mercoledì 25 agosto 2010

E adesso pure la bioetica...


La notizia che il Comitato Nazionale per la bioetica ha siglato un protocollo d’intesa con il Ministero dell’Istruzione per l’insegnamento della bioetica non è nuova, risale a qualche settimana fa. Ma siccome il percorso è tutto da definire e da settembre inizierà i suoi lavori un tavolo che dovrà definire le modalità di tale insegnamento, è opportuno iniziare a discuterne. Dopo aver visto a cosa è approdata l’introduzione della disciplina “bioetica” in alcune scuole europee, è legittimo paventare il rischio che questa materia diventi la testa d’ariete di un’etica laicista volta a indottrinare le nuove generazioni.
Non trovo affatto entusiasmante l’introduzione nella scuola di questa come di altre materie in nome del principio di tenersi al passo con i tempi. Si assiste a un curioso paradosso. Mentre si sviluppa un attacco frontale alla struttura disciplinare delle scuola, le uniche discipline che vengono ammesse, a discapito di quelle tradizionali, sono le discipline volte a educare alla cittadinanza, alle relazioni sociali ed affettive, ed ora alla bioetica. Mentre discipline tradizionali come la matematica, la storia o la geografia sono chiamate pagare un prezzo sull’altare di una sgangherata visione “olistica” dell’apprendimento, all’educazione alla cittadinanza o alla bioetica si vuol riservare la massima dignità e autonomia disciplinare.
In una nota per molti versi condivisibile, Ilaria Nava (sul sito web PiùVoce) ha chiesto che alla bioetica sia accordato la statuto di disciplina autonoma con un proprio metodo, accusando la tendenze laiciste di volerle negare tale diritto. In questa negazione scorge la radice del rischio «già in atto in altri Paesi, come Spagna e Inghilterra, dove in nome di una presunta neutralità etica che non è mai esistita e mai esisterà, parlare di “padre o madre” non è più politically correct, ed è visto come qualcosa di profondamente lesivo della laicità dello Stato». Perfettamente d’accordo sull’allarme di fronte a questo rischio, ma non è evidente che esso derivi dalla negazione alla bioetica di uno statuto autonomo. Al contrario. Proviamo a riflettere. Come, chi e in quale sede definirà lo statuto della bioetica e il suo metodo? Chi conosca la storia della scienza e della sua metodologia sa che è illusorio parlare di statuto e di metodo proprio persino nel caso della fisica o della matematica: si sono confrontate storicamente ed esistono tuttora opinioni diversissime al riguardo e la pretesa di definire lo statuto delle discipline scientifiche in termini apodittici è un’impresa senza speranza. Figuriamoci per la bioetica! Nel presentare le tematiche biologiche, per non dire le tematiche etiche, è inevitabile che siano presenti visioni a priori (che si tratti di metafisiche influenti o di visioni religiose) che è illusorio pensare di trasferire a una fase successiva a una disamina preliminare puramente “obbiettiva”. L’intenzione di pensare la bioetica non come una disciplina assertiva ma come una metodologia argomentativa che offre gli strumenti per pensare in modo rigoroso e obbiettivo i problemi posti dall’intervento sempre più marcato della scienza nella vita delle persone, è ottima, ma è velleitaria.  Se ci si mette sulla via accidentata di definire lo statuto della disciplina in termini “obbiettivi” e “indipendenti”, l’unica autorità che resterà in campo sarà, per l’appunto, quella dei presunti “laici”, intesi come persone non influenzate da visioni metafisiche o religiose e ispirati a logiche puramente “scientifiche”. Ma persone di quel genere non esistono. Si rischia di cadere in un’illusione oggettivistica, di essere preda di uno scientismo positivista che è il cavallo di Troia dell’etica laicista.
L’equivoco e i rischi nascono dallo stravolgimento della funzione stessa della scuola. Da un lato vi è la visione secondo cui il ruolo della scuola nella formazione del cittadino consiste nel fornire conoscenza – conoscenza in quanto strumento di libertà – mentre la formazione etica non è confinata al mondo scolastico, bensì compete soprattutto alla famiglia e alle relazioni sociali. Sta al soggetto, munito della dote di conoscenze fornitegli dal sistema dell’istruzione, decidere liberamente cosa fare di sé stesso. La concezione alternativa consiste nello svuotare la famiglia e persino la società del loro ruolo di formazione etica e morale, trasferendo tutto alla scuola: la formazione del cittadino viene così delegata al sistema dell’istruzione mediante un complesso di “materie” o “discipline” che trasmettono i principi etici, relazionali e della convivenza sociale. È una concezione tipica di uno stato totalitario che oggi assume i connotati del laicismo di stato e di cui è esempio tipico lo zapaterismo. Sorprende che molti non vedano come la statalizzazione di funzioni proprie della famiglia sia la via maestra che conduce ad annullarne il ruolo e, di conseguenza, la distinzione dei ruoli al suo interno.
Occorre fornire ai giovani gli strumenti scientifici e la capacità di riflettere sui temi etici e morali? D’accordo, ma perché non dovrebbe bastare allo scopo una buona conoscenza della tematica biologica e un buon insegnamento filosofico? Abbiamo nel nostro arsenale culturale secoli di riflessioni filosofiche mille volte più ricche di certi penosi balbettamenti. Meglio rivalutare la filosofia e gettare alle ortiche certa bioetica da semianalfabeti.
Il vero problema su cui discutere non è lo statuto della bioetica – nessuno deve porre limiti allo sviluppo del pensiero – quanto l’opportunità di introdurre simili discipline nella scuola. È stato inopportuno introdurre l’educazione alla cittadinanza ed è stato uno sproposito fortunatamente abortito quello di introdurre con la legge Moratti l’educazione all’affettività. È davvero paradossale che una maggioranza che con lo zapaterismo dichiara di non aver nulla a che spartire commetta ogni tanto simili passi falsi. E peggio ancora che li commetta chi è ispirato da una visione religiosa.
(Il Foglio, agosto 2010)

Andare in pensione a 65 anni


Davvero strano questo dibattito sull’università. Si parla fino alla nausea di “merito” e della necessità di rendere meno statalista la gestione dell’università e poi spunta fuori niente meno che la proposta di mandare tutti in pensione a 65 anni (anche se nel testo approvato al Senato è stato accantonata, ma vedremo alla Camera…). Merito e liberalismo vorrebbero che la scelta di tenere in servizio un docente sia fatta sulla base di considerazioni di… merito. Paul Samuelson ha continuato a frequentare l’università fino a novant’anni: aveva qualcosa da insegnare ai giovani. Viceversa perché un nullafacente dovrebbe restare in servizio fino a scadenza di legge? Dicono che in Europa vige quasi ovunque il limite dei 65 anni: quando fa comodo le declamate università statunitensi vengono ignorate a profitto di università europee in crisi che, quando non lo erano, non avevano di fatto limiti di età, visto che 75 anni di un tempo equivalevano a novanta di oggi. Si è detto infelicemente che a 65 anni un docente «ha già avuto tanto». Certo, un nullafacente o incapace ha avuto fin troppo, ma un docente di valore ha «dato», e fin troppo rispetto a quel che ha ricevuto.
Mi scuso se, al pari di Michele Salvati, la butto sul personale. Ho compiuto 65 anni da poco: un classico esemplare da rottamare. Sono stato assunto in ruolo dopo concorso a 25 anni, quando non c’era gerontocrazia. Debbo togliere il disturbo? Non c’è problema: i 40 anni di servizio mi garantiscono il massimo pensionistico. Per il resto, che abbia pubblicato circa 200 lavori e 25 libri e superi di quasi 15 volte il minimo richiesto per la prossima valutazione – 2 lavori nel quadriennio 2004-2008 – è irrilevante. I corsi che tengo li farà qualcun altro, che sarà certamente migliore in quanto più giovane. Forse è una buona idea e ringrazio di avermela suggerita: avrò più tempo per scrivere altri libri e articoli.
Ma se, al pari di tanti altri colleghi, così risolverò la mia vicenda personale, continuo a pensare che la proposta dei 65 anni sia insana. È una sciocchezza dell’identica natura delle assunzioni di massa ope legis iniziate negli anni settanta. Allora si assunsero migliaia di persone indipendentemente dai loro meriti. Ora si vogliono sostituire migliaia di persone indipendentemente dal merito.
Non è strano che una certa sinistra statalista riproponga indefessamente assunzioni di massa (giovani, precari), mentre è sorprendente che lo faccia una forza che si proclama meritocratica e liberista come la Confindustria. E invece non è strano per niente. Il nostro paese ha un’antica tradizione di industria assistita che su di essa ha costruito alleanze a sinistra. Spender quattrini per fondare università private o sostenere quelle pubbliche, alla maniera statunitense? Oibò! Meglio impadronirsi di quelle statali, mediante consigli di amministrazione dominati da manager esterni di “indiscussa professionalità” (non si sa da chi certificata). Poi si farà un bel taglio alle ricerche inutili, quelle “di base” – non soltanto, ovviamente, quelle umanistiche, ma anche fisica teorica, matematica pura e altre astruserie – per rafforzare la ricerca volta all’innovazione tecnologica dell’industria. Il tutto assumendo un cospicuo numero di ricercatori, magari provenienti da industrie private. Naturalmente, a ciò è funzionale un radicale ricambio del corpo docente che mandi in soffitta i vecchi professori intrisi di nostalgie “culturali”. E l’impresa assistita non manca di loquaci avvocati, anche se fa un po’ ridere che la proposta dei 65 anni venga sostenuta con forza da professori di un’università privata dove si può restare in servizio fino alla tomba. Liberismo e meritocrazia all’amatriciana.

(Il Foglio, agosto 2010)

lunedì 2 agosto 2010

Imposture pseudoscientifiche


«Quando giunsi all'Institute of Advanced Study di Princeton – raccontava nel 1964 il premio Nobel per la medicina Albert Szent-Györgyi – speravo che gomito a gomito con quei grandi scienziati atomisti e matematici avrei appreso qualcosa sulla “vita”. Appena dissi loro che in ogni sistema vivente vi sono più di due elettroni, i fisici smisero di parlarmi. Con tutti i loro calcolatori, non potevano neppure dire cosa avrebbe fatto il terzo elettrone».
Szent-Györgyi non faceva che descrivere in modo sarcastico la consapevolezza dei fisico-matematici dei limiti di previsione della loro disciplina. Fin dalla fine dell’Ottocento è noto che in meccanica classica non si può prevedere in modo esatto la dinamica del moto di più di due corpi celesti. Non solo. Per fare questa previsione occorre conoscere i dati che definiscono lo stato iniziale del sistema. Ma può accadere che una perturbazione anche minima di quei dati conduca a prevedere un’evoluzione completamente diversa e, siccome la determinazione dei dati è inevitabilmente soggetta a errori, la previsione sul medio-lungo periodo è inattendibile. Poi ci si è resi conto che anche i modelli matematici usati per prevedere i fenomeni atmosferici sono soggetti a questa “patologia”, il che spiega come mai le previsioni meteorologiche sul medio e lungo periodo siano inattendibili. Ma anche nel caso del sistema solare si è calcolato che oltre i 100.000 anni le previsioni perdono valore.
Un altro esempio. Fin dal Settecento si è tentato di dimostrare che il sistema solare è “stabile”, nel senso che mai potrà accadere che uno dei suoi pianeti scappi via perdendosi nell’universo oppure che due pianeti entrino in collisione. Ebbene, una dimostrazione completa dell’impossibilità di simili spiacevoli eventi non esiste, salvo un risultato in questa direzione, un teorema estremamente complesso alla cui dimostrazione ha contribuito in modo decisivo Vladimir I. Arnold, uno dei massimi matematici contemporanei. Mal visto dal regime sovietico, dopo la caduta del Muro si trasferì a Parigi, dove è morto di recente, quasi ignorato dai mezzi d’informazione.
Insomma, quanto precede per dire che sono noti i limiti di previsione nel campo dei fenomeni fisici. Eppure in questo contesto la situazione è relativamente “semplice”: Giove non cade in crisi depressive per la morte di una moglie che non ha, le nuvole non divorziano, non si è mai vista una pietra far figli e Venere (il pianeta) non va incontro alla menopausa. Ciononostante, ci si racconta quotidianamente che, in contesti enormemente più complessi e soggetti a influssi esterni ed evoluzioni interne imprevedibili, gli scienziati sono in grado di prevedere tutto. Un giorno si annuncia la scoperta di un metodo con cui determinare la data esatta in cui una donna avrà la menopausa. Un altro giorno si annuncia la scoperta di un metodo con cui determinare chi sarà centenario, oppure individuare chi avrà il mal di schiena. Quanto alla felicità, non so se sia noto che il suo decorso è assolutamente determinato: secondo una vasta letteratura “scientifica” la felicità è “convessa”, U-shaped, a forma di U. In parole povere, sarete felici all’inizio e alla fine, mentre in mezzo vedrete il peggio.
È fin troppo facile, quasi maramaldesco, infierire sulle assurdità che inficiano queste “previsioni”.  È poco serio fare previsioni sulla data d’inizio della menopausa di una donna, indipendentemente dal fatto che costei si sposi oppure no, che abbia figli e quanti, che subisca aborti, che la sua vita sia felice oppure no, che abbia altre malattie e vada incontro a eventi che, come questi, possono avere influssi determinanti sulle sue funzioni ormonali. Si tratta di esercizi inutili, e anche poco commendevoli, se servono a fabbricare credenziali di produttività scientifica. E che senso ha fare previsioni circa il futuro mal di schiena di una persona indipendentemente dalle sue abitudini di vita – se sarà sedentario oppure no, se farà il mestiere del sarto o quello del taglialegna – e dalla sua inclinazione a “somatizzare” i dispiaceri della vita? È fin troppo facile, ripeto, andare alla ricerca dei fattori perturbativi che rendono queste previsioni senza senso, inutili, fuorvianti, e colpevoli di diffondere un’immagine mitica e magica della scienza.
Sappiamo bene qual è l’autodifesa. Si proclama di voler fornire previsioni circa il futuro di un individuo sulla base della sua struttura genetica indipendentemente dai fattori perturbativi del tipo di quelli sopra descritti. Questo sarebbe conforme al metodo scientifico della fisica galileiana. Occorre “difalcare gli impedimenti”, diceva Galileo, ovvero descrivere il moto dei corpi prescindendo dall’attrito e da caratteristiche particolari e inessenziali, come il colore. Il piccolo dettaglio è che in fisica il metodo funziona, perché gli “impedimenti” sono effettivamente marginali: e quando non lo sono si sa spesso come tenerne conto. Invece qui non funziona perché i fattori marginali sono per lo più essenziali, e molto spesso persino predominanti. La predisposizione genetica è uno dei tanti elementi determinanti, ma non è né l’unico né il principale.
Ma anche se si potesse considerare l’individuo come un corpo isolato e considerare la sua evoluzione in modo puramente interno, il ragionamento che è alla base di quelle previsioni è viziato alla radice. Difatti, esso si basa sul principio secondo cui “tutto è genetico”. Ma questo principio è falso: lo hanno mostrato tutte le scoperte e le acquisizioni delle genetica contemporanea, a partire dal successo della clonazione degli animali. Eppure questa premessa “scientificamente” falsa viene data continuamente per vera: altrimenti bisognerebbe ammettere che tutte quelle “previsioni” non sono altro che osservazioni di importanza marginale.
Inutile dire che la colpa di questa disinformazione non è dei mezzi d’informazione ma degli pseudo-scienziati che producono una valanga di notizie sensazionali di fronte alle quali è difficile destreggiarsi. Fa quasi pena vedere un giornale riportare con clamore la notizia che si nasce centenari e poi commentarla spiegando che i centenari abbondano in Sardegna in virtù dei vantaggi dell’ambiente rurale e a Trieste per il buon sistema di welfare. Ma non era una faccenda puramente genetica?
Ora leggiamo che uno scienziato ha scoperto come andare indietro e avanti nel tempo. Non si trova neppure la forza per avanzare le cento osservazioni e riserve sul modo avventuroso con cui vengono manipolate questioni tanto sottili. E anche qui fa pena il povero giornalista costretto addirittura a riferire che questa scoperta permetterebbe di risolvere uno dei problemi più ostici dell’ultimo secolo scientifico: la conciliazione tra relatività einsteiniana e meccanica quantistica.
Non stupisce che certi “scienziati” si comportino così, annunciando grandi “scoperte” e “risolvendo” problemi epocali sulla pubblica piazza. Sono della stoffa di coloro che annunciarono di essere prossimi alla scoperta del vaccino per l’Aids. Sono passati dieci anni. Qualcuno ha visto quel vaccino? Anzi, si è ammesso a denti stretti che realizzarlo era teoricamente impossibile. Nel frattempo, c’è chi ha ottenuto notorietà e quattrini.
Povero Arnold. Dopo aver dovuto rinunciare alla medaglia Fields per l’opposizione del regime sovietico viene ignorato pure dopo la morte, mentre i chiassosi scopritori di pietre filosofali assurgono agli onori delle cronache. E poi c’è chi straparla di cultura scientifica e, invece di rimboccarsi le maniche a divulgare le scoperte di un vero scienziato, propaganda come “scienza” queste sceneggiate.

(Il Giornale, 30 luglio 2010)