lunedì 23 dicembre 2013

Aberranti idee che a volte ritornano

Chi si sognerebbe di considerare Emile Zola, lo scrittore francese che fu uno dei massimi difensori del capitano Dreyfus, durante il celebre “affaire”, al punto da dover fuggire per evitare la prigione? In un articolo del 1896 pubblicato su Le Figaro, egli descriveva lucidamente la connessione tra antisemitismo e pregiudizi razziali: «Non vi è nulla da rispondere a coloro che vi dicono: “Li detesto perché li detesto, perché soltanto la vista del loro naso mi mette fuori di me, perché tutta la mia carne si rivolta a sentirli diversi e contrari». Torniamo allora nelle profondità dei boschi, ricominciamo la guerra barbara fra specie e specie, divoriamoci perché non emettiamo lo stesso grido o perché abbiamo il pelo piantato diversamente. Lo sforzo delle civiltà è proprio quello di cancellare questo bisogno selvaggio di scagliarsi sul proprio simile, quando non è del tutto simile. Nel corso dei secoli, la storia dei popoli è una lezione che chiama alla mutua tolleranza […]. Ai nostri tempi, odiarsi e mordersi perché non abbiamo il cranio assolutamente costruito nello stesso modo, inizia ad essere la più mostruosa delle follie.»
Eppure, chi conosca a fondo l’opera letteraria di Zola sa che anche l’autore di quelle nobili parole fece qualche scivolata. Nel romanzo Nanà il banchiere ebreo Steiner offre alla protagonista una busta con mille franchi. «Mille franchi! Chiedo forse l’elemosina? Ecco cosa faccio dei tuoi mille franchi!», grida Nanà, tirandogli la busta in faccia. E Steiner «da ebreo prudente, la raccoglie penosamente». Peggio ancora ne Le bonheur des dames: il protagonista Mouret «lascia correre la brutalità di un ebreo che vende la donna a un tanto la libbra».
Che cosa ci insegnano queste “scivolate” da parte dell’autore del celebre manifesto J’accuse che segnò l’inizio della sconfitta di una delle più grandi campagne antisemite della storia? In primo luogo, che dobbiamo avere la capacità di distinguere tra espressioni antisemite che sono come la risacca di onde che vengono da lontano e che emergono persino in modo inconscio, e l’antisemitismo violento, consapevole, programmatico. Troppi ci sono caduti – persino un Benedetto Croce – e sarebbe irresponsabile fare di ogni erba un fascio, come accade ad alcuni pseudo-storici alla ricerca dello scandalo più che di analisi meditate. In secondo luogo, che la capacità del pregiudizio antisemita di infiltrarsi ovunque, come effetto di sedimenti accumulatisi nei secoli, deve chiamare alla massima vigilanza intellettuale. La vigilanza più importante di tutte – come chiarì bene Zola nelle frasi citate – è quella contro il pregiudizio razziale. Al razzismo non dobbiamo concedere neppure un millimetro, e i più vigilanti, al riguardo, debbono essere proprio gli ebrei che di tale pregiudizio sono stati vittime come pochi altri.
Da questo punto di vista debbono preoccupare al massimo grado le derive di certe ossessioni pseudoscientifiche contemporanee, tendenti a ridurre ogni caratteristica mentale e culturale a differenze genetiche, riproponendo, sotto neppure tanto mentite spoglie, la famigerata eugenetica. Lascia sconcertati che vi sia chi si diletta di ricercare le radici genetiche di una pretesa superiorità intellettuale degli ebrei ashkenaziti sugli altri ebrei o degli ebrei sugli altri popoli. Alcuni anni fa Harry Ostrer, genetista e professore presso l’Albert Einstein College of Medicine di New York, ha pubblicato un libro su “Eredità, storia genetica del popolo ebraico” volto a dimostrare che «ricchezza, privilegi, educazione non sono sufficienti a spiegare che molti ebrei siano destinati a diventare avvocati o fisici eccezionali». Insomma, sarebbe un gioco un determinismo biologico. A sua volta, un noto genetista israeliano. Raphael Falk, ha sostenuto in un libro su “Il sionismo e la biologia degli ebrei” una tesi che mette in gioco il sionismo: la biologia andrebbe considerata come un collante, uno strumento atto a definire gli ebrei come un popolo avente una sua identità biologica e che «giustificherebbe i legami tra gli ebrei attuali e la terra che da secoli, in modo inequivocabile, è la colla dei loro legami socio-culturali». Secondo Falk «mentre l’eugenetica aspira a redimere la specie umana guardando in faccia le realtà della sua natura biologica, il sionismo aspira a redimere il popolo ebraico guardando in faccia le sua antica e distinta identità “razziale”». Il sionismo, raggruppando gli ebrei come nazione «avrebbe conseguenze eugenetiche profonde, arrestando la degenerazione di cui essi sono caduti preda per le condizioni imposte nel passato». Mentre Falk considera la biologia come un collante, Ostrer parla di “orgoglio di stirpe”: «avere 3000 anni di patrimonio genetico può essere una fonte d’identità, e di orgoglio, come lo è avere una storia condivisa, la cultura e la religione». Gli ebrei sono una “razza”, insiste Ostrer. Falk guarda al sionismo come un mezzo per realizzarne la purezza.

Sono tesi che hanno suscitato polemiche e anche recensioni fortemente critiche, come quella del noto biologo Richard Lewontin. Lascia soprattutto sconcertati che, dopo lo sforzo poderoso di Luigi Luca Cavalli Sforza di mostrare la totale inconsistenza scientifica del concetto di razza, vi sia ancora gioca con simili pericolose elucubrazioni. Molti genetisti avvertiti ripetono che la tesi che le manifestazioni mentali e culturali siano tutte iscritte nei geni non ha il minimo fondamento. Niente da fare. L’ideologia è più forte di qualsiasi discorso scientifico, ed essa è la compagna inseparabile del pregiudizio. Sarebbe almeno auspicabile che simili irresponsabili scivolate verso il razzismo non venissero mai da parte ebraica.
(Shalom, dicembre 2013)

domenica 15 dicembre 2013

INVALSI: BASTA CON LA SOLITA SCENEGGIATA INTIMIDATORIA

UNA LETTERA INVIATA AL SUSSIDIARIO:

Caro Direttore,
è mia ferma convinzione che se uno viene nominato a una funzione che deve essere quanto mai imparziale – e mi riferisco alla mia nomina a membro del Comitato per la selezione della rosa di candidati per la nuova presidenza dell’Invalsi – è bene che taccia e operi, non curandosi dei clamori. Per questo ho ritenuto sufficiente che fosse il presidente del Comitato professor Tullio De Mauro (e il professor Benedetto Vertecchi) a rispondere all’articolo del professor Andrea Ichino che, sul Corriere della Sera, ha interpretato la nostra nomina come un evidente tentativo di stravolgere l’indirizzo dell’Invalsi. E ciò nonostante questo articolo fosse in contraddizione con i propositi tenuti dal professor Ichino nel corso di un recentissimo convegno al Liceo Mamiani a Roma. Né ho considerato che occorresse rispondere alle valutazioni di Giavazzi e Alesina, che riprendevano testualmente quelle di Ichino, e neppure a quelle (espresse in linguaggio identico) da Gianni Bocchieri sul Sussidiario.
Anche se si hanno tutte le perplessità del mondo sulla composizione di una commissione non penso che sia una buona idea attaccarne a priori i membri, facendo processi alle intenzioni e mettendone in dubbio l’imparzialità. Non mi risulta che questo sia stato fatto in occasione delle precedenti nomine dei presidenti dell’Invalsi. E tuttavia meglio tacere e non entrare nella polemica.
Tuttavia, anche se occorre tener saldo il principio di tacere e lavorare in modo serio e imparziale, c’è un limite oltre il quale qualche parola va detta: ed è quando il deprecabile stile italico della denigrazione e del pregiudizio rissoso assume il carattere dell’attacco personale, dell’attacco con nome e cognome. Leggo sul sito dell’associazione ADI – che con spirito squisitamente alieno da faziosità si augura che Renzi rimetta in riga il ministro Carrozza – che saremmo un quintetto di “revenants” (i.e. zombie, in linguaggio più giovanile), una vera finezza che mostra il livello di chi vorrebbe presentarsi come il nuovo che avanza. Ci si chiede se il sottoscritto («il più virulento oppositore delle valutazioni standardizzate») non sia «in quota centrodestra». Una insinuazione volgare, tanto per screditare, e che si commenta da sola: chi mi conosce sa bene che sono soltanto in quota di me stesso, ovvero (ne sono consapevole) in quota del poco o del nulla che contano le semplici idee.
Mi dispiace che, nella tentazione di uno screditamento personale sia caduta anche una persona che ha una posizione istituzionale autorevole e influente come Mariella Ferrante, quando scrive sul Sussidiario che io, come gli altri membri del Comitato, sarei «un personaggio famoso per le posizioni variamente critiche nei confronti della valutazione». Un vecchio, consunto, scorretto – ma evidentemente ancora ritenuto efficace – stratagemma per screditare è far credere che chi critica una particolare concezione della valutazione sia nemico della valutazione tout court. Trovo persino umiliante dover ribadire – come quegli imputati che nei processi staliniani protestavano invano la loro fede comunista – che non sono affatto critico della valutazione. Al contrario. Ho difeso in innumerevoli occasioni la necessità assoluta di una valutazione seria per riqualificare l’istruzione. Semplicemente, ho le mie opinioni al riguardo, contestabili ma che spero sia ancora legittimo avanzare, a meno che non si sia entrati in un regime di pensiero unico, in cui o la si pensa in un certo modo o si è un nemico sociale, una persona pericolosa. Mariella Ferrante aggiunge pure che «oltre ad essere uno dei maggiori critici delle prove di valutazione» – il che è un altro falso dello stesso genere di quello precedente, perché non esiste un unico genere di prove di valutazione a meno che non si sia deciso di dare il cervello all’ammasso – sarei «un sostenitore della necessità di concentrare l’attenzione sulla selezione delle eccellenze». Sarebbe da ridere se non vi fosse da piangere nel vedere il confronto di idee ridotto a un simile livello. La penso esattamente al contrario e da anni predico che stiamo costruendo nei fatti la tanto deprecata “scuola di classe”, in cui avanzano soltanto le eccellenze (per censo, ceto o altri privilegi) e il resto viene appiattito verso il basso. Sono fermo sostenitore di un’istruzione che faccia avanzare tutti verso il livello più alto possibile – altro che “selezionare” le eccellenze! – e trovo deprecabili alcuni modelli stranieri che puntano verso questo modello di tipo aristocratico e classista. Quale è il senso di dare simili presentazioni caricaturali delle opinioni altrui?
Una sommessa richiesta: per favore, smettetela di strattonare in questo modo scorretto, con smaccati tentativi di screditare e condizionare. Un conto è esprimere le proprie opinioni in merito alle modalità della valutazione e, com’è legittimo, difenderle. Altro conto è screditare a priori chi si ritiene non la pensi come te dando un’immagine totalmente falsata e storpiata delle sue opinioni. Se i membri del Comitato hanno – come concede Ferrante – indubbia competenza scientifica e interesse per la scuola, sarebbe il caso di lasciarli lavorare in pace e giudicare dopo. Per parte mia, dopo aver detto quanto precede non interverrò più in nessun caso. Neppure in presenza di ingiurie. Tanto peggio per chi vorrà indulgere al costume nazionale di mettere in piedi la solita insulsa contrapposizione tra guelfi e ghibellini, che oltretutto qui non si capisce neppure chi siano, visto che sono dispersi disordinatamente da tutte le parti.

                                                                                                         Giorgio Israel

mercoledì 4 dicembre 2013

CHE COSA DICONO I SONDAGGI OCSE-PISA?

Un'analisi più dettagliata di alcuni dei test proposti si trova sul blog "Pensare in matematica".

I risultati del sondaggio Ocse per quel che concerne la scuola italiana possono essere così riassunti: l’Italia si colloca ancora al disotto della media dei 65 paesi esaminati, in matematica, in lettura e in scienze, ma è uno dei paesi che ha registrato i maggiori progressi soprattutto in matematica e in scienze. Il quadro mostra risultati deludenti per le regioni meridionali mentre, in alcune zone del nord-est, gli studenti sono secondi solo a quelli del Lichtenstein.
Le reazioni diffuse sono di gradita sorpresa, perché altri sondaggi recenti facevano temere il peggio. Si moltiplicano i tentativi di spiegazione ma non è affatto chiaro che cosa abbia determinato questa inversione di tendenza e quale ne sia l’autentico significato.
V’è difatti qualcosa di negativo in questo rito statistico che si ripete periodicamente e il cui effetto principale sembra essere l’anestesia dello spirito critico: piovono tabelle, grafici, istogrammi e milioni di numeri che vengono confusi con la “realtà” dimenticando non solo di interpretarli ma che la cosa più interessante di tutte è chiedersi attraverso quali strumenti (quiz, questionari) si è pervenuti a questi risultati. Stiamo adattandoci a prendere tutto per buono e a trarre conclusioni affrettate. L’attendibilità dei sondaggi Ocse-Pisa è stata già messa in discussione, per esempio dai sociologi Jörg Blasius e Victor Thiessen, che hanno messo in luce l’influsso di questionari compilati dai dirigenti scolastici in modi che apparivano confezionati in modo troppo meccanico per essere attendibili. Ma si dovrebbe andare a fondo su questioni di sostanza.
Il sondaggio Ocse-Pisa colloca i paesi sopra o sotto un livello medio che risulta dalle loro prestazioni. Queste sono l’esito di test uguali per tutti. Ciò è discutibile: la cultura universale condivisa è un sogno magnifico, ma niente più, perché le differenze nazionali esistono, eccome, ed è difficile pensare a un test che valuti sulla medesima scala uno studente cinese e uno spagnolo senza appiattire in modo indebito le loro diversità culturali e di formazione didattica. Questo può essere fatto soltanto stabilendo per decreto che cosa sia una competenza matematica, di lettura o di scienze: il che è un appiattimento poiché – malgrado la globalizzazione – neppure il modo di pensare la matematica è uguale in ogni parte del mondo. Quindi, la cosa più interessante è esplorare la concezione che ha ispirato il sondaggio Ocse e da cui derivano i test proposti. Questo è l’aspetto più oscuro della faccenda, nascosto dal diluvio dei dati. Tuttavia, il sito Ocse offre esempi di alcuni test usati, in particolare per la matematica. La loro presentazione, redatta in fumoso gergo di stile didattico-burocratico, rivela una concezione rispettabile ma altrettanto discutibile della matematica, identificata semplicisticamente con il pensiero quantitativo-numerico. È poi interessante fare i test. Uno di essi chiede di calcolare il numero di persone che entreranno in un edificio attraverso una porta rotante a velocità e capienza date, in un certo tempo. Ho indicato a colpo e per intuizione il valore più alto tra i 4 proposti. Ma la domanda voleva essere un test della capacità di mettere in gioco abilità nel modellizzare situazioni concrete. Uno studente che avesse correttamente seguito la via di costruire un modello avrebbe impiegato molto più tempo di me, forse troppo per dare la risposta; pur mostrando migliore competenza di chi ha indovinato “a naso”. A meno che non si voglia commettere l’errore capitale di premiare la velocità. Senza contare che un problema matematico non ha una sola via di soluzione: la scelta tra le tante possibili è un indizio delle capacità dello studente. Ma questo non risulta da un test a crocette. Un altro modello più difficile mirava a mettere in gioco l’abilità di modellizzare situazioni complesse: dalla descrizione delle caratteristiche di un percorso di ascensione al Monte Fuji lo studente doveva desumere il tempo limite per tornare al punto di partenza entro le 8 di sera. Anche qui si chiedeva di rispondere con una cifra, mentre sarebbe stato assai più interessare valutare l’approccio seguito, indipendentemente da un eventuale errore numerico. Ebbene, l’Italia si è attestata su un mediocre 10% di risposte esatte, davanti al misero 9% di paesi scientificamente avanzati come USA e Israele, appena dietro il 13% francese: tutti – inclusa la Germania (18%) – stracciati da percentuali asiatiche oscillanti tra il 30% e il 55%. Davvero tutto ciò dice qualcosa di decifrabile? Davvero uno studente tedesco ha capacità tanto minori di tradurre un problema in formule matematiche di uno studente di Singapore? O forse è meno abituato alla messa in opera di algoritmi ad hoc, senza per questo avere minori capacità matematiche? Secondo il rapporto Ocse gli studenti italiani sarebbero più capaci di interpretare risultati matematici che non di formulare matematicamente situazioni concrete. Ma forse la conclusione è affrettata. Una visione più concettuale della matematica (magari maturata con studi altrove trascurati) può essere momentaneamente perdente su un test che verifica l’esito di abilità calcolistiche, e alla lunga vincente anche sul piano applicativo.
Si potrebbe continuare, ma ci sembra che l’unica risposta seria alla domanda se davvero l’Italia sia nella condizione descritta è: su queste basi non è affatto chiaro. L’unica cosa chiara è che dovremmo passare a una fase più matura e adulta del problema della valutazione, affrontando – anche con analisi non numeriche – i molteplici temi che si presentano nel problema del miglioramento dell’istruzione. Fattori complessi come la capacità, l’abilità ecc. hanno una gran quantità di aspetti – culturali, sociali, specificamente nazionali o regionali, psicologici, ecc. – che non si prestano al giochetto fallace da mago dei numeri di appiattirli su una scala unidimensionale. Nessuno può negare l’utilità dei test, a livelli minimali, ma credere che in tal modo si possa rappresentare la realtà mondiale dell’istruzione è regredire a una visione mistica in cui le percentuali assumono valore di per sé senza che neppure ci si chieda da dove nascano.


(Il Messaggero, 4 dicembre 2013)

mercoledì 27 novembre 2013

La follia della medicalizzazione della vita...

Ecco una lettura dedicata a coloro che mi hanno quasi linciato quando ho scritto che l'ADHD (la sindrome del bambino agitato) era una malattia inventata: un giornalista mi invitò su questo blog a scusarmi...
Ora è attendersi che si scusi lui e tutti coloro che hanno usato parole violente e aggressive. La compagnia del Ritalin...
E poi c'è chi dice che gli "specialisti" sono meglio delle famiglie...
È piuttosto sintomatico quanto sia stata soffocata questa notizia.

domenica 24 novembre 2013

L'educazione dei figli spetta alla famiglia, non allo Stato

Giorni fa, su queste pagine [Il Messaggero], ho proposto di rispondere al dilagare dei casi di prostituzione minorile con un rilancio dell’educazione sentimentale: «Leggiamo una poesia alle baby-squillo». I molti commenti favorevoli ricevuti hanno colto il senso della proposta: leggere poesie ai ragazzi (e fiabe ai bambini, ha aggiunto giustamente qualcuno) è un invito a non appiattire i problemi dello sviluppo sul mero aspetto sessuale, rivalutando ed esaltando il lato emozionale, la capacità di vivere in modo pieno i sentimenti come la cosa più importante e non come una debolezza di cui vergognarsi. Qualche “esperto” ha storto il naso in modo prevedibile, proponendo la ricetta opposta: gettare alle ortiche l’amore “romantico” che, chissà perché, sarebbe una leggenda – che tristezza non aver mai provato quanto sia bello essere innamorati in modo sentimentale… –, e dedicarsi a sviluppare nei ragazzi le “competenze” della propria corporeità. Non sfiora il dubbio che il difetto di questa ricetta stia proprio nel suo materialismo radicale che declassa i sentimenti a epifenomeni della corporeità e della sessualità, e guarda con il risolino dello “scettico blu” (come si diceva un tempo), gli immaturi che ancora si attardano dietro a queste bubbole, di cui sono espressione scritta le poesie, le fiabe, i romanzi.
Se tutto questo fosse un’opinione che si confronta con altre non varrebbe neanche la pena di scriverne. Ma quando si constata che non si tratta di opinioni, ma di qualcosa che rischia di tramutarsi in direttive da seguire obbligatoriamente, il discorso cambia. Desta autentico sconcerto la lettura del documento “Standard per l’educazione sessuale in Europa”, prodotto dall’Ufficio Regionale per l’Europa dell’OMS (Organizzazione Mondiale per la Sanità). Sarebbe lungo riassumere 68 pagine. Diremo soltanto che sono ispirate a un’ideologia sessuocentrica, nella cornice di un politicamente corretto così spinto da confermare l’impressione che in materia ormai l’Europa stia stracciando gli USA. Dopo una premessa “filosofica” farraginosa, il documento indica le linee guida operative per le fasce di età 0-4 anni, (in cui già il bimbo va introdotto alla “gioia” della masturbazione precoce), 4-6 (in cui approfondisce la conoscenza dei genitali e viene informato sulle diverse concezioni di famiglia), 6-9 (in cui è informato dei propri “diritti sessuali”), fino a 9-12 e oltre, in cui gli si parla di mutilazione genitale femminile, circoncisione, anoressia e bulimia (tutto messo assieme).
La cornice descrittiva è quella tipica del più piatto burocratismo psico-pedagogico. In colonna sono le informazioni da trasmettere, le competenze da creare, gli atteggiamenti da sviluppare, in riga corpo, fertilità e riproduzione, sessualità, affetti, stili di vita, sessualità, diritti. Così, per la fascia 0-4 anni, all’incrocio affetti-competenze si prescrive il gioco del dottore e a quello sessualità-informazione il diritto di esplorare le identità di genere e la nudità.
Fin qui, è un’opinione come un’altra la nostra secondo cui questo documento, prima ancora che moralmente deplorevole è intellettualmente infimo, meriterebbe una solenne bocciatura e una pessima valutazione dei suoi autori. Purtroppo, non si tratta di teoria, quando si apprende che in Svizzera, nel Cantone Basilea, sono state introdotte lezioni obbligatorie di sessualità nelle scuole dell’infanzia, munendo addirittura i maestri di una “sex-box” contenente peni di legno e vagine di peluche, e un gruppo di lavoro è in azione per estendere queste iniziative a tutto il paese, al punto che contro di esse è partita una petizione che ha raccolto più di 90.000 firme. Ma il vero problema è che un documento del genere aspira manifestamente a diventare una direttiva europea.
La famiglia è sempre stata la sede di formazione affettiva e sessuale dei figli. E, si badi bene, anche dei genitori, i quali sanno quale lezione (e crescita) sia per loro affrontare tutte le fasi delicatissime della crescita di un figlio. Per questo, le famiglie hanno un ruolo sociale tanto importante. Lo hanno esercitato bene e male. Il miglioramento va perseguito, con il confronto e lo stimolo; ma solo chi crede che sia possibile mettere le braghe al mondo pensa di risolvere tutto d’un colpo, mettendo l’educazione in mano allo stato, secondo regole calate dall’alto. Conosciamo questa visione: si chiama totalitarismo. L’hanno praticata i paesi fascisti, la si è vista all’opera negli asili sovietici di Aleksandra Kollontai, nelle teorie pedagogiche che Makarenko applicava agli orfani dei deportati nel Gulag. Come è possibile che una simile mala pianta attecchisca in società democratiche e liberali? Sembra impossibile, e proprio per questo la vigilanza è bassa. E invece è possibile, se si creano centri di potere formati da burocrazie fuori controllo che si scelgono in modo arbitrario i propri esperti per formulare teorie da trasformare in direttive continentali. Non è solo la famiglia a essere espropriata del proprio ruolo, trasformando gli insegnanti in meri esecutori delle direttive promulgate da quei centri di potere; ma anche la politica è espropriata della propria autonomia di decidere le forme dell’istruzione nazionale. La scuola viene così ridotta a centro di costruzione del “nuovo cittadino europeo” secondo direttive imposte dall’alto. Come chiamare tutto ciò, se non una forma neanche tanto subdola di totalitarismo che rende banale la profezia del “mondo nuovo” di Huxley?

Pare che il nostro governo abbia stanziato ben 10 milioni di euro per l’“aumento delle competenze relative all’educazione all’affettività”. Visto il rischio che, per superiori direttive, tali “competenze” assumano la forma sopra descritta, non sarebbe il caso di esercitare qui una radicale “spending review”? In un paese in cui una grande città ha i mezzi pubblici fermi da giorni e si viaggia nei treni locali con l’ombrello, non sembra proprio una buona idea spendere 10 milioni per far fare il gioco del dottore a bambini di tre anni.
(Il Messaggero, 23 novembre 2013)