studio della nozione astratta di «temporalità». Il bambino è sottoposto per anni alla tortura del «riconoscimento delle relazioni di successione e contemporaneità», dei «cicli temporali» (dando per ovvio che la storia si sviluppi per cicli!), delle «permanenze». Gli si propone di «rappresentare» i pochissimi fatti di storia reale appresi «mediante grafismi, racconti orali e disegni» per poi addirittura comporre piccoli testi di storia. La geografia è intesa come lo studio della spazialità, del «sopra, sotto, avanti, dietro, sinistra, destra» (ridicolmente definiti da qualche ignorante «organizzatori topologici»), per arrivare addirittura a «costruire le proprie geografie» (sic!). Come stupirsi se da una simile accozzaglia di idee tanto sgangherate quanto pretenziose escano bambini con insufficienze conoscitive drammatiche? Tutto ciò è conseguenza della scelta deliberata, per dirla con Jean-François Revel, secondo cui «la scuola non deve avere come funzione la trasmissione della conoscenza».
Già quaranta anni fa Hannah Arendt aveva lucidamente previsto i disastri cui avrebbe condotto questa visione pedagogica, da lei definita «un incredibile guazzabuglio di idee sensate e di assurdità». Arendt denunciava l’aver messo «del tutto da parte ogni regola di sano giudizio umano, per amore di certe teorie, buone o cattive che fossero. […] Influenzata dalla psicologia moderna e dai dogmi del pragmatismo la pedagogia si è trasformata in una scienza dell’insegnamento in genere, fino a rendersi del tutto indipendente dalla materia che di fatto s’insegna». E proseguiva osservando che la sostituzione della conoscenza con la pratica e la metodologia era conseguenza di un mediocre pragmatismo secondo cui «si può conoscere e capire soltanto ciò che si è fatto da sé. Applicato all’istruzione ciò significa, in termini primitivi quanto ovvi, che l’imparare viene per quanto possibile sostituito dal fare. Non si dà alcun valore alla padronanza della materia da parte del professore proprio per costringerlo a proseguire nell’attività dell’apprendimento, così da non trasmettere, come si dice, delle “morte nozioni”, bensì essere continuamente teso a mostrare il processo produttivo della conoscenza. L’intenzione consapevole non è d’insegnare una conoscenza ma di inculcare una tecnica».
A ciò corrisponde una visione dell’insegnante che è – per dirla con Arendt – «una persona che può semplicemente insegnare qualsiasi cosa, perché la sua formazione è nell’insegnare, non nel dominio di un qualsiasi materia particolare». Non a caso il processo di formazione degli insegnanti è stato imperniato soprattutto sulle metodologie pedagogico-didattiche. Nel caso dei maestri italiani si sono raggiunti livelli esasperati. Oggi ci si può laureare maestro senza competenze disciplinari specifiche. In certi corsi di laurea le materie sono soltanto di tipo psico-pedadogico-relazionale o di pedagogia “speciale” (che si occupa del sostegno ai disabili) e i corsi di didattica della matematica o della storia (non matematica o storia!) sono opzionali con pediatria o neuropsichiatria infantile… Definire “specializzato” un siffatto maestro è una presa in giro. Oggi la scuola primaria galleggia per l’impegno di maestri anziani o di giovani che coltivano interessi disciplinari a dispetto dei cattivi insegnamenti che hanno ricevuto. Pertanto polemizzare contro il maestro prevalente in nome di un inesistente maestro plurimo “specializzato” è una mistificazione. D’altra parte, è curioso che chi difende l’idea di un insegnante metodologo auspichi la specializzazione disciplinare proprio nelle elementari, laddove meno se ne sente la necessità. In realtà si tratta di una foglia di fico culturale per giustificare le politiche di assunzioni di massa.
È invece molto più sensata la figura di un insegnante prevalente, dotato delle conoscenze basilari atte a introdurre sinteticamente il bambino al mondo simbolico, che è quello delle lettere e dei numeri, non a caso nati insieme seimila anni fa. La scomposizione in termini disciplinari degli aspetti linguistico e matematico proprio nella fase formativa elementare è un errore pedagogico banale.
Dice Pontecorvo che questa è una scuola che integra i disabili ed è accogliente. Purché si dica che ciò accade nell’ottica del più ipocrita politicamente corretto, concependo come “diversità” ogni disabilità (siamo tutti “diversi”, siamo tutti “speciali”) e raccogliendo nella stessa categoria disabili propriamente detti con immigrati, rom e, secondo alcuni, anche ebrei. In tal modo si crede di normalizzare la disabilità riducendo ogni condizione a una forma di disabilità e trasformando la scuola elementare in un immenso deposito di “diversità” in cui il maestro opera come un infermiere-psicologo.
Clotilde Pontecorvo critica inoltre la reintroduzione del voto in decimi osservando giustamente che le valutazioni non sono mai misurazioni quantitative precise. Ma non la racconta giusta quando fa credere che la docimologia spieghi che una misurazione esatta delle competenze è impossibile. Il contrario è vero. È la docimologia che persegue l’obbiettivo impossibile della “misurazione delle qualità” e pretende di introdurre criteri di valutazione “oggettivi” ricorrendo a principi che suscitano l’ilarità di chiunque abbia una preparazione scientifica seria, come la distribuzione gaussiana delle competenze. Al contrario, il voto in decimi mira a esprimere una valutazione comparativa qualitativa in modo più semplice e diretto di giudizi verbali spesso espressi con locuzioni farraginose e vaniloquenti e senza concedere alla pretesa di raggiungere per via docimologica la misurazione “esatta” della competenze.
Infine, Clotilde Pontecorvo accusa il ministro Gelmini di non avere sensibilità per le elaborazioni pedagogiche di tipo educativo e di non avere letto John Dewey, don Milani o il “Poema pedagogico” di Makarenko. È bizzarra l’idea che la lettura di un testo debba produrre automaticamente un atteggiamento consenziente. Sotto questo profilo Hannah Arendt dovrebbe essere considerata peggio del ministro Gelmini, per la disistima che nutriva nei confronti della pedagogia alla Dewey. Non oso immaginare cosa avrebbe detto di don Milani e di Makarenko… Quest’ultimo riferimento è significativo. Soltanto chi non crede che l’educazione sia in primo luogo un rapporto tra persone, e non la gestione di un collettivo, può vedere un riferimento positivo in un pedagogista sovietico che concepiva l’uomo come un mero prodotto sociale e l’educazione in senso collettivistico; che creò e gestì la colonia Dzeržinskij, così denominata per onorare il truce creatore della polizia politica sovietica Ceka, e che ha attraversato intatto tutte le purghe staliniane sull’altare della reputazione di educatore bolscevico per eccellenza.
Cosa abbia a che fare tutto ciò con il modello educativo ebraico riesce difficile comprendere. Se c’è qualcosa che caratterizza la vita ebraica è lo studio e certamente non nel senso dell’autoformazione, bensì dell’acquisizione della conoscenza accumulata su cui ogni persona deve “salire” per poter avanzare. Che cos’è il Talmud se non un immenso e inesauribile deposito di conoscenze che ognuno, nella sua vita, è chiamato a studiare incessantemente e ad acquisire per potere andare oltre? È uno studio basato sulla figura del maestro – maestro di conoscenze e non metodologo puro. Vi è poi la centralità della famiglia, senza cui non è pensabile neppure la vita religiosa ebraica. Una siffatta centralità è incompatibile con una visione che vede l’educazione come un rapporto tra istituzione educante e collettivo educato e annulla il ruolo del singolo e della famiglia. Tra Makarenko-don Milani e la visione educativa ebraica corre un abisso incolmabile. Non è una buona idea schierare l’ebraismo su simili fronti per motivi meramente politici.

giovedì 20 novembre 2008

Lettera aperta a Andrea Camilleri

Esimio Andrea Camilleri,
lei stava per avere su di me un effetto inaudito. Da quando sono nato non riesco a buttar via neanche il più misero opuscolo che rassomigli vagamente a un libro. Ma quando ho letto che lei ha proclamato davanti a una platea di studenti del Liceo Mamiani di Roma che il ministro dell’istruzione Gelmini «di sicuro non è un essere umano» e che «dovremmo chiamare i professori di chimica per capire che cos’è», mi sono diretto verso alcuni suoi libri che ho in casa deciso a gettarli nel cassonetto. Poi mi sono fermato e li ho lasciati al loro posto. Ho anche pensato di rinunciare a vedere lo sceneggiato del Commissario Montalbano, per rappresaglia, ma poi mi son detto: «Perché mai dovrei privarmi di un divertimento? E poi i boicottaggi sono roba da cretini».
Pertanto, sono qui a ringraziarla. La sua manifestazione di violenza ideologica mi ha dato l’occasione di fare un test su me stesso e verificare che sono felicemente vaccinato da questo male.
È quindi con animo leggero e tranquillo che le chiedo: dica la verità, ma lei ne sa un accidente dei problemi dell’istruzione? Ha una pallida idea di che cosa siano il maestro unico, i “moduli”, l’insegnante di sostegno, i debiti formativi, il “sei rosso”, i POF, le SSIS, il 3+2, le lauree magistrali, gli FFO, i CFU? Sa come si formano le commissioni per un concorso universitario e cos’è la doppia idoneità? Ha mai letto i testi delle riforme Berlinguer o Moratti e le “indicazioni nazionali” di Fioroni? Dica la verità, in camera caritatis: lei non ne sa un emerito accidente.
Mi lasci indovinare: qualcuno di cui si fida le ha detto che bisogna combattere una grande battaglia democratica perché c’è una ministra scellerata di un governo reazionario che sta distruggendo la scuola, l’università, la cultura, il futuro dei giovani; insomma compie infamie che potrebbero essere concepite soltanto dalla mente di un alieno, anzi di un alieno fascista. E allora lei è partito canticchiando: «Il bersagliere ha cento penne, e l’alpino ne ha una sola, il partigiano ne ha nessuna, e va per scuole a guerreggiar…». Assieme a lei è partita per le scuole e le università una brigata di volti nuovi della lotta partigiana capeggiata da Dario Fo. Di fronte a quella platea di giovani vocianti, un desiderio irrefrenabile, che i suoi successi letterari non hanno saputo estinguere, l’ha assalito: il desiderio di vivere ancora l’“ebbrezza dell’applauso”. E, per far venire giù l’anfiteatro, cosa di meglio che una battuta al fulmicotone come quella sulla Gelmini che non è un essere umano?
Vede, le si può senz’altro perdonare di non sapere che cosa siano i POF, i CFU e gli FFO. Ma quel che è imperdonabile, soprattutto alla sua età, è di non sapere più che cosa sia l’educazione. Non nel senso delle buone maniere – chiaramente ha perso per strada anche quelle – ma nel senso di “educare”. Altrimenti si sarebbe ricordato com’eravamo da giovani e che un adolescente è una polveriera di vitalità compressa che un adulto responsabile deve contenere e indirizzare, a costo di apparire un vecchio babbione, e non incendiare per il gusto di riuscire simpatico e di darsi di gomito tra “coetanei”. Per quattro applausi e per obbedire alla chiamata alle armi delle Brigate Garibaldi dell’istruzione “democratica”, lei ha scodellato un’indecente lezione di fanatismo e di violenza. Questa sarebbe la scuola “umana” cui vorrebbe fossero educati i giovani? Meglio gli “alieni”, esimio Camilleri. Mentre guardo il Commissario Montalbano in tv, provi a farsi un esame di coscienza, se gliene resta un briciolo.
(Tempi 19 novembre 2008)ndrea

lunedì 17 novembre 2008

Save the date: Ginevra, aprile 2009. Ecco da dove ripartirà l’onda antisemita





Uno tsunami di vignette contro i candidati alla presidenza degli USA si abbatte da mesi sulla stampa araba e in esso domina la componente antisemita. Presentiamo due vignette ai lettori di Tempi. Una è stata pubblicata sull’autorevole settimanale egiziano Al-Ahram Weekly nella seconda settimana di agosto e raffigura il futuro presidente degli Stati Uniti Obama con una testa deforme su cui figura il simbolo di amore per la stella di David. L’altra è stata pubblicata l’11 ottobre sul giornale saudita Al-Watan e raffigura il classico ebreo delle caricature antisemite che manovra come pupazzi i due candidati. Il messaggio è chiaro: chiunque sia eletto è una marionetta dei “giudei”. A ciò va aggiunto un disprezzo assai poco “politicamente corretto”: in una caricatura pubblicata prima che Obama prevalesse su Hillary Clinton un religioso musulmano osservava le foto dei candidati sotto la scritta “un nero e una donna in corsa per la Casa Bianca” e commentava: «Un altro segno del collasso della civiltà occidentale». Può essere istruttivo dare un’occhiata alla raccolta delle vignette sul sito http://www.memri.org/ per rendersi conto di come gran parte del mondo arabo e islamico guardi all’Occidente e della feroce ostilità contro Israele intrisa di un pesante antisemitismo che fa ricorso ai soliti stereotipi degli ebrei dominatori del mondo, agenti di ogni congiura e burattinai degli USA.
Secondo il Presidente della Commissione affari esteri del parlamento egiziano la crisi finanziaria fa parte di un “complotto mondiale” volto a impossessarsi delle ricchezze arabe e che, manco a dirlo, è stato organizzato dagli ebrei americani. È una tesi ripresa da giornali libanesi e che la dott. Umayma Ahmad al-Jalahma, dell’università del Re Feysal dell’Arabia Saudita ha riproposto sul giornale Al-Watan, sostenendo che dietro la crisi c’è… la famiglia Rothschild. La docente ha ripercorso la storia dei complotti di questa famiglia, dalla sconfitta di Napoleone a Waterloo – i Rothschild avrebbero finanziato entrambi i contendenti, ma gli inglesi un po’ di più – ad oggi. In realtà, oltre a Waterloo e alla crisi attuale non fornisce altri esempi. Ma tant’è, non c’è bisogno di sargomenti per convincere che lo scopo degli ebrei era ed è sempre il solito: controllare il mondo.
Nel frattempo, il solito Tariq Ramadan getta la maschera chiamando apertamente alla lotta contro Israele: «Non è questione d’inginocchiarsi per confortare il mendicante dai suoi bisogni e dalle sue lacrime, ma di alzarsi e affrontare politicamente l’oppressore, le sue bugie e le sue armi».
Ancora è viva la memoria della tragica conferenza ONU sul razzismo che si tenne a Durban pochi giorni prima dell’attacco alle Torri Gemelle e che fu un’orrida sagra di razzismo antiebraico. Nell’aprile del 2009 si terrà a Ginevra una nuova conferenza sul razzismo, già denominata Durban 2. Essa promette di essere una replica del disastroso evento di otto anni fa, soprattutto perché tra i suoi principali organizzatori vi sono paesi come l’Iran, la Libia e Cuba. La bozza del documento preparatorio mostra con evidenza quel che si prepara: l’unico paese menzionato come colpevole di razzismo è Israele. Se i paesi democratici e le loro opinioni pubbliche non riusciranno a farsi sentire andremo incontro all’accendersi di un nuovo pericolosissimo focolaio di antisemitismo.
(Tempi, 13 novembre 2008)

domenica 9 novembre 2008

La polemica su Pio XII

Merito, responsabilità, rigore

Finalmente c’è chi comincia a comprendere la coerenza del ministro Gelmini. “Una prova di coraggio” ha scritto il Corriere della Sera a proposito del decreto sull’università: senza arroganza, tenendo aperto il dialogo ma senza rinviare alle calende greche e senza curarsi dei consigli di coloro che, da ogni parte, spingevano per lasciar perdere in attesa di tempi migliori.
Si era detto che la scuola e le università italiane erano state sottoposte a troppi stress per poter tirare loro addosso in pochi mesi nuove riforme globali. E così ha fatto Mariastella Gelmini, iniziando con pochi, ristretti ma significativi provvedimenti riservati alla scuola. Era importante che fosse significativa e chiara la loro direzione. La direzione era quella di un appello promosso prima delle elezioni dal Gruppo di Firenze, sottoscritto da una quindicina di professori universitari e fatto proprio dal ministro: merito, rigore, responsabilità. Tre parole semplici ma piene di significato, se erano bastate a far saltare i nervi ad alcuni sindacalisti e a qualche ex-ministro che erano trascesi all’insulto. Il famoso decreto Gelmini sulla scuola iniziava a percorrere questo cammino su tre questioni circoscritte ma importanti: voto in condotta, voti in pagella e maestro prevalente. Quest’ultima scelta – non ci stancheremo di ripeterlo – rompe con la consuetudine più che trentennale di usare la scuola come ammortizzatore sociale e risponde a una visione pedagogica più che corretta. Apriti cielo. In mancanza di argomenti seri si è messa in piedi una campagna di controinformazione demagogica che ha confuso tutto concentrando l’attenzione sui tagli introdotti dalla legge 133, ovvero dalla pre-finanziaria, che però riguardavano l’università. Ogni tentativo di far capire che sull’università non si era ancora deciso nulla è stato vano.
Siccome nel nostro paese circolano molte qualità meno quella della perseveranza e della determinazione, si è cominciato a invitare insistentemente la Gelmini a tirare i remi in barca e tirare a campare (che poi, contrariamente a quel che fu detto, è la via maestra per tirare le cuoia). Sembrava che un po’ di fracasso in piazza fosse bastato a dissolvere i flebili spiriti thatcheriani circolanti, a far dimenticare che chi conta sono gli elettori e che le decisioni difficili e di indirizzo si prendono a inizio legislatura senza badare a qualche punto di gradimento in meno.
Il decreto sull’università di ieri è stata una risposta esemplare. Pochi punti, ma di significato chiarissimo. I concorsi banditi all’inizio dell’anno con la deroga della doppia idoneità – esempio preclaro dei guasti che produce il consociativismo! – non possono essere bloccati, ma il decreto cambia almeno il meccanismo di formazione delle commissioni introducendo una meccanismo aleatorio che scombina consistentemente i piani e le cordate con cui si decidono a priori i vincitori. Da un lato i tagli previsti dalla finanziaria sono confermati, e ciò costituisce un persistente richiamo al senso di responsabilità delle università che sono chiamate energicamente a fare la loro parte tagliando lauree e corsi inutili e magari anche sedi. D’altra parte s’inizia a dare un senso preciso ai tagli: il blocco del turn over viene ridotto al 50%, a condizione che il ricambio di docenti venga fatto in favore dei giovani e viene stanziato un fondo per borse di studio per gli studenti più meritevoli. Insomma, largo ai giovani, ma non in quanto tali, bensì in quanto giovani meritevoli. Le borse non debbono essere un sostegno di stato per parcheggiare nell’università. Il ricambio dei docenti deve avvenire a favore dei migliori, non per un ringiovanimento fine a se stesso. Infine, i fondi di dotazione delle università non saranno tagliati in modo indiscriminato bensì favorendo quelle più virtuose sul piano finanziario, didattico e scientifico e penalizzando le altre.
In conclusione, il messaggio è lo stesso: merito, rigore, responsabilità. È da augurarsi che venga inteso e che si capisca che, se pure l’esigenza di operare tagli è inderogabile, qui non si sta tagliando a casaccio ma lo si sta facendo con criteri chiari e coerenti. Sarà difficile che la ragione prevalga in chi vuol mantenere in piazza il “movimento”. Si sono sentite alcune reazioni sindacali di soddisfazione perché il governo avrebbe finalmente accettato di dialogare (un modo come un altro per esibire una vittoria) ma che ribadiscono che nel merito tutto è da discutere, a cominciare dal maestro prevalente… Insomma, il gioco delle tre carte: prima si teneva acceso il fuoco sotto la scuola col pretesto dell’università, ora si tenterà di tenere acceso il fuoco sotto l’università parlando di scuola. Il giochetto non dovrebbe avere futuro, visto il diffondersi di valutazioni responsabili da parte di chi ha a cuore l’istruzione e non obbiettivi di conservazione di poteri o privilegi consolidati; a meno che il “movimento” non venga alimentato da moventi che con i problemi dell’istruzione non hanno nulla a che fare, come lascia temere quel che è accaduto a Roma ieri.
È coerente con questi provvedimenti parziali il rinvio a un disegno di legge generale della riforma complessiva del sistema – e ciò vale sia per l’università che per la scuola – in una prospettiva di confronto e di discussione aperta che però – si badi bene – non si configura come il confronto tra governo da un lato e, dall’altro, opposizione, sindacati e rappresentanze di docenti e studenti. Sulle questioni di fondo vi sono divergenze che tagliano trasversalmente questi blocchi. Su come intendere l’autonomia esistono punti di vista molto diversi all’interno dei vari schieramenti. Il problema dei meccanismi concorsuali – tendenza a procedure sempre più localistiche o liste nazionali di idonei al cui interno assumere – è molto complesso e di soluzione non facile. La questione della valutazione è delicatissima e divide chi crede ciecamente in tecniche scientifiche oggettive da coloro che privilegiano il fattore umano e qualitativo nel giudizio. Ancor più delicato è il problema dei contenuti degli insegnamenti: il fronte di coloro che predicano un insegnamento “olistico” – si parla di inventare per la scuola una sorta di supermateria scientifica che le unifichi tutte in un grande frullato al fine di preparare “competenze” utili nelle applicazioni – vede insieme ambienti imprenditoriali molto sensibili alle loro esigenze e poco a quella della formazione culturale e i soliti pedagogisti del pensiero “complesso”.
Si vedrà. Tutto ciò è demandato giustamente a un dibattito più ampio. Quel che conta è l’aver indicato chiaramente, con il metodo pragmatico e costruttivo dei provvedimenti parziali ma incisivi, i binari su cui si deve comunque procedere: merito, responsabilità e rigore.
(Libero, 8 novembre 2008)

giovedì 6 novembre 2008

L'istruzione non serve a "migliorare la qualità del capitale umano"

Ha scritto bene Giorgio Vittadini su Il Riformista che la crisi che attraversiamo «non è solo economica: è una crisi antropologica che mette in discussione un’idea di razionalità umana ridotta, tesa com’è alla massimizzazione del profitto nel breve periodo, ma disattenta ai presupposti necessari a creare una ricchezza reale e duratura e perciò destinata ad astrarsi dalla realtà e a costruire un mondo virtuale destinato a crollare. Per guardare lontano occorre una razionalità che metta in luce come già ora anche l’homo oeconomicus ha altri moventi ben più vasti del solo profitto trimestrale…». Sono considerazioni che vanno nella stessa direzione di quanto abbiamo scritto qui circa la crisi finanziaria. La rappresentazione della razionalità umana in termini di “aspettative razionali” dell’homo oeconomicus è alla radice di una visione dei processi economici estranea all’umanità reale e che ha generato una situazione in cui nessuno riesce più a prevedere cosa accadrà domani.
In questo ordine di questioni le scelte linguistiche sono molto importanti. È pensabile descrivere le finalità autenticamente umane in termini meramente economistici? Anche se certa terminologia è entrata nell’uso sarebbe bene abbandonare cattive abitudini che riflettono visioni unilaterali e restrittive.
Un esempio. Per descrivere la necessità di intervenire sul sistema italiano dell’istruzione il vicedirettore generale di Bankitalia, Ignazio Visco ha osservato: «Per la crescita, la qualità del capitale umano è tanto importante quanto la sua quantità. Le principali indagini sui livelli di apprendimento nelle scuole italiane indicano chiaramente che questa è oggi una priorità per il nostro Paese. Il miglioramento della qualità del capitale umano richiede quindi interventi importanti sulla scuola e sull’università». Ed ha aggiunto che «a un’istruzione di bassa qualità le imprese reagirebbero, in condizioni di informazione imperfetta, con un’offerta generalizzata di bassi salari; questi sarebbero ritenuti insufficienti a compensare il costo di un ritardato ingresso nel mercato del lavoro, riducendo l’investimento in istruzione».
Non mi sogno di contestare ciò che di giusto vi è in queste affermazioni. Vorrei soltanto chiedere cortesemente al vicedirettore Visco se davvero pensa che la questione possa essere vista in questi termini, riproponendo l’approccio dell’informazione perfetta o imperfetta e concependo l’istruzione come un semplice fattore di crescita del capitale umano. Anzi, vorrei chiedere se ha un senso qualsivoglia il termine “capitale umano”. È perfettamente evidente il senso della parola “capitale” nella sfera economica. Al contrario, la “qualità di un capitale” è un ossimoro perché le qualità non si misurano. Una persona intellettualmente capace, uno scienziato valido si caratterizza per l’interesse, la passione per la conoscenza, la spinta a cercare un’idea intelligente a ogni piè sospinto, non per il possesso di un ammasso di conoscenze e di competenze. L’ insegnamento su cui si basa l’istruzione è un rapporto fra persone in cui deve nascere la scintilla dell’interesse e della passione per il conoscere, che non sono fattori economici. In fin dei conti, la crisi del nostro sistema di istruzione si riconduce a una grande crisi educativa e morale: una crisi di questa natura non si pone e non si risolve in termini di “miglioramento della qualità del capitale umano”.
Questioni terminologiche? Le parole non sono neutrali. Anche un economista deve saper uscire dal riduzionismo e ammettere che non tutto si riduce a problemi di ottimizzazione.
(Tempi, 6 novrembre 2008)

martedì 4 novembre 2008

Una risposta sul Foglio a un articolo del Foglio

Su cui vale la pena di leggere una lettera di un insegnante che spiega come si "studia" la matematica alle elementari
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Ho letto con sconcerto l’articolo “Lettera di una maestra unica” a firma di Claudio Cerasa (Il Foglio, 1 novembre) e dall’imbarazzante sottotitolo: “Storia di una combattiva insegnante elementare alle prese con una riforma che ha deciso di non applicare”. Era meglio dire: “che pur di non diventare maestra unica andrà in pensione”. Difatti, la maestra Maria non può “non applicare” una legge dello stato. Il sistema dell’istruzione in Italia va a rotoli anche perché certi insegnanti hanno perso la consapevolezza di essere funzionari pubblici e credono che la scuola sia il salotto di casa loro.
Ma lasciamo perdere. La maestra Maria andrà in pensione, delusa e umiliata perché le hanno tolto la sua bellissima scuola. Le ragioni di questa amara delusione sono descritte mettendo in contrasto la miseria delle motivazioni addotte per giustificare la scelta del maestro unico con il quadro di una scuola impeccabile dipinto con un lirismo da caricatura del Libro Cuore. A fine lettura resta in mano questo messaggio: rozze forbici senza cervello stanno compiendo uno stupro di cultura, entusiasmo, impegno.
È un elogio (senza argomenti) della nobile figura di una vera maestra offesa dalla barbarie. E gli altri? Chi sono quei maestri che scrivono ogni giorno lettere altrettanto dolenti ma di segno esattamente opposto a quello della maestra Maria? Chi sono coloro che dipingono come scuola del disastro quel luogo di tante, troppe attività, «un ridicolo, pietoso luogo di intrattenimento che moltiplica la quantità dell’“offerta formativa” scambiandola per qualità», che «non ha più niente da dire perché non ha più niente in cui credere»? Chi sono quei maestri che denunciano che nella primaria attuale «è concesso di fare tutto (animatore, ballerino, artista, vigile del fuoco, agente della sicurezza, crocerossina, occultatore dell’ignoranza degli alunni), tutto tranne l’insegnante»? Sono beceri insensibili e ignoranti? E i libri che da anni denunciano la distruzione di una delle migliori scuole elementari del mondo chi li ha scritti? Scherani «non all’altezza dei compiti degli insegnanti» al servizio dal perverso intento di «sforbiciare diciannove anni di storia» e «la storia di persone come Maria»?
Non si può invitare alla discussione razionale facendo una caricatura manichea della realtà. Perché alla testimonianza di Maria è fin troppo facile contrapporre una valanga di testimonianze di segno opposto ben altrimenti argomentate e frutto dell’esperienza di persone di indiscutibile “altezza”. Il caso vuole che queste ultime non trovino facilmente spazio. Questa censura è «opera di un’ideologia di sinistra in sfacelo che ormai trova il suo unico rifugio e ragion d’essere nella scuola» (citazione dalla lettera di un insegnante) e che cerca di soffocare ogni discussione ripetendo ossessivamente la litania urlata della “scuola migliore del mondo” in preda alla barbarie degli incolti. Da quando fu introdotto il maestro plurimo tante persone autorevoli hanno argomentato in mille modi l’assurdità di quella scelta – che è peraltro una peculiarità tutta italiana! – e hanno spiegato come fosse dettata da motivazioni banalmente economiche: usare la scuola come ammortizzatore sociale. Persino “Repubblica” allora gridò allo scandalo. Da quando è riesplosa la questione si è scritto e riscritto per spiegare le serie ragioni pedagogiche che giustificano la scelta del maestro prevalente. Si è spiegato come le attuali modalità di formazione producano maestri “nullologi”, non tuttologi e tantomeno specializzati. A tali argomentazioni i dirigenti della sinistra e dei sindacati hanno fatto orecchie da mercante, buttandola in retorica e slogan. Questo squallido coro basta da solo a soffocare ogni possibilità di discussione seria per non doverlo rafforzare con altre voci.
Se si propone di “discutere” su premesse come la “lettera della maestra Maria” – retorica allo stato puro – non ha senso chiedere al ministro Gelmini di aprirsi alla discussione e di presentarsi agli “stati generali” della scuola per farsi capire e trovare un terreno di mediazione. Tanto per cominciare nella scuola non possono e non debbono esistere stati generali e sale della pallacorda in cui primo, secondo, terzo o quarto stato decidano “democraticamente” come gestirla. La scuola non è un luogo di democrazia, altrimenti è morta. La cultura e le forme dell’insegnamento non possono essere risultato di mediazione tra soggetti – insegnanti, famiglie e alunni – che sono necessariamente collocati in posizioni non paritarie. Tantomeno può essere gestita in consociazione col sindacato. Sono anni che si dice: alla larga dalla concertazione e dalla consociazione. Vogliamo riesumarle proprio per la scuola?
Certo, il ministro Gelmini deve ascoltare, consultare, discutere quanto più possibile. L’ha fatto molto più di quanto non si dica. Potrebbe farlo ancora di più sempre che non si faccia finta di non sentire. Ma discutere, ascoltare, consultare ha senso se poi si decide in autonomia. Forse non è abbastanza chiaro che se una “riformetta” come questa ha destato tanto scandalo non è certamente per i suoi limitati contenuti. È perché il ministro Gelmini ha fatto qualcosa di imperdonabile: ovvero, dopo aver ascoltato e riflettuto per qualche mese, ha preso una decisione senza chiedere il permesso (meglio se a mani giunte e in ginocchio) a coloro che si ritengono unici proprietari della scuola, in primo luogo i sindacati. Forse chi sta fuori dal mondo dell’istruzione non se ne rende conto, ma chi protesta non sono “gli” studenti, “i” professori, “le” famiglie. Sarebbe un grave errore sottovalutare – anche se si sentono urla da una parte sola – il numero crescente di coloro che non ne possono più di quei prepotenti proprietari e delle foglie di fico culturali con cui si tentano di coprire i disastri combinati dall’ideologia dell’autoapprendimento e della scuola come progettificio.
(4 novembre 2008)

Un ottimo articolo di Luca Ricolfi

Il mito della scuola elementare

Ci sono, nelle politiche governative in materia di istruzione, parecchie cose che mi lasciano perplesso. Ad esempio la mancanza di una diagnosi convincente dei mali della nostra scuola e della nostra università. Il vuoto di iniziative forti per aumentare il numero di asili nido, specialmente nel Mezzogiorno (uno dei cosiddetti obiettivi di Lisbona: portare la copertura al 33% entro il 2010, contro l’11% attuale). Soprattutto non mi piace per niente il fatto che all’Università (dove lavoro) i tagli della manovra finanziaria 2009-2011 siano uguali per tutti gli Atenei, quando da anni - grazie ad una serie di ottime ricerche - si sa con precisione quali sono gli atenei che spendono (relativamente) bene i loro fondi e quali li dilapidano in una corsa senza senso all’aumento del personale e agli avanzamenti di carriera.
E tuttavia, nonostante queste riserve, stento a capire l’incredibile pioggia di critiche, insulti, manifestazioni, sceneggiate, lezioni di pedagogia (e talora di democrazia) che sono state riversate sul neo-ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini non appena ha cominciato a occuparsi di scuola, e in particolare di quella elementare (per una rassegna consiglio di vistare il sito del Partito democratico e quello della Cgil-scuola, ora ridenominata Flc).
Il mio stupore nasce da due ragioni distinte. La prima è che, andando a controllare le cifre (DL 112, art. 64, comma 6), si scopre che la maggior parte dei numeri spaventa-famiglie che sono stati agitati sono semplicemente falsi. Non è vero che il bilancio della scuola subirà tagli per 8 miliardi: il taglio del prossimo anno sarà inferiore a 0,5 miliardi (1% del budget), i tagli netti previsti per il triennio 2009-2011 sono pari a 3,6 miliardi spalmati su tre anni. Non è vero che saranno licenziati 87 mila insegnanti: la riduzione del numero di cattedre avverrà limitando le nuove assunzioni, la cifra di 87 mila insegnati in meno si raggiungerà nel 2012 e include nel calcolo le riduzioni già pianificate da Prodi (circa 20 mila unità, a suo tempo giudicate insufficienti nel Quaderno bianco sulla scuola pubblicato giusto un anno fa dal precedente governo). Non è vero che, nelle scuole elementari, sparirà il tempo pieno e tutti i bambini dovranno tornare a casa alle 12,30: l’introduzione del maestro unico, con conseguente soppressione delle ore di compresenza, libererà un numero di ore più che sufficiente ad aumentare le ore di tempo pieno eventualmente richieste dalle famiglie. Né si vede su quali basi l’opposizione agiti lo spettro di una riduzione degli insegnanti di sostegno, o della chiusura delle scuole di montagna (nessuna norma della Finanziaria lo prevede, e il ministro ha esplicitamente escluso tale eventualità).
Ma c’è un secondo motivo per cui mi è incomprensibile lo tsunami anti-Gelmini di queste settimane: i critici danno per scontato che la scuola elementare così com’è vada bene, e che l’introduzione del maestro unico sia una scelta didatticamente sbagliata. Può darsi, ma non ne sarei così sicuro, e vorrei spiegare perché. Se la scuola elementare italiana fosse così ben congegnata come ripetono i suoi paladini, forse non osserveremmo quotidianamente quel che invece osserviamo. E cioè che sia nelle scuole medie sia (incredibilmente) all’università tantissimi ragazzi, oltre a fare errori di grammatica e ortografia con cui un tempo nessuno avrebbe preso la licenza elementare, non sanno organizzare un discorso né a voce né per iscritto, non sono in grado di progettare una tesi o una tesina, non conoscono il significato esatto delle parole, fanno sistematicamente errori logici, non sanno spiegare un concetto né costruire un’argomentazione, insomma non capiscono e non riescono a farsi capire se non in situazioni ultra-semplici (in una parola sono «ignoranti», secondo la bella definizione del libro di Floris uscito in questi giorni: La fabbrica degli ignoranti, Rizzoli). In breve i ragazzi spesso sono debolissimi proprio nell’organizzazione del pensiero e nella padronanza del linguaggio, ossia precisamente in ciò che avrebbero dovuto acquisire nei cinque anni di scuola elementare. Il sospetto è che la scuola elementare di oggi, pur essendo perfetta come luogo di socializzazione e di ricreazione, sia ben poco capace di trasmettere conoscenze e formare capacità, ivi compresa la capacità di concentrarsi, di ordinare le idee, di autovalutarsi, di mettere impegno in attività non immediatamente gratificanti.
A questa osservazione si potrebbe obiettare, e certamente qualcuno obietterà, che sia i test nazionali (Invalsi) sia i test internazionali (Pirls, Timss, Pisa) ci restituiscono un’immagine ben più ottimistica della scuola elementare italiana. Ma questo è vero solo in parte. I test internazionali condotti sui bambini in quarta elementare danno risultati opposti a seconda degli ambiti considerati (l’Italia è ai primi posti nei test di lettura, ma precipita agli ultimi sia in quelli di matematica sia in quelli di scienze). Quanto ai test nazionali essi indicano che il declino dei livelli di apprendimento fra i 7 e i 16 anni è costante e inizia già nelle elementari (in quarta i bambini vanno sensibilmente peggio che in seconda). Forse la cattiva fama della scuola media inferiore e dei suoi insegnanti è in parte immeritata: è vero, i risultati dei ragazzi delle medie sono pessimi, ma forse lo sono proprio perché la scuola elementare - con la sua impostazione ludica - non li prepara alle prove che dovranno affrontare quando entreranno in un mondo vero, meno protetto, in cui ci sono anche frustrazioni e si deve essere capaci di studiare da soli (cosa che molti bambini non imparano mai a fare: un effetto perverso del tempo pieno?).

Conclusione? Nessuna, solo una preghiera: anziché fare dello spirito sul grembiulino e del terrorismo sul tempo pieno, proviamo a riflettere seriamente - ossia senza preconcetti ideologici - sui vizi e le virtù della nostra scuola elementare.