venerdì 28 settembre 2007

Lettera al direttore de Il Foglio sul "diritto" a entrare in ritardo a scuola

Signor Direttore,
giustamente Il Foglio definisce "imperdibili" le dichiarazioni di Roberto Tavani, assessore municipale alla cultura, circa la battaglia sul diritto a entrare in ritardo al Liceo Mamiani. Allora non perdiamoci neppure quelle di "Giacomo", rappresentante dimissionario al Consiglio d'Istituto, secondo cui “il preside non ha capito che ciò che più fa imbestialire gli studenti è un proprio un provvedimento che interferisce sulla sfera personale". Una filosofia davvero interessante. L'orario di ingresso a scuola sarebbe una faccenda che attiene alla sfera personale... A pensarci bene, ogni orario - degli uffici, dei treni, degli aerei, delle fabbriche, degli ospedali, ecc. ecc. - interferisce nelle sfere personali. Perciò - sempre per dirla con l'imperdibile Tavani - bisogna "elaborare un confronto" perché "dare un aut aut è solo perdente". Proviamo a ristrutturare il paese su queste basi e vediamo che bordello perdente ne viene fuori. D'altra parte è la filosofia "I care" de "la legalità è un diritto". Uno (come il preside del Mamiani) ha il diritto di chiedere il rispetto della legalità. Gli altri la rispetteranno, se gli garba. Se non gli garba, bisognerà elaborare un confronto. Doveri da applicare sotto forma di aut aut? Mai! Sarebbe un'orrida interferenza nella sfera personale, che diamine.

domenica 16 settembre 2007

E adesso scopriamo che pure il grande Habermas non si porta più

(Il Foglio - sabato 15 settembre 2007)
La relazione tenuta da Jürgen Habermas a Roma su “La rinascita della religione: una sfida per l’autocomprensione laica della modernità?” suscita una riflessione. Prima o poi occorrerà ammettere che più di un secolo di sociologia “scientifica” inspirata al modello delle scienze esatte ha lasciato poche acquisizioni e molti detriti. Ciò emerge anche dalla relazione di Habermas, per esempio quando osserva che «la debolezza della teoria della secolarizzazione è dovuta a inferenze affrettate che tradiscono un uso impreciso dei concetti di “secolarizzazione” e di “modernizzazione”». Perché parlare di “imprecisione” e non di uso astorico? Il concetto di precisione si addice a definizioni relative a oggetti aventi caratteristiche di invariabilità, non a fenomeni, addirittura soggettivi, dipendenti dal tempo storico. In tal caso, il tentativo di dare definizioni “precise” è vano. Habermas ricorda i tre cardini su cui poggia la tesi della secolarizzazione risalente a Durkheim e Weber: il progresso della scienza e della tecnologia promuove una visione antropocentrica e umanistica del mondo inconciliabile con le visioni teocentriche; la differenziazione funzionale dei sottosistemi sociali dissolve la funzione pubblica delle religioni; la crescita di benessere e di sicurezza esistenziale elimina il bisogno di fede in un potere più “alto”. Ma questa tesi era soprattutto una credenza dei padri della sociologia scientifica che non ha corrisposto agli sviluppi storici successivi. Che il progresso scientifico e tecnologico implichi di per sé antropocentrismo e umanesimo poteva essere creduto nel periodo trionfale del positivismo. Oggi quest’idea si scontra con i fatti: il prevalere del meccanicismo spinge in una direzione antiumanistica e per nulla antropocentrica. Così, l’idea che la diffusione del benessere dissolva l’esigenza di trascendenza era un “wishful thinking”, pesantemente smentito dalla storia del Novecento: l’insoddisfazione per la società del benessere non ha ricondotto alle religioni tradizionali, ma è stata convogliata entro altre correnti di forza inaudita.
L’analisi dei padri della sociologia non può essere considerata fuori dalla storia, come se dovessimo discutere delle equazioni di Maxwell. Vi è certamente stato un processo di secolarizzazione nel senso sopradetto. Ma occorre chiedersi se lo spazio sottratto alle religioni sia stato riempito dalla razionalità illuministica o positivistica o, piuttosto, l’esigenza di assoluto non si sia incanalata in altre direzioni, e altri attori abbiano occupato la scena. È stupefacente che si possa sviluppare un’analisi di questi temi escludendone i più ingombranti protagonisti del Novecento: i totalitarismi. Appare molto più significativa la categoria di “teologie sostitutive” introdotta da George Steiner. Secondo tale visione il vuoto lasciato libero dalle religioni è stato riempito da teologie sostitutive, sistemi “mitopoietici” che offrono risposte alle problematiche tipiche del pensiero religioso: visioni totalizzanti ed escatologiche che rispondono ad aneliti messianici; la sostituzione dei testi sacri con testi canonici, nuove “tavole della legge”; il conseguente conflitto fra ortodossia ed eresia; la costituzione di linguaggi e riti formati da metafore, simboli, gesti, scenari aventi un valore d’identificazione. Queste caratteristiche si ritrovano tutte nei movimenti totalitari del Novecento e poco hanno a che fare con il razionalismo secolare, anche se ne ereditano lo scientismo, piegato però a una prospettiva escatologica che, pur dicendosi terrena, è talmente fuori dalla storia reale da rivelare il suo carattere di surrogato dell’esigenza frustrata di trascendenza e di redenzione.
Tanto è inverosimile un’analisi delle relazioni tra secolarismo e religiosità in Europa senza riferimento ai totalitarismi, quanto lo è discutere le condizioni presenti dell’Europa senza occuparsi di cosa stia accadendo nel vuoto lasciato libero dal comunismo. A nostro avviso, l’esigenza di palingenesi messianica del comunismo, privata di prospettive concrete, dei suoi “libri sacri” e dei suoi simboli identificativi, li ha sostituiti con una visione ridotta al mito salvifico della tecnoscienza, in quanto capace di redimere la società e di ricostruire scientificamente l’uomo, depurandolo dagli errori inerenti alla sua “imperfetta” costituzione naturale. Ed ecco che un altro mito escatologico novecentesco, l’eugenetica, si riaffaccia nei panni di un ideale di progresso. Questo bisogno inesausto di escatologia spiega perchè tanti orfani del marxismo siano in prima linea nel lanciare la singolare formula della scienza come “religione della ragione”. E spiega il paradosso per cui il bersaglio della critica storico-scientifica delle religioni sono cristianesimo ed ebraismo e i loro libri sacri mentre si presta un deferente omaggio al Corano, e si manifesta comprensione nei confronti del fondamentalismo islamico. Simili manifestazioni hanno poco a che fare con il secolarismo e con la laicità. Giustamente si parla di “laicismo” – ne ha parlato Habermas suscitando fastidio – ovvero dell’erigere l’antireligiosità a fede, rinunciando alla tolleranza voltairiana in favore dell’intransigenza delle teologie sostitutive.
Non sorprende che un discorso moderato e aperto sulla ragione – un’autentica difesa della razionalità – venga oggi in Europa soprattutto dal vilipeso ceppo giudaico-cristiano. Il discorso di Benedetto XVI a Regensburg ha destato scandalo perché ha proposto una nuova alleanza tra ragione e religione in opposizione alla visione della fede come alternativa alla ragione o della ragione eretta a fede. Come parlare di secolarismo tollerante europeo, se la “religione della ragione” respinge questa mano tesa e preferisce mostrare comprensione nei confronti di chi predica la supremazia assoluta della fede?
Nella sua relazione Habermas propone una critica del laicismo in quanto capace di provocare conflitti altrettanto profondi di quelli tra fedi religiose ostili. Egli identifica il laicismo come devianza da una condizione ideale di coesistenza tra visioni contrastanti, derivante dall’accettazione di un minimo comun denominatore di regole – una condizione che individua come ipotesi controfattuale. Crediamo poco all’uso di ragionamenti controfattuali nelle scienze sociali. Le scienze fisico-matematiche ricorrono a ragionamenti controfattuali in quanto l’essenza del loro metodo è immergere il reale in un immaginario controllato. Ma non esiste un virtuale nella sfera sociale e per questo una sociologia teorica è impossibile. Pertanto, lo schema utilizzato da Habermas, ricorrendo all’idea di equilibrio, che ha dato sempre cattivi risultati nelle scienze umane, non corrisponde a situazioni realistiche e praticabili. Ma questo è un altro discorso. Qui ci interessa sottolineare che, anche a partire da un siffatto approccio, Habermas perviene a conclusioni nette sul pregiudizio che una visione laicista può portare alla tolleranza.
Tuttavia, la parte più interessante del testo di Habermas è dove egli, scendendo sul terreno storico, critica «la presa di posizione polemica dell’Illuminismo nei confronti del potere temporale della religione», che «tende ad oscurare il fatto che il pensiero postmetafisico si è appropriato criticamente di contenuti della tradizione giudaico-cristiana non meno importanti dell’eredità della metafisica greca». Egli sottolinea che «i concetti moderni della persona individuale e della forza individuante di una storia di vita traggono le loro connotazioni di unicità, insostituibilità e soggettività o interiorità dalla nozione biblica di una vita vissuta sotto lo sguardo divino». «La morale laica dell’eguale rispetto per ciascuno» ha un carattere di imperativo categorico perché «mantiene una traccia della trascendenza intramondana dalla prospettiva divina del Giudizio Universale». Si potrebbe aggiungere che questo apporto è stato determinante anche sul terreno della razionalità scientifica: la formazione della scienza europea ha avuto come attori principali “teologi laici” che ne hanno fondato i concetti sulla base di riflessioni teologiche sull’infinito, lo spazio, il tempo e il rapporto tra matematica e realtà.
È bastato che Habermas ponesse la domanda «intorno a che cosa la ragione secolare possa apprendere dall’acquisire coscienza del suo rapporto genealogico con l’eredità giudaico-cristiana» per destare fastidio in molti commentatori. Si è tentato di far credere che il suo intervento sia stato «una sfida alle tesi di Papa Ratzinger». Al contrario. Per Habermas, la ragione laica deve «astenersi dal valutare la razionalità o irrazionalità della religione in quanto tale»: un richiamo che incontra le tesi di Benedetto XVI. E quando conclude dicendo che il «riserbo cognitivo» di un «agnosticismo riflessivo» «può soltanto operare a favore di quelle religioni che a loro volta hanno imparato a riconoscere la democrazia, il pluralismo religioso e l’autorità laica della scienza», egli fa l’affermazione più imbarazzante per chi ha voluto presentare il suo intervento come un’apologia della ragione laica europea in quanto sola capace di gestire l’incontro delle civiltà. Provatevi a chiedere quali sono quelle religioni: la risposta l’ha data poco prima Habermas, più chiaramente non si potrebbe.

giovedì 6 settembre 2007

Viva le tabelline di Fioroni, ora ci liberi dal pedagogismo democratico

Soltanto qualche mese fa il professor Odifreddi elogiava l’introduzione del calcolo numerico mentale negli asili francesi dicendo che, in tal modo, i bambini avrebbero smesso di credere a Babbo Natale e a Gesù. Ora, di fronte alle indicazioni del ministro Fioroni tese a ridare spazio alle tabelline e alle competenze specifiche rovescia la sua posizione e parla di “restaurazione”, in singolare consonanza anche verbale con alcuni esponenti del centro destra che parlano di visione “passatista” e “impositiva”. Dunque, lo slogan sessantottino dell’insegnamento disciplinare “oppressivo” e “impositivo” risorge a destra, fianco a fianco con la rivalutazione odifreddiana della metodologia: non conta quello che apprendi ma come lo apprendi. Difatti, il “matematico impertinente” è soprattutto preoccupato che i bambini siano sottratti al mondo delle favole e della religione e si deve essere convinto che la scienza in sé non basti allo scopo e che forse è meglio ricorrere alla metodologia.
Simili confusioni mentali e stupefacenti convergenze hanno due possibili spiegazioni. O siamo di fronte a persone che non hanno mai visto un bambino in vita loro, non hanno mai messo piede in una scuola e non hanno la minima idea di come si insegni la matematica, per esempio nelle elementari (e forse questo è il caso di Odifreddi). Oppure, siamo di fronte al tentativo di conservare a tutti i costi il primato del pedagogismo, ovvero della scuola come “laboratorio del processo di apprendimento”, alla teoria dell’allievo “al centro del sistema”, che costruisce da solo i suoi saperi, con l’ausilio di un insegnante visto come animatore culturale – del genere degli animatori delle feste di compleanno dei bambini. Insomma, è il tentativo di difendere la scuola come territorio della metodologia pura, scienza dei nullatenenti e scienza del nulla.
Facciamo chiarezza una volta per tutte. Chi scrive non ha nulla contro la pedagogia, disciplina rispettabilissima, né contro la metodologia. Se non altro per essere stato per anni direttore di un centro di ricerche in metodologia delle scienze… In quegli anni facemmo interessanti cicli di seminari in cui si analizzava, ad esempio, la metodologia della modellistica matematica nell’ingegneria industriale e gestionale dal punto di vista storico ed epistemologico. Cose certamente utili e istruttive anche per chi fa ricerca sul campo. Ma va detto chiaramente che, se qualcuno di noi fosse entrato in un centro di ricerca a dire “dovete fare così e così”, o addirittura fosse stato preposto istituzionalmente a esercitare un siffatto potere, avrebbe meritato di essere messo alla porta con un elegante calcio nei posteriori. Conoscere la storia della pedagogia, analizzare e confrontare varie scelte nei processi d’insegnamento, è di un’importanza indiscutibile che soltanto un stolto potrebbe sottovalutare. Ma si passa il segno quando si pretende che è nel contesto di questa disciplina che debbono essere definiti i metodi e i contenuti dell’insegnamento e che il docente deve ridursi a semplice passacarte delle determinazioni della corporazione dei pedagogisti e di una tuttologia che pretende di metter bocca imperativamente su tutto.
Purtroppo questo è avvenuto nell’ultimo trentennio. La pedagogia è stata pensata come una “iperdisciplina” e “metadisciplina” che presiede alla regolazione di tutte le altre, il cui ruolo sarebbe addirittura sostitutivo dell’interazione disciplinare. Il pedagogismo è stato un fenomeno sviluppatosi soprattutto sul fronte “progressista” e “di sinistra” ma non deve stupire affatto che esso sia riuscito ad allargarsi ad un fronte più ampio e trasversale, come constatiamo ora. Difatti, cosa vi è di più attraente, comodo e gratificante sul piano del potere di una metadisciplina che, poiché comanda e dirige tutte le altre, si sottrae automaticamente ad ogni forma di controllo? Non a caso il prepotere del pedagogismo si è accompagnato a quello della docimologia, o scienza “oggettiva” della valutazione. L’aspetto delirante è che i paradigmi centrali di tale prepotere – e cioè che l’educazione sia una questione di metodologie didattiche e che possa esistere una scienza “oggettiva” della valutazione avente lo stesso rigore delle scienze esatte – tanto sono opinabili quanto sono stati invece presentati come verità al di sopra di qualsiasi possibile discussione o contestazione. Perché mai i “valutatori” debbono saper valutare meglio degli insegnanti e non si possono mettere in discussione sul terreno disciplinare certe loro assurde teorie? Perché una nozione (che reputo legittimamente ridicola) come quella di “misurazione della cultura” può essere tranquillamente enunciata in una zona metadisciplinare? E perché certe dottrine pedagogiche non possono essere vagliate sulla base dei loro esiti sul terreno disciplinare? Questa autoreferenzialità, abilmente insediatasi in alcune zone politico-amministrative, ha creato una casta di intoccabili che ha progressivamente espropriato gli insegnanti della loro funzione educativa e della funzione valutativa, riducendoli a semplici esecutori delle scelte decise nelle “commissioni”.
Peraltro, poiché queste scelte sono state il frutto delle idee di tuttologi privi di competenze specifiche, o dotati talora di competenze modeste, i risultati sono disastrosi e sono sotto gli occhi di tutti. Non vi è qui lo spazio per diffondersi nel merito. Ma sarei pronto a una sfida, documenti alla mano, per mostrare nel dettaglio quale scempio sia stato compiuto dell’insegnamento della matematica fin dalle elementari, riducendola a una disciplina altra da sé; nonché dello scempio compiuto dell’insegnamento della storia – ridotta a borborigmi sul tema dell’irreversibilità del tempo – e della geografia – ridotta a ossessive elucubrazioni sul tema astratto della spazialità.
Ben venga quindi questo passo del ministro Fioroni, in direzione della reintroduzione dei contenuti della matematica propriamente detta, incluso il coltivare le capacità di calcolo mentale, della grammatica, della geografia intesa come apprendimento dei luoghi dello spazio reale e della storia come narrazione di eventi realmente accaduti. Purché non si tratti di una semplice mossa polemica di natura politica a cui, dopo gli annunci, non segua nulla; o, peggio, segua qualche nuova commissione controllata di nuovo dalla stessa ideologia e dalle stesse persone che ci hanno portato al disastro. Come ha scritto il matematico francese (e Fields Medal) Laurent Lafforgue, «tutte queste persone hanno oggi uno scopo soltanto: scaricare le loro responsabilità e quindi mascherare con tutti i mezzi la realtà del disastro». Che prendano un po’ di riposo non potrà che far bene a tutti.
Nel nostro paese, sembra che tutti abbiano paura di pronunziare la parola “indietro” e che sia indecente non andare comunque “avanti”, verso il sol dell’avvenire, costi anche il precipitare in una scarpata. E tutti si riempiono la bocca di Sarkozy, ma non guardano a quale sia il nucleo del messaggio che – di nuovo, proprio oggi – egli manda sul tema dell’educazione e della scuola. È la rottura col “pedagogismo democratico”, figlio del sessantotto. Se si capirà che questa è la posta in gioco, qualcosa potrà cambiare. Altrimenti sarà il solito chiacchiericcio di “politique politicienne” mentre le termiti continueranno a fare il loro lavoro.
(Il Foglio, 6 settembre 2007)

martedì 4 settembre 2007

«Viva i cani, abbasso la cacca». Ecco il programma di Veltroni per l’Italia

È duro rientrare a Roma dopo aver trascorso le vacanze in località in cui è difficile scovare un pezzetto di carta per terra; in cui non esistono cestini per strada perché la spazzatura si raccoglie a casa e i turisti se la debbono portare via se non hanno un luogo (albergo o affittacamere) dove depositarla; in cui sulle strade carrozzabili si incontra spesso un signore che spazza con la scopa i bordi, casomai ci fosse una foglia secca di troppo. Che tristezza tornare a Roma, la lercia… L’anno scorso decidemmo con mia moglie che la soluzione più indolore era rientrare in città a testa alta. Ma, si badi bene, non in senso morale, ma in senso strettamente fisico. Guardando verso l’alto, o al massimo diritto davanti a te, vedi splendidi monumenti, bellissime chiese, cupole e campanili, l’inconfondibile colore dei pini che si assortisce perfettamente con quello delle rovine antiche. Insomma, Roma è una splendida città, non c’è che dire. Basta non guardare in basso. Però questo si può fare tutt’al più in automobile. A piedi, prima o poi bisogna guardare per terra, altrimenti si fa la fine di Talete. La leggenda dice che cadde in una buca perché camminava osservando il cielo. A Roma si è certi di finire più prosaicamente su una cacca di cane, magari dentro una buca.
Un paio di anni fa il “formidabile” sindaco di Roma Walter Veltroni decise di lanciare una campagna contro lo scempio che affligge i marciapiedi di Roma e lo fece dando una testimonianza del suo stile inconfondibile: fece affiggere sui muri della città un manifesto con la scritta “Viva i cani, abbasso la cacca”… È facile immaginare il successo di questa (non gratuita) iniziativa: neanche i più accaniti coprofili osarono uscire allo scoperto con dei cartelli inneggianti alla cacca. Però, cosa strana, i marciapiedi rimasero come prima. Quanto alle multe, neanche a parlarne! Veltroni “risolve” tutto con il consenso. Perché, come ha spiegato la sua ammiratrice Dacia Maraini, se non funziona il metodo del consenso, vuol dire che non c’è niente da fare. Insomma, se i padroni dei cani non si rassegnano ad essere civili, rassegnatevi a nuotare nella merda.
Dicevo che tornando a Roma dalle vacanze è bene guardare davanti o in alto. Ma senza esagerare. L’ideale è essere miopi e non mettere gli occhiali per percepire la fantastica geometria delle forme architettoniche sul cielo o le macchie di colore dei parchi senza guardare troppo i dettagli. Altrimenti, si rischia di vedere un signore che esce con una busta di plastica da un cespuglio: là dietro c’è un “villaggio” abusivo, con tanto di bagno all’aperto. D’altra parte, senza occhiali rischiate di farvi scippare da qualche turba di zingarelle o di incespicare sulle migliaia di tappeti o di bancarelle di fortuna che vendono di tutto, senza pagare le tasse naturalmente: il che è giusto, visto che i commercianti sono evasori fiscali.
Il centro ridotto a una movida ininterrotta in cui il diritto al sonno è definitivamente abolito, a un tappeto di spazzatura e bottiglie entro una nuvola di cattivi odori. Luoghi splendidi come Piazza Navona o Piazza di Spagna ridotti peggio di un suq, perché i suq sono luoghi di confusione ma ben organizzati al confronto. Feste, balli, urla, bottiglie spaccate, partite di pallone in piazza, cinema all’aperto dovunque anche all’università (dove poi si rubano i computer nelle facoltà), il tutto contrabbandato come cultura. A questo è ridotta la città eterna. Se questo è il modello con cui si intende rimettere in sesto il paese, stiamo freschi. Non basterà guardare in alto. Ci vorrà un pallone aerostatico.

Giorgio Israel (Tempi, 30 agosto 2007)

MATEMATICAMENTE ASINI

A me è stato insegnato che se, percorrendo una traccia in montagna, si finisce sul ciglio di un burrone è meglio tornare indietro. Pertanto, non trovo scandaloso che il ministro Fioroni, trovandosi invischiato nel pantano creato da quei baggiani che danno da credere che possa esistere una scienza oggettiva della valutazione (docimologia) sul modello delle scienze fisico-matematiche, voglia ripristinare in qualche forma gli esami di riparazione autunnali. Dispiace che Valentina Aprea cada vittima del fascino discreto dell’“avanti!” a tutti i costi, e dica che «è la prima volta nella storia che si sperimenta non un’innovazione ma una restaurazione». Ma quando mai? Dopo il 1968, in Francia, la leadership della matematica cavalcò l’ondata rinnovatrice proponendo una radicale riforma dell’insegnamento della matematica: “Abbasso Euclide!” fu il proclama, via la vecchia geometria per far spazio alle “mathématiques modernes”, formali e astratte. La rivoluzione vinse ma dopo alcuni anni ci si rese conto del disastro: ragazzi che conoscevano gli elementi della teoria degli insiemi e dei gruppi non erano in grado di risolvere un’equazione algebrica di primo grado. E allora, indietro tutta, per rimettere sugli scudi il vecchio Euclide. Per giunta, pochi mesi fa, rendendosi conto che non bastava, si è deciso di introdurre il calcolo numerico mentale negli asili, fra le proteste dei sindacati.
Eppure, in Francia, il malcontento è forte, perché nelle pieghe di questi cambiamenti si sono insinuati i pedagogisti “progressisti”, come ha denunciato vivacemente il matematico Laurent Lafforgue, che interverrà al prossimo Meeting di Rimini. Egli ha denunciato le «politiche ispirate da un’ideologia che non attribuisce valore al sapere», bensì «a teorie pedagogiche deliranti», alla «teoria dell’allievo “al centro del sistema” e che deve “costruire lui stesso i suoi saperi”».
Da noi però tutti sono soggetti al fascino discreto del pedagogismo progressista. Testardamente continuiamo ad affidarci agli stessi medici che hanno condotto al disastro, seguendo il principio: se 3 grammi di antibiotico non producono miglioramenti prendine 6, se la febbre aumenta prendine 12, se aumenta ancora prendine 24, e così via. Molto razionale.
Questo antibiotico, questi medici sono gli pseudoscienziati della pedagogia, della valutazione “oggettiva” e della “didattica” – termine infelice che andrebbe abolito per decreto per “restaurare” quello di “insegnamento”; i quali, se producono guasti in Francia, in Italia pare che siano una casta di intoccabili di cui nessuna formazione politica riesce a fare a meno. È deprimente quindi che ai propositi di Fioroni – accusato di aver interrotto «misure virtuose di recupero» – si risponda a colpi di Larsa (Laboratori di recupero, sviluppo e apprendimento) e di valutazioni dell’Invalsi da sovrapporre a quelle dei professori interni. Qui, da trent’anni, di virtuoso si vede ben poco e si rischia di finire direttamente nel burrone continuando a incaponirsi negli stessi errori: svilire ulteriormente la figura dell’insegnante, ridotto a passacarte delle prescrizioni dei “didatti” e soggetto alla supervalutazione dei docimologi (che chissà perché valuterebbero meglio); continuare con l’ossessione dei “laboratori”, altro termine di cui andrebbe proscritto l’uso, salvo che in fisica, in chimica e in biologia, perché riflette la nefasta visione della scuola come terreno di sperimentazione delle teorie degli scienziati del nulla anziché come luogo in cui si apprende.
E poi vi è l’idea, di stampo sovietico, secondo cui la scuola deve garantire a tutti lo stesso risultato. In pochi riescono a sottrarsi al mantra “de sinistra” per cui, se uno dice a uno studente che il suo rendimento è insufficiente, è un «fallimento della scuola» e che se uno è ignorante a giugno e preparato a settembre è la «certificazione dell’inutilità della scuola». Non passa neppure per la testa di questi pozzi di sapienza che esistono anche i nullafacenti che, nell’assenza totale di sanzioni, possono fare impunemente quel più gli garba, tanto vanno avanti lo stesso (il che induce i volenterosi a chiedersi: «Ma chi me lo fa fare di studiare?»). Nessuna soluzione sensata può trascurare l’esistenza dei nullafacenti e i modi efficaci di sanzionarli. Altrimenti, ci si risparmino i discorsi sul valore del merito, pilastro della società, “vinca il migliore” e altri fumi di retorica.
Ma soprattutto: c’è davvero qualcuno che pensa seriamente che la catastrofe in cui si trova il sistema scolastico italiano si possa risolvere con tecniche di gestione, col managerialismo, cianciando l’insensata formula della “scuola come impresa”, senza mai parlare di contenuti, e delegandone la definizione alla corporazione degli scienziati del nulla? In Italia, un autentico dibattito sui contenuti dell’insegnamento non c’è da decenni, salvo ripetere che bisognava sostituire la riforma di Gentile, una delle migliori riforme scolastiche del Novecento, come riconoscono quasi tutti, sottovoce per non farsi sbertucciare dal pedagogismo progressista. Certo, qualcosa occorreva pur cambiare, salvo che affidare questo compito a personaggi di dubbie capacità.
Veniamo al caso della matematica che ha occupato le prime pagine dei giornali. La stragrande maggioranza dei matematici italiani professa un supremo disprezzo per la didattica della matematica, di cui sopprimerebbe senza rimpianti il settore disciplinare universitario. Eppure, ha preferito, pur di non farsi distrarre dagli interessi e dalle ricerche preferiti, delegare ai “didatti” il compito ingrato di occuparsi dei progetti di riforma che si succedono da un trentennio. Poi, ogni tanto, c’è qualcuno che salta su inorridito. Ricordo un collega che si levò scandalizzato per lamentare che i suoi figli, al termine del liceo, non sapevano quasi far di conto e chiedere come si era potuti giungere a tanto. O quei colleghi che, dopo aver udito da un mio intervento come venivano introdotti certi concetti geometrici nella scuola, si guardarono stupefatti chiedendosi: «Come è potuto succedere tutto questo, perché la nostra comunità non ne ha mai discusso e dove eravamo?». Già, cari colleghi, dove eravamo?
Da noi non ha corso lo stile ghigliottinesco della Francia. Così, da trent’anni un’orda di metodiche e silenziose termiti demolisce pezzo a pezzo un sistema di insegnamento della matematica che, oltre ai difetti, aveva indiscutibili pregi. Gentile o non Gentile, era un sistema cui aveva contribuito un grande matematico e filosofo come Federigo Enriques, i cui testi scolastici hanno formato generazioni di italiani. La storia di questa demolizione non è roba da poche pagine – ne dirò qualcosa in un libro in preparazione – ma chiunque può ricostruirla leggendo i programmi di riforma dagli anni ’80 in poi. Non è senza un brivido che si rileggono oggi i sinistri propositi enunciati nel DPR del 1985. L’insegnamento della matematica – si diceva – richiede l’acquisizione di concetti e strutture astratte ma «la vasta esperienza compiuta ha dimostrato che non è possibile giungere all’astrazione matematica senza percorrere un lungo itinerario che collega l’osservazione della realtà, l’attività di matematizzazione, la risoluzione dei problemi, la conquista dei primi livelli di formalizzazione. La più recente ricerca didattica, attraverso un’attenta analisi dei processi cognitivi in cui si articola l’apprendimento della matematica, ne ha rilevato la grande complessità, la gradualità di crescita e linee di sviluppo non univoche». Gli scienziati del nulla, dopo aver vantato le loro “ricerche” e aver enunciato una serie di sciocchezze (ma chi può dire seriamente che la matematica derivi dall’osservazione della realtà?) e di parole vuote (che senso ha parlare genericamente di attività di matematizzazione?), annunciano una sensazionale scoperta: il processo che va dall’osservazione della realtà alle prime formalizzazioni è lungo, molto lungo e l’apprendimento della matematica – pensate un po’ – è “complesso”, cresce in modo “graduale” e – bel problema – non è “univoco”. Insomma, per arrivare dalla vista di una pietra a un’equazione bisogna aspettare tanto e poi tanto, andarci piano e seguire percorsi differenziati (una scuola a testa?). Il guaio è che questa pensata (che, per lo sforzo, sarà costata la calvizie ai suoi autori) è stata presa sul serio: dopo trent’anni stiamo ancora qui, fermi all’inizio del “lungo itinerario”. Sembrava ragionevole fare un passo oltre Euclide e acquisire almeno la geometria cartesiana. Invece, abbiamo ricominciato daccapo da Aristotele e dopo trent’anni siamo ancora fermi lì. E non crediate che lo dica per scherzo.
Che le termiti del pedagogismo democratico abbiamo lavorato a fondo, lo compresi il giorno in cui udii una maestra di scuola materna mostrare trionfante lo scarabocchio di un bambino: «Guardi come emerge la corporeità spaziale, come si esprime la topologia del sopra e del sotto, del davanti e del dietro». Non osai dire che la topologia non c’entrava un fico secco, tanto poco appariva intimidita dalla presenza di un professore di matematica: da qualche parte doveva aver tratto la sicumera per fare un uso di quel termine di cui non capiva un acca. Incuriosito, ho constatato il dilagare delle idiozie sulla topologia e la spazialità fin dalla scuola materna: il marcio inizia dalla base e per questo è devastante. Quando mio figlio mi disse che aveva avuto la prima lezione di geografia (in prima elementare) credetti che gli avessero messo davanti un mappamondo. Che ingenuità! Non sapevo che l’umanità era uscita dalle caverne. Gli avevano chiesto di disegnare quel che vedeva dalla finestra: disegnò il muro della mensa. Poi, gli proposero la figura di un piatto con una mela da cui usciva un verme. Doveva dire se il verme era dentro o fuori la mela, la mela sopra o sotto il piatto, ecc. Ma che c’entra con la geografia? direte. Non siate trogloditi! Studiare geografia significa assimilare la “spazialità”, capire il sotto e il sopra, il dentro e il fuori – così come studiare la storia significa assimilare la temporalità, e non parlare degli antichi Romani, come si faceva ai tempi di Checco e Nina. Sono cose difficili che richiedono un lungo approfondimento: il tormentone dura per quasi tutte le elementari e quando si parlerà di geografia in senso tradizionale sarà per definire in termini generali cos’è un deserto o una tundra. Così la geometria ha invaso la geografia e l’ha svuotata di concretezza. In cambio, la geometria è stata svuotata di astrazione e ridotta a esperienza concreta della spazialità: proprio quel livello in cui non è pensabile la matematica… Dicono i programmi che ci si introduce allo studio della geometria apprendendo che cos’è la «collocazione di oggetti in un ambiente, avendo come riferimento se stessi, persone, oggetti». Ma definire la spazialità mediante la collocazione di oggetti è coerente, più che con la nozione moderna di spazio, con quella di “luogo” aristotelico in cui lo spazio è soltanto l’aggregato di corpi materiali. L’insistenza sull’esplorazione soggettiva della spazialità potrebbe far pensare che i nostri teorici siano fenomenologi husserliani. Troppo onore. Husserl avrebbe spiegato loro che, per tale via, non si arriva mai alla concezione dello spazio come un contenitore vuoto definito indipendentemente da ogni presenza soggettiva, che è caratteristica della matematica moderna.
È istruttivo leggere la definizione che si da della matematica nelle “pagelle” delle elementari – ma c’è bisogno di definire una materia in una pagella? – in conformità ai programmi ministeriali. Nella scuola primaria la matematica consiste nell’«osservare oggetti e fenomeni e individuare grandezze misurabili, effettuare misure con strumenti elementari e classificare oggetti in base a una proprietà, raccogliere dati e informazioni e saperli organizzare». Tutte cose che con la matematica non c’entrano un fico secco, neanche in un’ipotetica fase intuitiva preliminare e che, casomai, definiscono l’oggetto della fisica. Come può funzionare una scuola in cui chi definisce materie e programmi ha un’idea della matematica che lo rende meritevole di un cappello d’asino?
È dalle elementari che inizia il disastro. Il resto è un corollario: migliaia di studenti fermi sul “lungo itinerario”, mentre avrebbero potuto – senza concedere nulla ai furori delle “mathématiques modernes” – accedere rapidamente all’astrazione e al calcolo come decine di generazioni prima di loro. Dicono che i bambini hanno bisogno di concretezza e, per insegnargli a contare, li bombardano di insiemi di mele e fiori. Ma chi abbia visto un bambino in vita sua sa con quanta facilità possa passare dal contare con gli oggetti al calcolo mentale e quanto ciò lo diverta. Posto di fronte al compito di aggiungere 2 a 2 e così via, costruendo la successione 2, 4, 6, 8, … mio figlio si arrestava a 20. «Perché mai?» ho chiesto. «Perché, la maestra ha detto che, in prima, oltre al 20 non si va». Difatti, “studiavano” soltanto due o tre numeri al mese… L’ho invitato a infischiarsene e allora non finiva più, anzi ha posto una bella domanda: «Esistono “tutti” i numeri?». Fate la prova e vedrete se per un bambino qualsiasi sia più gratificante cincischiare per anni sul “sotto” e il “sopra” o mostrare di conoscere la tavola pitagorica.
Secondo Giulio Giorello la colpa è di coloro che nei talk show si vantano di non saper contare. È vero che si tratta di uno snobismo stucchevole, ma che dire di quei fessi che fanno credere che si possano scrivere le equazioni dell’amore o calcolare gli indici di felicità? Dice Giorello che bisogna rendere la matematica più appetibile non riducendola a un’arida sequenza di teoremi. S’informi dei programmi. Più terra terra di così… Del resto, i pedagogisti democratici ci hanno pensato a rendere la matematica appetibile seconda la formula zapaterista della “matematica del cittadino”. Nella riforma del 2004 è dato leggere la seguente impagabile prosa: «Un obbiettivo specifico di apprendimento di matematica è, e deve essere sempre, allo stesso tempo, non solo ricco di risonanze di natura linguistica, storica, espressiva, estetica, motoria, sociale, morale e religiosa, ma anche lievitare comportamenti personali adeguati alla Convivenza civile». Scusate la rozzezza, ma che vuol dire? Che, d’ora in poi, mentre si risolve un’equazione differenziale si deve far ginnastica, pregare o pagare le tasse, e viceversa? Intanto i prodotti di queste trombonate sono persone che conoscono soltanto la matematica che serve a supplire all’italiano che non conoscono: + al posto di “più” e x al posto di “per”.
Secondo Odifreddi, la colpa è, manco a dirlo, della Chiesa. Dovrebbe chiedersi se non sia anche colpa sua, quando lascia credere che la matematica serva a distruggere la religione e il capitalismo e, a tal fine, propala di tutto. Come quando scrisse che von Neumann aveva formulato un modello matematico per massimizzare il numero dei morti a Hiroshima. Gli contestai che era una panzana e mi rispose di averla presa da un libro e che, se era una balla, non era colpa sua, le fonti c’erano: esempio preclaro di rigore scientifico. Odifreddi ha molti seguaci ma molti altri dicono che se la matematica conduce a quel modo di pensare allora è una disciplina odiosa. Da qualunque parte lo si guardi il risultato è pessimo. E sbagliano quei matematici che chiudono un occhio perché credono che l’importante sia che si faccia pubblicità alla matematica, non importa come.
Lasciamo perdere gli snob dei talk show, la Chiesa e i nemici della scienza in agguato e guardiamo alle vere responsabilità: in primo luogo a quelle di chi da trent’anni sta demolendo il sistema dell’istruzione per “sperimentare” teorie pedagogiche sgangherate. Senza dimenticare le responsabilità di chi fa una divulgazione strumentale a tesi politiche e di chi crede di risolvere il disastro facendo marketing presso i giovani a suon di feste e festival in cui si contrabbanda lo studio come divertimento. Infine, è il momento che la comunità matematica dimostri di esistere e di sapersi ricollegare alle sue migliori tradizioni.

Giorgio Israel

(Il Foglio, 4 agosto 2007).