sabato 22 novembre 2008

Un articolo per il mensile ebraico Shalom

La copertina di Shalom di Ottobre (“La nuova riforma scolastica e il modello educativo ebraico”) dietro cui vi sono solo giudizi negativi dei provvedimenti del governo in tema di scuola, nonché l’aspro attacco contenuto nel “giornale per i giovani”, potrebbero far credere che il mondo ebraico sia schierato compattamente contro tali provvedimenti in nome di una loro incompatibilità con la visione ebraica dell’educazione. Tutto ciò è privo del minimo fondamento.
«È semplice smontare una scuola che funziona» dichiara Clotilde Pontecorvo, riproponendo il consunto slogan di una scuola primaria italiana tra le migliori del mondo. Lo era, non lo è più. La scuola elementare italiana, di cui i disinformati vantano l’ininterrotta eccellenza da più di mezzo secolo, è in realtà il segmento scolastico più rivoluzionato dal 1985 in poi. Oggi i test parlano di drammatiche carenze matematiche e linguistiche dei nostri adolescenti. È ragionevole pensare che chi avrebbe appreso perfettamente a leggere, scrivere e far di conto nelle primarie diventi improvvisamente un semianalfabeta incapace dei calcoli più elementari per sola colpa delle scuole secondarie? Non è ragionevole. Difatti, i test Ocse favorevoli alle nostre scuole primarie riguardano soltanto l’impiego di risorse, in cui primeggiamo per via delle spese per stipendi (numerosi e miseri), mentre i test che valutano gli apprendimenti (Timss e Pirls) sono molto parziali e indicano comunque un cattivo livello per la matematica e le scienze (sedicesimo posto su 25!).
Le riforme dal 1985 e l’introduzione del maestro plurimo – un’innovazione che è una singolarità tutta italiana, dettata dall’esigenza di assumere precari, ovvero dall’uso deleterio della scuola come ammortizzatore sociale – hanno prodotto una grottesca moltiplicazione delle materie e delle attività, in un appiattimento generale che pone le lezioni di matematica allo stesso livello di quelle di ceramica. Un educatore serio deve prestare attenzione alle proteste dei maestri che sono sommersi dalla miriade di progetti inclusi nei famigerati POF (piani di offerta formativa): mostre, teatro, canti, balli, progetti “voce che canta” o “voce che parla”, interventi psicologici; oltre alla pioggia corsi di aggiornamento per l’autoapprendimento, la sicurezza, la prevenzione incendi, la privacy, e le riunioni per la pianificazione didattica. Come ha scritto di recente una maestra, «è concesso di fare tutto (animatore, ballerino, artista, vigile del fuoco, agente della sicurezza, crocerossina, occultatore dell’ignoranza degli alunni), tutto tranne l’insegnante». E non è certamente un’opinione isolata! In questa sagra caotica le materie basilari vanno a farsi benedire e non stupisce che gli obbiettivi di apprendimento della primaria italiana facciano pietà rispetto a quelli della scuola indiana (in cui le tabelline vengono apprese entro la fine delle scuole materne mentre in Italia soltanto alla fine della terza elementare).
La nuova scuola primaria italiana è la realizzazione di un’ideologia pedagogica i cui capisaldi possono essere così riassunti. La pedagogia non è un’arte bensì una scienza rigorosa ed esatta al pari delle scienze fisico-matematiche e che deve seguire regole codificate (è una visione che deriva dalle concezioni di John Dewey). Quel che conta non è tanto ciò che si apprende quanto il metodo, ovvero l’“apprendere ad apprendere”. Poiché allo studente non vanno trasmesse conoscenze, bensì la capacità di apprendere, l’insegnante deve trasformarsi in “facilitatore” del processo di autoapprendimento. Inutile dire che l’unico che conserva il diritto di “insegnare” in modo trasmissivo (ex-cathedra) è il pedagogista…
Da questa visione discendono varie conseguenze. In primo luogo, la svalutazione delle conoscenze a vantaggio delle “competenze”, in nome dell’impostazione metodologica della scuola. Poco importa quanto gli studenti sappiano. Importa quel che sanno fare. Come se fosse possibile apprendere un metodo senza costruirlo su contenuti. È istruttivo leggere i programmi (o indicazioni nazionali) che sono frutto di queste teorie, le quali hanno dominato incontrastate durante tutti gli ultimi ministeri, da Berlinguer a Moratti a Fioroni. La matematica è vista come una disciplina empirica, e i bambini debbono apprenderla attraverso assurde pratiche di disegni, colori e manualità che deprimono lo sviluppo delle capacità di calcolo mentale. La storia è intesa come lo studio della nozione astratta di «temporalità». Il bambino è sottoposto per anni alla tortura del «riconoscimento delle relazioni di successione e contemporaneità», dei «cicli temporali» (dando per ovvio che la storia si sviluppi per cicli!), delle «permanenze». Gli si propone di «rappresentare» i pochissimi fatti di storia reale appresi «mediante grafismi, racconti orali e disegni» per poi addirittura comporre piccoli testi di storia. La geografia è intesa come lo studio della spazialità, del «sopra, sotto, avanti, dietro, sinistra, destra» (ridicolmente definiti da qualche ignorante «organizzatori topologici»), per arrivare addirittura a «costruire le proprie geografie» (sic!). Come stupirsi se da una simile accozzaglia di idee tanto sgangherate quanto pretenziose escano bambini con insufficienze conoscitive drammatiche? Tutto ciò è conseguenza della scelta deliberata, per dirla con Jean-François Revel, secondo cui «la scuola non deve avere come funzione la trasmissione della conoscenza».
Già quaranta anni fa Hannah Arendt aveva lucidamente previsto i disastri cui avrebbe condotto questa visione pedagogica, da lei definita «un incredibile guazzabuglio di idee sensate e di assurdità». Arendt denunciava l’aver messo «del tutto da parte ogni regola di sano giudizio umano, per amore di certe teorie, buone o cattive che fossero. […] Influenzata dalla psicologia moderna e dai dogmi del pragmatismo la pedagogia si è trasformata in una scienza dell’insegnamento in genere, fino a rendersi del tutto indipendente dalla materia che di fatto s’insegna». E proseguiva osservando che la sostituzione della conoscenza con la pratica e la metodologia era conseguenza di un mediocre pragmatismo secondo cui «si può conoscere e capire soltanto ciò che si è fatto da sé. Applicato all’istruzione ciò significa, in termini primitivi quanto ovvi, che l’imparare viene per quanto possibile sostituito dal fare. Non si dà alcun valore alla padronanza della materia da parte del professore proprio per costringerlo a proseguire nell’attività dell’apprendimento, così da non trasmettere, come si dice, delle “morte nozioni”, bensì essere continuamente teso a mostrare il processo produttivo della conoscenza. L’intenzione consapevole non è d’insegnare una conoscenza ma di inculcare una tecnica».
A ciò corrisponde una visione dell’insegnante che è – per dirla con Arendt – «una persona che può semplicemente insegnare qualsiasi cosa, perché la sua formazione è nell’insegnare, non nel dominio di un qualsiasi materia particolare». Non a caso il processo di formazione degli insegnanti è stato imperniato soprattutto sulle metodologie pedagogico-didattiche. Nel caso dei maestri italiani si sono raggiunti livelli esasperati. Oggi ci si può laureare maestro senza competenze disciplinari specifiche. In certi corsi di laurea le materie sono soltanto di tipo psico-pedadogico-relazionale o di pedagogia “speciale” (che si occupa del sostegno ai disabili) e i corsi di didattica della matematica o della storia (non matematica o storia!) sono opzionali con pediatria o neuropsichiatria infantile… Definire “specializzato” un siffatto maestro è una presa in giro. Oggi la scuola primaria galleggia per l’impegno di maestri anziani o di giovani che coltivano interessi disciplinari a dispetto dei cattivi insegnamenti che hanno ricevuto. Pertanto polemizzare contro il maestro prevalente in nome di un inesistente maestro plurimo “specializzato” è una mistificazione. D’altra parte, è curioso che chi difende l’idea di un insegnante metodologo auspichi la specializzazione disciplinare proprio nelle elementari, laddove meno se ne sente la necessità. In realtà si tratta di una foglia di fico culturale per giustificare le politiche di assunzioni di massa.
È invece molto più sensata la figura di un insegnante prevalente, dotato delle conoscenze basilari atte a introdurre sinteticamente il bambino al mondo simbolico, che è quello delle lettere e dei numeri, non a caso nati insieme seimila anni fa. La scomposizione in termini disciplinari degli aspetti linguistico e matematico proprio nella fase formativa elementare è un errore pedagogico banale.
Dice Pontecorvo che questa è una scuola che integra i disabili ed è accogliente. Purché si dica che ciò accade nell’ottica del più ipocrita politicamente corretto, concependo come “diversità” ogni disabilità (siamo tutti “diversi”, siamo tutti “speciali”) e raccogliendo nella stessa categoria disabili propriamente detti con immigrati, rom e, secondo alcuni, anche ebrei. In tal modo si crede di normalizzare la disabilità riducendo ogni condizione a una forma di disabilità e trasformando la scuola elementare in un immenso deposito di “diversità” in cui il maestro opera come un infermiere-psicologo.
Clotilde Pontecorvo critica inoltre la reintroduzione del voto in decimi osservando giustamente che le valutazioni non sono mai misurazioni quantitative precise. Ma non la racconta giusta quando fa credere che la docimologia spieghi che una misurazione esatta delle competenze è impossibile. Il contrario è vero. È la docimologia che persegue l’obbiettivo impossibile della “misurazione delle qualità” e pretende di introdurre criteri di valutazione “oggettivi” ricorrendo a principi che suscitano l’ilarità di chiunque abbia una preparazione scientifica seria, come la distribuzione gaussiana delle competenze. Al contrario, il voto in decimi mira a esprimere una valutazione comparativa qualitativa in modo più semplice e diretto di giudizi verbali spesso espressi con locuzioni farraginose e vaniloquenti e senza concedere alla pretesa di raggiungere per via docimologica la misurazione “esatta” della competenze.
Infine, Clotilde Pontecorvo accusa il ministro Gelmini di non avere sensibilità per le elaborazioni pedagogiche di tipo educativo e di non avere letto John Dewey, don Milani o il “Poema pedagogico” di Makarenko. È bizzarra l’idea che la lettura di un testo debba produrre automaticamente un atteggiamento consenziente. Sotto questo profilo Hannah Arendt dovrebbe essere considerata peggio del ministro Gelmini, per la disistima che nutriva nei confronti della pedagogia alla Dewey. Non oso immaginare cosa avrebbe detto di don Milani e di Makarenko… Quest’ultimo riferimento è significativo. Soltanto chi non crede che l’educazione sia in primo luogo un rapporto tra persone, e non la gestione di un collettivo, può vedere un riferimento positivo in un pedagogista sovietico che concepiva l’uomo come un mero prodotto sociale e l’educazione in senso collettivistico; che creò e gestì la colonia Dzeržinskij, così denominata per onorare il truce creatore della polizia politica sovietica Ceka, e che ha attraversato intatto tutte le purghe staliniane sull’altare della reputazione di educatore bolscevico per eccellenza.
Cosa abbia a che fare tutto ciò con il modello educativo ebraico riesce difficile comprendere. Se c’è qualcosa che caratterizza la vita ebraica è lo studio e certamente non nel senso dell’autoformazione, bensì dell’acquisizione della conoscenza accumulata su cui ogni persona deve “salire” per poter avanzare. Che cos’è il Talmud se non un immenso e inesauribile deposito di conoscenze che ognuno, nella sua vita, è chiamato a studiare incessantemente e ad acquisire per potere andare oltre? È uno studio basato sulla figura del maestro – maestro di conoscenze e non metodologo puro. Vi è poi la centralità della famiglia, senza cui non è pensabile neppure la vita religiosa ebraica. Una siffatta centralità è incompatibile con una visione che vede l’educazione come un rapporto tra istituzione educante e collettivo educato e annulla il ruolo del singolo e della famiglia. Tra Makarenko-don Milani e la visione educativa ebraica corre un abisso incolmabile. Non è una buona idea schierare l’ebraismo su simili fronti per motivi meramente politici.

22 commenti:

diana ha detto...

... ma 'obbiettivi' con una b sola, vero?
Se non è un errore di battitura, e lei ha fatto le elementari prima dell'85, ci toccherà ridatare l'inizio dell'involuzione. Chi lo porta il carbonio 14?

Fantastica la sua lettera a Camilleri. Già, per quattro applausi farebbe qualsiasi cosa.
Narcisismo a tremila.
saluti,
diana

p.s. ma quando nei commenti a quel thread sembra dare ragione al Giovanni che difende l'eccellenza delle elementari, era sarcastico? Perché nel thread sull'articolo di Ricolfi gli dà dell'umorista e lo stronca. Sono rimasta confusa.

Giorgio Israel ha detto...

La mia data di nascita è facile da scoprire anche senza carbonio 14. Perciò lo porti lei, in dose per uso personale.
Sì, poteva essere un errore di battitura, ovviamente. Però, se legge il dizionario della lingua italiana Treccani - per esempio - vedrà che "obbietto", "obbiettivo", "obbiettare" ecc. sono forme alternative di "obietto", "obiettivo", "obiettare", ecc. parimenti legittime (invece leggittime non va bene). A me piace di più con due "b", e visto che posso...
Come battuta sarcastico-giovanilista la sua poteva essere discreta, anche se è un po' banalotto fare le ironie sui matusa. Il comico è che ha fatto plof...
Giovanni e io abbiamo fatto tutte e due le volte la stessa parte in commedia, a me pare. Ma deve essere umorismo della scuola pre 1985.

Caroli ha detto...

Ma la signora/ina Diana poteva entrare nel merito del problema da Lei, professore, sollevato? Poi, perché fa un commento fuori posto? Se voleva parlare di Cammilleri, doveva farlo in connessione (o no?).
Passi che è domenica 23, ma un po' di pareri ebraici mi piacerebbe leggerli. Che so, Rabbi Di Segni, Rabbi Toaff (è ancora tra noi, vero?), persone che hanno più autorevolezza di una Pontecorvo qualsiasi. Oltre alla Sua, naturalmente. Ed entriamo nel merito: credevo che mai e poi mai avrei sentito rimpiangere Makarenko: è come se qualcuno, parlamentare, oggi, facesse la commemorazione in termini elogiativi, che so, di hitler o stalin (minuscole intenzionali). Allucinante. Poi, è abbastanza vergognoso tirare per la tonaca don Milani (di famiglia ebraica, ma questo è noto) per fargli dire cose che o non ha detto, o non pensava, o non ha realizzato. Alla scuola di Barbiana si insegnava, eccome!

Caroli ha detto...

Questo "obbiettivo", al di là del fatto che è corretto, a me ricorda un po' la figlia di Giovannino Guareschi, che usava "me" al posto di "io", perché, diceva, "me" era più forte di "io". La vivacità della lingua sta anche in questo ("mi hanno significato che Vostra Eccellenza mi voleva me..." Manzoni, Promessi Sposi, dialogo di don Abbondio con il cardinale Borromeo).

Nota Bene: sono un ingegnere, non un linguista...

Giorgio Israel ha detto...

Infatti, quel che mi viene sempre in mente - sebbene non condivida affatto l'ideologia di don Milani - è che egli non si sarebbe per niente riconosciuto nella deriva attuale, e forse ne avrebbe tratto spunto per un ripensamento delle sue stesse posizioni. Del resto, che allora si potessero e dovessero criticare certi eccessi della scuola autoritaria è comprensibile. Ma oggi...
Quanto all'origine ebraica non vuol dire nulla. Non ci sono inclinazioni razziali. Ci sono soltanto fatti culturali, e di certo don Milani di ebraico (in senso culturale) aveva ben poco. Come del resto Pontecorvo, a controprova che essere ebrei di nascita non vuol dir niente.
Quanto al commento precedente non è la prima volta che qualcuno cerca di battere sul fatto che sono vecchio, da datare col Carbonio 14. E quindi, implicitamente quel che dico non conta perché frutto di un cervello decrepito. Sì, va bene ho 63 anni. Francamente non me ne faccio un problema. Se lo dovrebbe fare chi, ventenne o trentenne, ragiona come un rimbecillito, non trova altre armi dialettiche della maleducazione ed esibisce la propria ignoranza senza tema del ridicolo. Il giovanilismo è una delle malattie più stupide dell'epoca contemporanea. Largo ai giovani, bando alla gerontocrazia, beninteso, ma largo ai giovani capaci e intelligenti, non agli imbecilli purché giovani.

Caroli ha detto...

Non intendevo dire, col fatto che don Milani era di famiglia ebraica, qualcosa di diverso dal sottolineare che la mentalità ebraica è molto seriamente preoccupata in favore dell'educazione. E questa preoccupazione, assorbita "col latte materno" informò tutta l'opera del Priore di Barbiana.

Giorgio Israel ha detto...

Su questo sono d'accordo

diana ha detto...

Caspita, ho letto la sua risposta, e gli altri commenti.

Mi spiace di essere suonata così offensiva. Il pezzo su Camilleri mi è piaciuto davvero, e il 'narcisismo' era chiaramente riferito a lui.
Il carbonio 14 non era certo un riferimento alla sua età - io ne ho 52 - e più che giovanilista sono stata semplicemente inappropriata. Mi dispiace veramente.
C'è stato evidentemente qualcosa, nelle sue critiche legittime e documentate alla scuola elementare, o nel tono, che mi ha portato fuori strada.

Ho provato poi ad argomentare, copio qui sotto quello che ho scritto prima di queste righe. Sperando che non sia partito l'invio precedente alle rettifiche.
saluti e scuse,
diana

Un po', lo confesso, mi dà fastidio quando si demonizza la scuola elementare. Non sono insegnante, né militante di qualcosa. Ma seguendo i miei quattro nipoti (il più grande oggi ha 27 anni, la più piccola 12) ho avuto l'impressione che il ciclo elementare sia stato l'unico a sperimentare, a cercare strade nuove per stare al passo con tecnologie che cambiavano a velocità senza precedenti, e a menti che di conseguenza cambiavano altrettanto velocemente modalità di apprendimento. Poi è finita com'è finita, con il proliferare delle materie più assurde (educazione all'affettività? ma non è un ossimoro?) e tutte le cose che anche lei descrive.
Ma qualcuno ci ha provato - nella scuola elementare. Maestre appassionate e straordinarie, presidi volenterosi (quello del mio primo nipote era un fisico in gambissima), dirigenti scolastici, bambini.
Tutto il resto - medie, liceo - è rimasto fermo ai miei tempi.
E non so lei, ma io li ricordo come un incubo.

Insomma, si fatica a stare appresso alla rapidità del cambiamento in tutti i campi. E la bolla della didattica è esplosa, come tante altre.

Giorgio Israel ha detto...

La ringrazio. Incidente chiusissimo.
Ho sempre detto che gran parte degli insegnanti sono eroici e hanno un livello etico che non si trova affatto all'università. Ciò detto, insisto sul fatto che la scuola elementare è stata massacrata. Lo dico - e ho scritto a iosa su questo, anche nel mio libro - sulla base non soltanto dell'esperienza (ho due figli alle elementari e moltissimi amici con situazione analoga) ma della conoscenza dei programmi, dei libri, ecc. Le consiglio la lettura delle Indicazioni Nazionali.
Francamente io non ricordo il liceo e le medie come un incubo.
Qualcuno ci ha provato, ma forse era meglio non provarci se le intenzioni erano quelle e le idee tanto mediocri.

diana ha detto...

seguirò i consigli di lettura.
Sono sollevata di avere chiarito l'equivoco.
saluti
d

GiuseppeR ha detto...

Consiglio vivamente di leggere l'articolo di Mario Pirani pubblicato su Repubblica sabato scorso: "Quanto costa al Paese l' università di Parentopoli". Quando si ragiona senza pregiudizi le idee buone non sono né di destra né di sinistra, governative o di opposizione.....

http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2008/11/22/quanto-costa-al-paese-universita-di.html

Giorgio Israel ha detto...

Ottimo articolo. Come sempre Pirani conduce battaglie meritorie. Purtroppo pare che le lobbies stanno facendo a pezzi il decreto sull'università e alla fine si rischia di tornare a fare i concorsi come all'inizio... Se poi dicessi che documenti circolano... Difesa omertosa dello status quo.

francini ha detto...

Davvero notevoli, direi quasi profetiche, quelle parole di Hannah Arendt! Colpisce anche me il fatto che proprio chi si scaglia da sempre contro i "disciplinarismi" poi lo ritroviamo a difendere la segmentazione disciplinare spinta già fin dai primi anni di scuola elementare. Oltretutto basata su un unico titolo di studio, un unico percorso formativo, un'unica classe di concorso. Mah... qualcosa non mi quadra.

Penso che il governo avrebbe fatto meglio ad adottare una linea un minimo più elastica e articolata sulla questione del maestro unico (o prevalente), ma non riesco a vedere un atteggiamento franco e lineare in questo genere di argomentazioni come quelle di Pontecorvo.

Le obiezioni sulla scala decimale poi mi sembrano ancora più deboli. Da un lato si cerca di minimizzare (numeri o aggettivi è la stessa cosa: questo ripetono di quando in quando Dominici e Vertecchi), d'altra parte però si aggiunge che però i voti non vanno bene (ritorno al passato, classismo, troppo vessatori, e inoltre "non sono veramente oggettivi" e non garantiscono che il 7 della classe A valga come il 7 nella classe B...).

Ma si omette di dire che anche i giudizi verbali, ovviamente, non hanno valore assoluto, e che però i voti numerici hanno il pregio dell'immediatezza, della chiarezza, della confrontabilità, della possibilità di graduare diversi livelli di carenza o insufficienza.

Infatti il generico "insufficiente" può nascondere situazioni veramente molto gravi o più lievi mancanze di esercizio e di assiduità, ed inoltre impedisce al ragazzo e alla famiglia di vedere chiaramente gli eventuali progressi nella valutazione: il ragazzo che parte da zero e arriva a 4 o 5 si troverebbe ad occupare sempre la medesima fascia di giudizio, e non si renderebbe neppure conto dei suoi progressi, con le immaginabili conseguenze sul piano della motivazione. Ecco i guasti del tentativo di voler rendere la valutazione troppo scolasticamente corretta e quindi opaca: che non si aiuta affatto chi ne avrebbe più bisogno e si occultano differenze che invece sono reali e rilevanti.

Per fare un parallelo un po' brutale, anche ai calciatori si danno sui giornali voti in decimi, e le pagelle dei vari giornali non sono affatto coincidenti, sono tutt'altro che "oggettive" in senso stretto. Inoltre nessuno si è mai preso la briga di fissare metodi di misurazione standard e definizioni meticolose di "prestazioni" e competenze da accertare. Eppure chiunque capisce benissimo cosa possano significare, vi è un'intesa di fondo che permette ai commentatori di discutervi sopra, e non sono "arbitrari". Perché la valutazione è sempre un processo contestualizzato, dove una certa parte dei criteri sono in ultima analisi impliciti e difficilmente enumerabili in un protocollo esaustivo. Il che però non implica arbitrarietà, ma solo formazione di un ethos e di parametri condivisi in una data comunità all'interno della quale avviene la valutazione. Delegare la materia a una soluzione per così dire "neutra" e tecnicistica è solo un voler abdicare alle proprie responsabilità, oltre che illusorio.

zqyveriere ha detto...

Sono un insegnante di italiano e storia in una scuola superiore e condivido lo spirito riformista del ministro Gelmini, ispirato ad una logica di semplice buonsenso:serietà, rigore, semplicità. L'intervento di Camilleri, come di tutti quegli intellettuali ideologizzati e fuori dalla realtà, dimostra l'assoluta ignoranza di quello che la scuola è realmente oggi: ma dove vivono?
Roberto Riviello

Caroli ha detto...

Mia figlia frequenta l'Accademia d'Arte. La descrizione che ne fa, quanto al corpo docente, corrisponde a quella delle "baronie" contro cui si è mossa la Ministro Gelmini; tra le cose che mi riferisce, quella che fare lezione è un optional. Mi ha dato un "papiro" di cinque fogli, scritto in un italiano che definire approssimativo è fare un complimento agli autori, in cui si protesta, si propugnano occupazioni, eccetera: la solita aria fritta. Ed in cui si raccontano favole: per dirne una, parlano, cito, di "ampia partecipazione degli studenti che supera la meta' degli iscritti...": mia figlia mi dice che erano quattro gatti. Mi chiedo, e Le chiedo, come aiutarla, ed in generale come un genitore può muoversi in casi simili. Sono passati venticinque anni da quando sono uscito dal mondo universitario, e non ho il "polso" della situazione. Grazie.

zqyveriere ha detto...

Quello di cui scrive Caroli è purtroppo un fenomeno generazionale: la stagione del 6 politico all'università ha prodotto una classe insegnante scarsamente preparata; complice la politica sindacale, la meritocrazia nella scuola è stata boicottata, eliminando così ogni stimolo a migliorarsi e a migliorare la qualità del proprio lavoro. La pedagogia demenziale degli anni Settanta ha fatto poi il resto... E' chiaro che a muovere i fili della reazione siano prorio coloro che da questo sistema hanno guadagnato in termini economici e di status sociale, ovvero i baroni, difensori dei loro feudi a spada tratta.
A Caroli dico: speriamo che l'onda innescata dal ministro Gelmini non si fermi, ma si rafforzi grazie a tutti i riformisti che non pensano in chiave idelogica e che vanno oltre gli schieramenti ottocenteschi. Con i migliori saluti.
Roberto Riviello

Caroli ha detto...

Grazie per la speranza, che condivido. Intanto l'occupazione è partita. Sembra molto una "vacanza prolungata", non fosse altro perché coinvolge una festa come l'8 dicembre.

Giorgio Israel ha detto...

Risposta a Irene Kajon Levi

La risposta di Irene Kajon al mio articolo (Shalom di novembre 2008) se non è una manifestazione di quel che viene volgarmente chiamato “rivoltare la frittata” – il che sarebbe una violazione dell’etica della discussione – va imputata a uno scarso controllo della logica. Non mi sono mai sognato di dire che «i recenti provvedimenti della scuola sono assolutamente in linea» con “la visione educativa ebraica”. Al contrario, ho detto che era una pessima idea schierare, per motivi politici (ovvero per polemizzare contro i provvedimenti del governo), il “modello di apprendimento ebraico” sul fronte della pedagogia dell’autoapprendimento. E tanto avevo ragione che questa ricetta viene riproposta da Kajon: far passare il modello dell’autoapprendimento come il più vicino alle modalità caratteristiche del “campo educativo ebraico”.
Rispondo per punti. Kajon concede: «ammettiamo pure che, come Israel sostiene, il modello educativo ebraico sia incentrato soltanto sulla vita religiosa della famiglia e sulla trasmissione di conoscenza talmudica…». A parte il fatto che quel “soltanto” è di Irene Kajon e non mio, non so proprio come potrebbe non ammetterlo: quale religione, quanto quella ebraica, attribuisce alla famiglia un ruolo centrale e insostituibile nel rito, non soltanto nel seder di Pesach, ma anche settimanalmente nello shabbat? Ricordavo questo fatto per sottolineare che esso è in piena contraddizione con la tendenza tipica, nella pedagogia di cui stiamo discutendo, a spostare il ruolo centrale dalla famiglia al “collettivo educante” in cui psicologi e pedagoghi assumono un ruolo più importante dei genitori persino sul piano affettivo. Ma l’obiezione principale di Kajon è che, non soltanto nella lettura della Haggadah ma anche nell’insegnamento talmudico (e kabbalistico, aggiungerei) ha un ruolo fondamentale la “domanda” più ancora che la risposta, le controversie e la discussione che spesso portano a divergenze di opinione non risolte. E chi dice di no? In che senso potrebbe il culto della domanda e della controversia essere in contraddizione con un’educazione basata sulla trasmissione di conoscenze e l’accumulazione di sapere? Potrebbe esserlo soltanto in un modo di educare, e diciamo pure di pensare, da imbecilli, basato sul più ottuso dogmatismo, ovvero sullo scodellamento di sentenze indiscutibili. Ma per asserire che una buona educazione consiste nell’apprendere a pensare razionalmente con la propria testa non c’è bisogno di mobilitare Dewey, Makarenko, don Milani o Morin: basta Socrate e, per l’appunto, i talmudisti. Qui è in gioco ben altro: ovvero la teoria secondo cui non occorre in alcun caso trasmettere nozioni, bensì soltanto favorire una generica capacità di autoapprendere, per lasciare che il giovane scopra o riscopra tutto da sé. Forse Kajon non sa che la pedagogia dell’autoapprendimento è giunta al punto di considerare l’insegnamento della fonetica come “violenza sui minori” e a predicare che il bambino deve ricostruirsi da sé un algoritmo della divisione senza che gli venga insegnato quello euclideo. Sono teorie sballate e fanatiche che hanno prodotto lo sfascio educativo documentato da tutte le analisi più recenti e che hanno condotto in alcuni paesi – in particolare in alcuni stati americani – a un brusco ritorno verso il tanto deprecato insegnamento “trasmissivo”. Cosa abbia a che fare tutto ciò con le pratiche di conoscenza tradizionali nella cultura ebraica è un mistero. Chiunque conosca un minimo queste pratiche sa che esse sono basate su un principio supremo: “studiare, studiare e studiare”. Il che vuol dire, in primo luogo, apprendere dai maestri, apprendere criticamente – è ovvio – per andare avanti – altrettanto ovvio. Ma è difficile produrre esempi di accumulazione di conoscenza e riflessione più del Talmud o della Kabbalah. Quanto all’asserzione che l’educazione ebraica non sia tendenzialmente conservatrice, si può soltanto rispondere che non esiste alcun popolo come quello ebraico che abbia preservato la propria identità mediante un attaccamento rigorosissimo alla tradizione, sia pure continuamente ripensata. Ebbene sì: qui proprio la parola “conservatrice” si addice e sarebbe difficile trovarne una più adatta.
Quanto al tentativo di accostare il punto di vista di Hannah Arendt a quello di Dewey, si tratta di un’acrobazia disperata. Quando definiva la pedagogia moderna un «incredibile guazzabuglio di idee sensate e di assurdità» e criticava duramente la teoria dell’autoapprendimento – non ripeto le citazioni fatte nel mio precedente articolo – Arendt puntava proprio il dito contro «i dogmi del pedagogismo» pragmatistico alla Dewey. È inutile dire che nessuno è tenuto a considerare le tesi di Arendt come il Verbo. Ma è certamente meno avventuroso dichiararsi in disaccordo con lei piuttosto che tentare la missione impossibile di portarla dalla parte del pragmatismo scientista del pedagogismo metodologico.
Proseguendo in un modo di discutere poco rispettoso delle tesi altrui, Kajon sostiene che io avrei detto che Makarenko e don Milani non erano attenti ai rapporti interpersonali. Ho detto altro: e cioè che la loro visione della comunità educante è basata su un’idea dei rapporti interpersonali che è coerente con una visione collettivista e che, come tale, contesto. Quanto a Makarenko e ai suoi «rapporti non idilliaci con il potere sovietico», premesso che, a parte Stalin, nessun cittadino sovietico ha avuto rapporti pienamente idilliaci col potere del suo paese, Makarenko è stato il pedagogista di riferimento del regime fino alla morte. Sostenere che fosse un dissidente o qualcosa del genere una persona che è passata indenne attraverso le più terribili purghe del regime è semplicemente incredibile. D’altra parte, nel 1935 Makarenko era vicedirettore della sezione delle colonie di lavoro ucraine e in quegli anni (terribili) la sua dottrina pedagogica era considerata come il modello di riferimento del regime. Dice Kajon che io «non manco di ricordare» che Dzerzinskij – cui era intitolata una comune di Makarenko – non era soltanto il fondatore della polizia segreta sovietica. Mi scuso di aver mancato di ricordare che egli fu uno dei più grandi criminali politici del Novecento. Mi viene rimproverato invece di non dire che fu «l’ideatore di importanti progetti di recupero dell’infanzia abbandonata». Ma quel che Kajon non dice è che questa infanzia abbandonata era prevalentemente composta (siamo negli anni 1931-35) da figli di deportati nel Gulag. Siamo nel pieno dell’orrore e parlare in termini positivi di queste vicende e personaggi è fuori luogo.
Kajon conclude dicendo che sarei io ad aver strumentalizzato «non solo l’ebraismo ma eventi e figure della cultura» cui mi richiamerei in modo non fondato «nel tentativo di difendere misure scolastiche ed educative che la maggior parte della popolazione italiana non comprende e non accetta». Tralascio quest’ultima affermazione del tutto gratuita: casomai, tutti i sondaggi evidenziano un consenso largamente maggioritario a queste misure. Tralascio proprio perché non ho mai messo in opera un simile tentativo strumentalizzando l’ebraismo o quant’altro ed ho invece lamentato che altri l’abbiano fatto e continuino a farlo. Torniamo quindi alla domanda iniziale: mancanza di controllo della logica o una sconcertante carenza di etica della discussione?

Caroli ha detto...

Il collettivismo di don Milani non trascurava la persona. Il collettivismo di Makarenko sì. Questa è la fondamentale differenza tra i due. Trovo che difendere Makarenko, in ogni caso, dovrebbe suonare (mi corregga se sbaglio) un po' come difendere Albert Speer, o un qualsiasi gerarca nazista di secondo piano: trattasi comunque di complici dei peggiori criminali che la storia del XX secolo ha conosciuto.

Giorgio Israel ha detto...

Assolutamente d'accordo

zqyveriere ha detto...

Non ho un'esperienza diretta delle scuole ebraiche, anche se ne sono molto incuriosito. Ho però esperienza pluriennale delle scuole puibbliche, medie e medie-superiori, e del grave stato di salute dell'intero sistema educativo italiano, sostanzialmente distrutto nel corso degli ultimi trent'anni da una classe politica e sindacale arrogante e ignorante. Mi viene da pensare una cosa apparentemente retrò: la scuola media e il liceo che io ho frequentati da studente erano migliori di questi dove lavoro come insegnante. In questo caso, è duro ammetterlo, il passato era migliore del presente. Occorre una vera rivoluzione copernicana, di cui l'introduzione del maestro unico è solo, ma importante, passo avanti. Credo che il nodo ben più difficile da affrontare sarà la scuola media. Quella sarà la vera prova per i riformatori, ministro Gelmini in primis.
Roberto Riviello

Caroli ha detto...

Caro Riviello, sottoscrivo. Ho frequentato un Liceo Scientifico nel quale bisognava sudarsi i sei, ma oggi capisco bene chi parla inglese, i problemi di analisi matematica sono qualcosa che so risolvere, leggo bene un'iscrizione latina, eccetera. Il passato era migliore del presente, davvero.