mercoledì 29 aprile 2009

40•10 alla 19esima potenza di bytes di informazioni e non sapere cosa farsene

Un’“autorità” accademica ha segnalato in giro un video dal titolo “Did you Know 3.0” (http://www.youtube.com/watch?v=jpEnFwiqdx8), presentato come utile a «pensare la knowledge society».
Il succo del video è che viviamo in “tempi esponenziali” e governati dalla comunicazione. Si spiega che stiamo preparando studenti per lavori e per usare tecnologie che non esistono ancora e per risolvere problemi che ancora non sappiamo che siano tali. Si racconta che un ottavo delle coppie sposate negli USA negli ultimi anni si è conosciuto in rete: bisogna vedere come va a finire. Il primo paese al mondo per Internet a banda larga è Bermuda, mentre gli USA sono soltanto al 19esimo posto e il Giappone al 22esimo: quindi Bermuda è al vertice della knowledge society? Il numero di anni necessari perché un messaggio pubblicitario raggiunga 50 milioni di persone è 38 per la radio, 13 per la TV, 4 per Internet e 2 soltanto per Facebook. Le comunicazioni telefoniche triplicano ogni sei mesi e il numero di apparati Internet da 1000 nel 1984 è passato a un miliardo nel 2008.
Ma la parte più interessante riguarda il modo tutto quantitativo con cui si tratta la “conoscenza”. Secondo il filmato il 25% della popolazione indiana ha il massimo di IQ (quoziente intellettivo), più della popolazione degli USA. Si da per scontato che chi ha un alto IQ sia “intelligente”, mentre sappiamo che questo parametro di valutazione è a dir poco discusso. Nel 2006 venivano fatte 2,6 miliardi di ricerche al mese su Google, oggi ne vengono fatte 31 miliardi al mese. A chi venivano rivolte queste domande? si chiede il filmato. Forse non bisognerebbe fare tante domande, soprattutto sarebbe bene astenersi dal fare domande inutili o cretine. Informa ancora il video che una settimana del New York Times offre più informazione di quanta ne poteva accumulare un uomo dell’Ottocento in tutta la vita. Inoltre quest’anno sono state generati 40·1019 bytes di informazione, più di tutti i 5000 anni precedenti. Ma è proprio sicuro che una dose così massiccia di notizie serva davvero a trovare risposta a qualche domanda sensata? Infine, pare che la lingua inglese contenga oggi circa 540.000 parole, più di cinque volte di quante ne avesse all’epoca di Shakespeare.
Nonostante tale ricchezza di vocabolario, di Shakespeare oggi se ne vedono pochi in giro e la gente continua ostinatamente a leggere quello “povero”. Anche il numero di parole dell’ebraico biblico è disperatamente modesto. Eppure la Bibbia continua ad essere il libro più letto al mondo. Quando morì il celebre filosofo Spinoza in casa gli trovarono meno di trecento volumi. Eppure i più accaniti paladini della postmodernità tecnoscientifica – per esempio, il neuroscienziato Jean-Pierre Changeux – non trovano di meglio che rifarsi all’autorità di Spinoza.
Il filmato termina saggiamente lasciando aperta la domanda: «Cosa significa tutto questo?». A me pare che significhi che la crescita quantitativa è utilissima ma l’informazione non è conoscenza. Non basteranno un trilione di terabytes a unificare meccanica quantistica e relatività o a decidere se la teoria delle stringhe funzioni. Sarebbe auspicabile saper gestire il flusso crescente di informazione senza dimenticare i grandi problemi della conoscenza che ci stanno aperti di fronte.
L’“autorità” accademica consiglia il video a “conservatori” e “laudatores tempore acti”. Per parte mia, vivo contento nell’innovazione tecnologica che ritengo di saper usare meglio di molti lodatori del presente. Oltretutto riesco ancora a scrivere correttamente “laudatores temporis acti” senza bisogno di ricerche su Google.
(Tempi, 30 aprile 2009)

martedì 14 aprile 2009

La scienza non è onniscienza, tantomeno onnipotenza

Sono lontani i tempi in cui la teoria del valore-lavoro di Marx veniva ostinatamente difesa anche di fronte all’evidenza delle sue inconsistenze teoriche. Naturalmente c’è chi si occupa ancora di questa tematica, tuttavia senza l’accanimento di qualche decennio fa quando era d’obbligo una difesa a tutti i costi. Ricordo un dibattito in cui un Lucio Colletti ancora marxista ricorse a una spericolata acrobazia dialettica sostenendo che, a ben vedere, dire che A = B non è la stessa cosa che dire che B = A… Oggi possiamo sorridere di questi atti di fede a condizione di non essere indulgenti nei confronti di analoghi atti di fede come la cieca credenza secondo cui il mercato possiede la virtù salvifica di autoregolarsi, da cui la prescrizione assoluta di liberarlo da ogni intralcio e intervento esterno. È un’antica convinzione che risale almeno alla celebre metafora della “mano invisibile” di Adam Smith e che, da Walras e Pareto alla scuola dei Chicago boys di Milton Friedman, ispira ancora quella che è considerata la corrente principale (neoclassica, talora detta “mainstream”) della teoria economica.
Occorrerebbe distinguere. Quando si predica la necessità di lasciar libero il mercato sulla base dell’idea che ogni intervento dirigista è pericoloso in quanto contrasta con i principi della democrazia liberale e quindi può aprire la strada all’autoritarismo, ci si muove sul terreno della teoria politica e sociale. In altri termini, non si afferma in modo stringente che il mercato abbia quella virtù salvifica ma si ritiene che lasciarlo libero è auspicabile perché costituisce la migliore garanzia di preservare le libertà. Un altro approccio del tutto ragionevole e fondato è asserire, sul piano dell’analisi storica che, da quando esiste il sistema capitalistico, nessuno è stato capace di proporre un sistema migliore. Ben altro discorso è scendere sul terreno della teoria economica e asserire l’intrinseca perfezione del sistema capitalistico, in quanto il mercato sarebbe davvero capace, se lasciato completamente a se stesso, di condurre l’economia in uno stato di equilibrio. Qui si entra nel campo della mitologia e delle affermazioni fideistiche che fanno a gara con l’atto di fede nella teoria marxiana del valore-lavoro. È estremamente irritante il tono saccente da vestali della “scienza” economica con cui certi economisti fustigano ogni minimo dubbio nei confronti dei dogmi del punto di vista neoclassico. Può darsi che gli interventi statali per tamponare la crisi siano sbagliati ma bacchettare un prudente pragmatismo – per esempio quello del ministro Tremonti che afferma la necessità di procedere con realismo valutando i fatti man mano che si presentano – in quanto violerebbe i principi razionalmente e scientificamente assisi della teoria economica, è semplicemente insopportabile.
Chi e quando ha mai dimostrato che il mercato è omeostatico e sa porsi da solo in equilibrio? Nessuno. Al contrario, ogni tentativo di elaborare teorie e modelli matematici capaci di fornire questo risultato è fallito miseramente, pervenendo a dimostrare l’opposto: il mercato – almeno quello rappresentato nei modelli formali – non è quasi mai globalmente stabile, non è quasi mai capace di porsi in equilibrio e – paradosso supremo per una teoria che si vuole liberista – l’unico modo di conseguire l’equilibrio sarebbe quello di imporlo per decreto, per via di pianificazione. Ma anche questo non significa gran che, perché i modelli sono troppo distanti dalla realtà e qualsiasi cosa dicano è troppo astratta per avere valore fattuale. Il disastro è tale che la teoria della stabilità globale – quella che dovrebbe dimostrare che il mercato si porta da solo in equilibrio – è stata pudicamente censurata nella letteratura economica più recente. Ma non va meglio con teorie più moderne, come la teoria dei giochi che – come ha ammesso uno dei suoi massimi esperti, il Nobel Robert Aumann – ha un rapporto “poco confortante” con la realtà. Lo stesso Aumann, intervistato nel corso di un suo recente viaggio in Italia, alla richiesta di commentare la crisi economica e prevederne gli sviluppi, ha ammesso onestamente di non poter dire nulla di più di quanto direbbe un qualsiasi uomo della strada.
D’altra parte, l’osservazione empirica della realtà non è più confortante: dov’è la realtà del mercato come sistema omeostatico? Scapperebbe da ridere se non fosse una faccenda assai seria. Il re è nudo, ma c’è chi resiste a tutti i costi per non dover ammettere che la teoria economica deve fronteggiare la dura constatazione che fare una “scienza oggettiva” dei comportamenti soggettivi è una “mission impossible”. Difatti, il vero problema è sempre quello: come descrivere oggettivamente il comportamento di un soggetto? La teoria neoclassica, dalle origini al “mainstream”, definisce un comportamento razionale come quello in cui il soggetto agisce soltanto per il suo personale tornaconto (è “infinitamente egoista”) e ha una conoscenza perfetta del mercato (“infinitamente preveggente”). Come disse ironicamente Henri Poincaré, la prima ipotesi è accettabile, la seconda assai meno. Ma l’introduzione della conoscenza imperfetta non fa che complicare le cose e rende ancor più ingestibili i modelli. Un modo di cavarsela è stato quello di riproporre la stessa minestra però in salsa normativa, e questo ha molto a che fare con la crisi economico-finanziaria attuale. Si tratta della teoria delle cosiddette “aspettative razionali”. Le “aspettative” sono le attese dei soggetti economici di fronte a eventi che possono influire sulle loro decisioni. Tanto per cambiare, esse sono dette “razionali” quando i soggetti conoscono perfettamente il funzionamento del sistema economico e sanno utilizzare al meglio questa conoscenza. L’assioma chiave è che il comportamento “razionale” dei soggetti indirizzerebbe l’economia proprio verso gli eventi che essi “razionalmente” si aspettano. Ed ecco che l’immagine di un’economia che si evolve in modo determinato e prevedibile verso uno stato ottimale auspicato viene riesumata. Come dicevamo, la minestra è la stessa: è il vecchio modello dell’Homo oeconomicus o, per dirla con Aumann, dell’Homo rationalis, «specie mitica del genere dell’unicorno o della sirena», ben diverso dal suo cugino Homo sapiens «spesso guidato da motivazioni totalmente irrazionali». Tuttavia, in salsa normativa, la pietanza sembra più digeribile, in quanto non si dice “questa è la realtà” bensì “così dovrebbe essere”: comportatevi razionalmente e la realtà sarà razionale; agite come macchine razionali e l’economia funzionerà come un sistema equilibrato e perfettamente prevedibile.
Questa idea è l’asse portante del modello matematico di Black-Scholes-Merton (introdotto negli anni settanta dagli economisti matematici Fisher Black e Myron Scholes e rielaborato dall’ingegnere elettronico Robert Merton), che vuol descrivere l’andamento nel tempo di prodotti finanziari (come un portafoglio di azioni, obbligazioni e valute) e di opzioni definite su di essi. Le ipotesi del modello sono semplici: il rendimento del portafoglio è pari a un tasso d’interesse costante privo di rischio, i prezzi seguono un andamento del tipo “moto browniano”, le attività finanziarie sono tutte perfettamente divisibili e anche il tempo è continuo, in altri termini le attività si spalmano nel tempo per frazioni arbitrariamente piccole di prodotti finanziari. Si tratta di ipotesi irrealistiche che sono state accettate in quanto le si è ritenute capaci di realizzare un mercato finanziario prevedibile. E qui è nato il guaio, perché, a differenza dei modelli iperastratti dell’equilibrio generale, il modello di Black-Scholes-Merton è applicabile ed è stato applicato, eccome: si è dato a credere che bastasse farlo girare nei computer per realizzare il miracolo di un’economia “razionale”, e mezzo mondo finanziario ci ha creduto.
Il crack della finanziaria Long Term Capital Management nel 1998 (3,5 miliardi di dollari di buco) avrebbe dovuto mettere sull’avviso che il mondo è fatto da uomini che non sono “razionali” in quel senso cui la teoria economica si è ostinatamente impiccata. Niente da fare. Il resto è storia di oggi: l’Homo sapiens si è imposto sull’Homo rationalis e si è avuta la manifestazione più clamorosa dell’incapacità di prevedere i processi economici.
Se davvero dominasse un atteggiamento “scientifico” – nel senso comune di un pensiero aperto e scevro da pregiudizi – bisognerebbe fronteggiare con umiltà questo crollo delle certezze. Invece, tocca pure sentir riproporre la lezioncina sui principi di “razionalità” che dovrebbero governare le scelte economiche “scientifiche” con la prosopopea di chi è reduce da Austerlitz anziché da Waterloo. Il rischio è che, passata la tempesta, si ricominci daccapo a razzolare secondo i principi dell’Homo rationalis.
In fondo questa vicenda serve a illuminare meglio uno degli aspetti caratteristici dello scientismo di oggi e che emerge in altri contesti come quello delle scienze biologiche, in breve in tutti i contesti in cui intervengono fenomeni vitali o soggettivi che determinano condizioni enormemente più complesse dei fenomeni del mondo inanimato. L’osservazione che spesso si sente fare è la seguente: se, come si dice e talora si lamenta, queste scienze hanno una così grande capacità di intervento e riescono a influire in modo così significativo sui processi biologici e sociali, vuol dire che esse si avvalgono di conoscenze acquisite di grande valore. E allora perché mai occorrerebbe arrestare o controllare un’attività che accresce la conoscenza? Non sarebbe questa una forma di oscurantismo nemico della scienza e della ragione?
Ebbene, la risposta è che le cose non stanno affatto in questi termini. L’accrescimento della capacità di intervento non corrisponde in generale affatto a una crescita di conoscenza. Anzi, in certi casi accade persino il contrario. La teoria economica ne è l’esempio più clamoroso. Sono lontani i tempi in cui Vilfredo Pareto – che finì col rendersi conto delle illusioni razionalistiche della teoria dell’equilibrio economico – prendeva in giro Walras osservando che nessuna nazione si era arresa all’evidenza delle sue dimostrazioni matematiche. Mezzo mondo finanziario si è adeguato al modello di Black-Merton-Scholes e ancor oggi pochi hanno il coraggio di dire ad alta voce che esso andrebbe gettato al cestino e il Nobel ritirato ai suoi autori. L’impatto pratico dell’ideologia della “razionalità”, distillata in varie ricette tutte derivanti dalla stessa matrice, è stato ed è enorme. Tuttavia, il fondamento teorico “scientifico” delle teorie connesse è inconsistente e, corrispondentemente, i risultati sul piano predittivo e applicativo sono men che mediocri. Insomma, una pseudoscienza onnipresente e onnipervasiva quanto inefficace e priva di fondamento. La realtà si incarica di dimostrarlo: l’unico modo efficace di affrontare la crisi è pragmatico.
Non ci sogneremmo di emettere giudizi tanto severi nel caso della genetica o delle neuroscienze che sono basate su solidi fondamenti fattuali e sperimentali. Ma anche qui nasce un grave problema di previsione. È da tempo che la stessa fisica ha dovuto abbandonare l’idea della previsione perfetta. Ancora negli anni cinquanta John von Neumann, nel fondare i principi di una meteorologia scientifica, poteva sostenere che l’uso di adeguati modelli matematici, la capacità di risolverli numericamente con il calcolatore mediante approssimazioni sempre più spinte, congiunta a un sistema capillare di rilevazione dei dati, avrebbe condotto a previsioni sempre più precise ed estese nel tempo, fino al punto di poter persino controllare il clima. Oggi noi sappiamo quanto questa fosse un’illusione. E, se non bastassero le conoscenze teoriche sulle proprietà dei modelli usati a farci capire che esistono ostacoli di principio a un illimitato perfezionamento delle previsioni, è sufficiente la constatazione dei fatti. Giorni fa un giornalista scientifico, di fronte al caos di opinioni contrastanti concernenti l’effetto serra, lanciava un appello accorato: «scienziati, mettetevi attorno a un tavolo e risolvete il problema». Santa ingenuità. Non c’è tavolo che possa oggigiorno risolvere un simile problema, semplicemente perché non esiste una base teorica adeguata ad affrontarlo. E se le cose stanno così in meteorologia chi può seriamente pensare che sia possibile prevedere gli effetti a medio e lungo periodo di manipolazioni genetiche condotte in modo massiccio ed esteso? Gli interventi che vengono fatti possono anche essere perfettamente determinati in relazione all’effetto “locale” ma per il resto si muovono al buio. Difatti, si interviene per lo più per prevenire un effetto (una malattia) di cui si conosce soltanto molto vagamente il grado di probabilità di svilupparsi; e non si ha alcuna idea delle implicazioni che avranno interventi estesi di modificazione genetica sulla popolazione. Pertanto, anche qui ci troviamo di fronte a una scienza che ha certamente la capacità di intervenire massicciamente sulla realtà e che tuttavia si muove entro un panorama conoscitivo molto ristretto.
Questa situazione di insufficienza teorica è ancor più evidente nel caso delle neuroscienze. Siamo informati quotidianamente delle “scoperte” circa i processi cerebrali che sarebbero alla base dei processi mentali. Qui il discorso sarebbe molto lungo e meriterebbe una trattazione a parte. Ci limitiamo ad osservare che nessuno può seriamente contestare che mentre si pensa qualcosa accade sempre nel cervello. Ma se si pretende di ricostruire il nesso causale che conduce da un processo cerebrale a un pensiero, non basta individuare l’“accensione” di qualche area neuronale in relazione a un certo tipo di attività mentale, altrimenti ci si limita alla descrizione vaga di una generica correlazione. Per fornire una descrizione scientifica propriamente detta che dimostri il legame di causa-effetto tra attività cerebrale e mentale occorrerebbe descrivere in modo preciso e dettagliato come un processo neuronale produca quel determinato pensiero e non in modo meramente formale bensì mostrando come i neuroni ne generino il significato. Un simile obbiettivo è immensamente più ambizioso di una previsione esatta degli eventi atmosferici sul medio periodo ed è quindi fuori della portata di qualsiasi forma di analisi scientifica conosciuta. Chi lo dichiari praticabile non è una persona seria.
Ammettere che la conoscenza scientifica ha dei limiti non significa essere nemici della scienza. Al contrario. Rende un pessimo servizio alla scienza chi la confonde con l’onniscienza. E rende un pessimo servizio alla società chi su tale inesistente onniscienza vuole fondare i diritti di un’onnipotenza.
(Il Foglio, 8 aprile 2009)

sabato 11 aprile 2009

UN INCHINO DISGUSTOSO E INQUIETANTE

C'è voluta quasi una settimana perché si parlasse dell'inchino del Presidente statunitense Barack Hussein Obama di fronte al re Abdullah dell'Arabia Saudita.
La Casa Bianca prima ha occultato la faccenda, complice gran parte della stampa allineata, poi di fronte alle contestazioni, invece di ammettere l'errore ha cominciato ad arrampicarsi sugli specchi e a mentire, dicendo che non si trattava di un inchino, che Obama è molto più alto di re Abdullah e quindi ha dovuto piegarsi e, siccome voleva stringergli la mano con le sue due mani è venuto naturale piegarsi in avanti.
Basta guardare questa squallida foto per rendersi conto che non è così:



Basta guardare il video per confermare che non è così: http://www.youtube.com/watch?v=LEUif1--r38&NR=1
Oppure quest'altro video: http://www.youtube.com/watch?v=9WlqW6UCeaY&feature=related

E questa foto dimostra che la stretta di mano è avvenuta con una mano soltanto:



E tanto per confermare l'entità della menzogna e la gravità di quanto è accaduto basta guardare il video dell'incontro con la regina Elisabetta:
http://www.youtube.com/watch?v=BYLuLEfVNow&NR=1

Nessun inchino... Eppure la regina è molto più bassa di re Abdullah!

Tante bugie e imbarazzi indicano quanto si è consapevoli della gravità della cosa.
Il presidente della più grande democrazia laica del mondo che piega il ginocchio di fronte a un re teocrata come un vassallo medioevale...
Non l'avrebbe fatto neppure di fronte al Papa. Se l'avesse fatto di fronte a un rabbino si sarebbe detto che gli USA sono in mano alla lobby ebraica.
Oltretutto il Papa o un rabbino sono autorità religiose e non re.
Ma proprio qui sta il punto di cui pochi parlano.
Il re Abdullah non è soltanto un re capo di stato. Egli si considera una sorta di Principe dei Credenti dell'Islam. Non a caso egli è il Custode delle Due Sante Moschee, Mecca e Medina. Nel suo paese non vige alcuna costituzione perché la legge è rappresentata dal Corano e dalla Sharia.
Ecco davanti a chi si è inchinato Obama.
Ora la questione aperta è questa: gli USA hanno eletto come presidente un irresponsabile consigliato da irresponsabili, oppure quando a Obama, durante la campagna elettorale, scappò di dire "la mia religione" alludendo all'islam, non si trattava di un errore ma della verità scappata di bocca? Ovvero Obama è un musulmano dissimulato e si inchinato di fronte al suo re? È quel che sostiene un giornale saudita, mostrando vivo apprezzamento per l'omaggio reso dal presidente americano al suo re, sua maestà il Principe dei Credenti.
Inutile dire che un presidente degli USA può benissimo essere musulmano, a patto che lo dica. In tal caso non avrebbe avuto bisogno di inchinarsi, per il semplice motivo che non avrebbe potuto, pena violare il giuramento di fedeltà al suo paese. Oppure torniamo alla prima ipotesi: trattasi di un irresponsabile che sta umiliando l'occidente, le sue conquiste democratiche, i diritti della persona, i diritti delle donne, la laicità dello stato prostrandosi di fronte a un teocrata illiberale.
Naturalmente nessuno dimentica la passeggiata di Bush mano nella mano con Abdullah. Disgustoso. Una questione di amori tra compari d'affari. Quantomeno però non si era inchinato, e questo fa una gran differenza.

giovedì 9 aprile 2009

Poveri scolari inglesi, li aspetta un futuro da mentecatti professionisti di Facebook

Il commento più appropriato è quello di chi ha ricordato che “la madre dei cretini è sempre incinta”. Soltanto che qui il pargolo pretende di diventare padre e di figlioli cretini potrebbe averne a milioni: tutti i giovani sudditi di Sua Maestà britannica. Il pargolo-padre è Sir Jim Rose, ex direttore dell’Office for Standards in Education – l’ex capo degli ispettori – che è stato incaricato di elaborare una riforma della scuola elementare che renda più flessibile l’insegnamento e riduca orari e materie, attualmente 13. È qualcosa di cui si parla molto anche da noi, sotto l’orrido nome di “essenzializzazione”. Il Sir ha “essenzializzato” le scuole elementari inglesi in sei materie: le prime quattro sono inglese, matematica, scienza e tecnologia, arte, e fin qui nulla di strano; poi viene “comprensione dell’ambiente, della società e dell’uomo” (“brevi cenni dell’universo”, avrebbe detto Giovanni Gentile), e poi “linguaggi e comunicazione”. Storia e geografia sono espulse a pedate, concedendo al più che venga fornita una panoramica generale al livello minimo, che consenta di «posizionare cronologicamente gli eventi» (quali?) e, al più, di approfondire due vicende della storia britannica a scelta dell’insegnante.
Il bello viene con “linguaggi e comunicazione”. Di cosa si tratti lo spiega il Sir: «I bambini lasceranno la scuola elementare ormai familiari col blogging, coi podcasts, con Wikipedia e Twitter intesi come fonti di informazione e forme di comunicazione. Dovranno risultare fluenti nella scrittura a mano come in quella a tastiera, e imparare la grammatica mentre imparano anche a usare un correttore grammaticale».
Insomma, riscriveranno Shakespeare in versione Bill Gates, individuando col correttore Microsoft i troppi errori grammaticali di quell’autore. Ricaveranno notizie attendibilissime da Wikipedia, per esempio che Benedetto XVI ha nuovamente condannato Galileo. Inflazioneranno il mestiere di dattilografo. Saranno maestri di podcast, Facebook e costruzione di blog, e navigheranno in Internet da mane a sera (cosa difficilissima, come ben si sa). Se andrà in porto un simile folle progetto la Gran Bretagna sarà popolata da legioni di piccoli mentecatti. E per l’associazione dei pedofili di Sua Maestà sarà una pacchia.
Mi limito a tre osservazioni.
Quando si straparla senza riflettere di riduzione di materie e orari occorrerebbe specificare a cosa ci si riferisce. Difatti, la tendenza attuale è deprecare l’eccesso di materie e volerle ridurre. Ma, guarda caso, sotto la mannaia cadono soltanto le discipline tradizionali come storia e geografia. Si moltiplicano invece le pseudomaterie sotto forma di “attività”: ceramica, danza, cucina, coro, ecc. Ora dall’Inghilterra s’avanzano altre strane materie come bloggologia pura e applicata e correzione grammaticale automatica.
È pura ipocrisia parlare di emergenza educativa – e deprecare il bullismo, che in Inghilterra dilaga – e poi educare i bambini a un simile “sistema di valori”. Cosa può uscirne fuori? Automi idioti che non sanno dove, quando e perché vivono e uccideranno la madre a tastierate se disturba il chat.
Infine, è allucinante che il Sir sia stato il capo degli ispettori di un paese rispettabile. Forse sarebbe ora di farla finita con la moda di affidare il sistema dell’istruzione ai cosiddetti “esperti scolastici”, tecnocrati tanto ignoranti e incolti quanto presuntuosi, come quell’ispettore francese di cui parlammo tempo fa, che incitava alla «lotta militante» per distruggere il sistema disciplinare. È giunto il momento di mettere alla porta questi signori allo stesso modo con cui furono scacciati i mercanti dal tempio.
(Tempi, 9 aprile 2009)

mercoledì 8 aprile 2009

Buona Pasqua - Pesach Sameach

La storia di Pasqua in un servizio di Le Monde

(ma non solo, N.d.T.)

Un sorvegliante egiziano è stato abbattuto oggi da un estremista ebreo di nome Mosé. La famiglia del sorvegliante ucciso nonostante non fosse armato accusa la comunità internazionale di averlo abbandonato. «Amava la vita», racconta suo fratello, commosso fino alle lacrime. « Voleva sposarsi e avere dei figli, una casa e degli schiavi, come tutti. Ora è finita. Perché questa ingiustizia? Perché questa umiliazione?». Il portavoce del Faraone denuncia oggi la comunità internazionale che «fa una politica dei due pesi e delle due misure» che torna sfrontatamente a vantaggio degli Ebrei. Le fonti ebraiche pretendono che le condizioni di vita che imporrebbe loro il Faraone sarebbero poco confortevoli, in particolare per i neonati di sesso maschile. Tuttavia, nessuna fonte indipendente ha potuto confermare questi addebiti.
Una delegazione diplomatica Europea inviata sul posto non ha potuto portare a termine la sua missione a causa dell’oscurità totale in cui gli Ebrei hanno fatto piombare il paese. Il dirigente ebreo Mosé, responsabile dell’assassinio mirato del sorvegliante egiziano e di altri delitti di cui lo accusano le ONG locali, martella che il suo popolo dovrebbe poter occupare il Sinai e Canaan. I dirigenti di questo paese, fra cui il celebre Og, re di Bashan, protestano di fronte all’ingiustizia (leggere domani il nostro supplemento speciale di otto pagine sulla spoliazione e colonizzazione dei popoli di Canaan).
Il Quai d’Orsay ha condannato «le azioni inaccettabili e sproporzionate del dio degli Ebrei che, opponendo dieci piaghe a un problema minimo, la schiavitù, che d’altra parte respingiamo, non da prova di quella buona fede che costituirebbe una premessa tale da incoraggiare gli Egiziani a riconsiderare le frustate se soltanto venisse loro proposto una prospettiva politica e non la forza bruta che condanniamo fermamente».
A Parigi, degli intellettuali hanno firmato una petizione intitolata “Giustizia per i Faraoni”. Questo testo è pieno di sdegno per il fatto che «siano state utilizzate delle rane per terrorizzare la popolazione egiziana, invece di essere state cotte e servite con la salsa bernese, come è d’uso presso la gente civilizzata». Questo appello che chiede la fine dell’umiliazione inflitta al Faraone, esige parimenti «che il mantenimento della schiavitù sia garantito dall’ONU, perché questo è il solo modo di assicurare la stabilità, la dignità e la giustizia immediata per la regione».
Su iniziativa di diversi comuni, verrà presentata in Francia un’esposizione itinerante (“Sofferenza e disperazione dei geometri egiziani”), accompagnata da un ciclo di conferenze sul tema: «Come volete che quaranta secoli vi contemplino se gli Ebrei si rifiutano di costruire le piramidi?».
Un appello a manifestare contro l’uso abusivo delle acque del fiume da parte degli Ebrei è stato lanciato dall’associazione “NIL Obstat”, che denuncia in particolare la trasformazione arbitraria delle acque egiziane in sangue. Si sono uniti all’appello il MRPA (Movimento contro il Razzismo Antifaraonico), la LDH (Lega per la Discriminazione degli Ebrei), la LCR, la CGT, SUD, LO, FO, ATTAC, i Verdi e il PCF. I manifestanti si riuniranno davanti alla piramide del Louvre e marceranno fino all’obelisco della Concorde.
José Bové ha dichiarato su Canal Minus che erano stati gli Ebrei a organizzare la schiavitù degli Ebrei, dato che il Faraone stesso era un agente ebreo, il tutto al fine di infastidire gli Egiziani. Questa eventualità sembrerebbe provata dal modo inspiegabile con cui un ebreo di nome Giuseppe è riuscito a infiltrarsi nei circoli più alti del potere egiziano.
Questi pesanti sospetti che pesano sugli israeliti e sul governo mosaico saranno oggetto di una serie di inchieste di cui inizieremo la pubblicazione domani.
© Yigal Palmor

giovedì 2 aprile 2009

C'è gente per cui "la fisica è materialista"

Giorni fa mi sono imbattuto nelle liste dei giurati e dei finalisti di alcuni premi di letteratura scientifica e, per quanto abituato a queste cose, mi sono stupito: sempre i soliti nomi, la solita compagnia di giro, da una parte e dall’altra, da quella dei premiati e dei premianti, che si scambiano ruoli e onorificenze con sconcertante disinvoltura. Insomma, è quella che gli anglosassoni chiamano una «society for mutual admiration». Inutile dire che tutti appartengono alla stessa parrocchia scientista, la medesima che ci propina la consueta minestra su quasi tutta la stampa italiana. Eppure, secondo il recensore su L’Indice del mio libro “Chi sono i nemici della scienza”, tal Vincenzo Barone, in Italia «gli intellettuali che predicano il culto della scienza come unica forma conoscitiva assolutamente valida» si contano sulle dita di una sola mano. Delle tre l’una: o non legge, o confida che nessuno legga, oppure non sa contare.
Del resto, la sua recensione è un modello di come le critiche che pungono sul vivo possano far perdere la testa. Secondo questo signore apparterrei alla schiera di «intellettuali transitati dal catechismo marxista (come lo chiama lui) al catechismo teocon e alla difesa armata delle radici giudaico-cristiane d’Europa». Piacerebbe sapere come lo chiama lui il marxismo: teoria “scientifica”, immagino. Per parte mia non sono di quelli che si rifiutano di vergognarsi di essere stato comunista, malgrado le scusanti della giovane età e di aver sempre avuto posizioni moderate. Ebbene sì, considero con disagio l’aver aderito a un’ideologia dagli esiti criminali. Catechismo è dir poco. Ma a quel signore disturba persino applicare al marxismo la parola “catechismo”. Quanto ai miei approdi, che difendo a parole (non ho il porto d’armi), sono le conquiste della liberaldemocrazia e i principi dei diritti dell’uomo: se li vuol chiamare teocon, teofrasto o teopompo si accomodi.
Non mi soffermo sulle insinuazioni e falsificazioni di cui è intessuto quel testo: per esempio quella secondo cui le mie considerazioni sul disastro dell’istruzione italiana sarebbero politicamente a senso unico. Preferisco menzionare un piccolo capolavoro: il «documento di genuina malascienza» che il nostro crede di aver trovato nel mio libro. È quando critico Massimo Piattelli Palmarini per aver detto che la fisica e le sue leggi sono “materialiste”. Barone si mostra scandalizzato perché io ho affermato che non ha senso dire che «le leggi della fisica sono materialiste» e ironizza: «presumibilmente la fisica è spiritualista, animista o qualcosa del genere».
Lasciamo da parte che per un tal Newton la gravitazione universale poteva spiegarsi soltanto come una proprietà occulta della materia o per l’intervento di un fattore “soprannaturale”. Qualcuno dovrebbe spiegare a questo signore la distinzione tra materia e materialismo, tra natura e naturalismo, tra spirito e spiritualismo, ecc. Il fatto che la fisica e le sue leggi si occupino soltanto di fatti materiali non implica affatto che esse siano materialiste, ovvero che dimostrino la dottrina secondo cui tutto si riduce a fatti materiali (o che si basino su di essa). Insomma, da una legge della fisica non si deduce l’asserto metafisico che tutto, anche l’anima, si riduce ad atomi, né essa ne ha bisogno come fondamento.
A dirla tutta, le frasi «le leggi della fisica sono materialiste» o «la fisica è materialista» (o spiritualista, s’intende) sono perdonabili soltanto sulla bocca di un analfabeta. Sarebbe da ridere se si trattasse solo dell’inverarsi del detto sui pifferi di montagna. È da piangere pensando in che mani è l’educazione scientifica in questo paese.
(Tempi, 2 aprile 2009)