venerdì 27 febbraio 2009

Prima l’inamovibilità poi il ritiro coatto. Ecco i malanni che rendono i vecchi inutili

Nella bella intervista su Tempi (12 febbraio) del mio quasi omonimo, l’oncologo francese Lucien Israël, mi ha colpito un’osservazione a margine del tema centrale – la denuncia dell’eutanasia. Israël, oggi ottantatreenne, lamenta di essere stato pensionato a 60 anni: «Negli Stati Uniti dire a un medico o a chiunque eserciti una professione che è troppo vecchio per lavorare è considerato un atto discriminatorio. In Francia a sessant’anni ci si libera di un professionista proprio quando è entrato in possesso di un sapere e di un patrimonio di esperienze che sarebbero immensamente utili alla società».
Si potrebbe aggiungere che negli Stati Uniti si perde il posto quando ci si dimostra inadeguati, indipendentemente dall’età. Le università sono piene di luminari novantenni e ciò non implica affatto un blocco all’ingresso dei giovani. Lucien Israël parla della Francia, ma in Italia va peggio. Qui si prende un posto per diritti “acquisiti” (per diritto di precariato, per aver fatto una supplenza o essersi seduto per un po’ di tempo su una scrivania) dopodichè nessuno te lo toglie più, indipendentemente da quello che fai, fino alla pensione, che però cade come una ghigliottina. Non c’è un criterio con cui spostare la gente secondo età e competenze da una funzione all’altra, oppure cacciarla o promuoverla (per merito e non per anzianità). Un insegnante può offrire cose molto diverse secondo l’età: magari, col passare del tempo, è meno puntiglioso e attento ai dettagli ma è capace di fornire una visione più ampia e matura. Quale che sia il mestiere o la professione una persona anziana e competente ha un ruolo insostituibile nel formare i giovani che prenderanno il suo posto.
Invece stiamo perdendo di vista la questione fondamentale: la trasmissione delle competenze. Si pensa stupidamente che per risolvere la cristallizzazione delle persone in posizioni inamovibili ed eliminare i blocchi che impediscono l’accesso ai giovani occorra spedire la gente in pensione prima che sia possibile invece di dislocarla nei ruoli più adeguati al contributo che possono offrire, oltre a mandare a casa i nullafacenti e gli incapaci. Conosco molti casi di persone che, nella crisi attuale, perdono il posto perché “costano troppo” perché “anziane” e vengono sostituite da un ragazzino non in quanto più capace ma perché “costa poco”. Nelle università ora si parla di alleggerire le spese spedendo in pensione anticipata il massimo numero di docenti. Questo andazzo, sommato alla valanga di pensionamenti “naturali” previsti, creerà una frattura generazionale che disperderà tutte le competenze acquisite. Tutto ciò è straordinariamente irresponsabile e sarà fonte di un sicuro decadimento culturale. Proprio questo mentre ci si riempie la bocca dello slogan secondo cui viviamo nella “società della conoscenza”…
L’aspetto tragicomico di questa faccenda è che lo slogan dello “svecchiamento” – non importa come e non importa con quali conseguenze – è quasi sempre scandito da anziani che si ritengono, e sono, inamovibili. Ricordo la filippica tenuta alcuni anni fa da un noto politico settantenne che si scagliò contro la “gerontocrazia di stile cinese” vigente in Italia. Ora leggiamo che questo personaggio è in pista per l’ennesima carica, stavolta culturale. Nulla da obiettare, per carità, ove si dimostrasse l’utilità della persona in quella posizione. Il problema sta in quella filippica che richiama proprio lo stile della Rivoluzione culturale cinese: un capo ottantenne, Mao, che incita le giovanissime Guardie rosse a sparare sul “quartier generale” dei “gerontocrati”. Senti chi parla.
(Tempi, 26 febbraio 2009)

6 commenti:

agapetòs ha detto...

Aggiungo che un noto personaggio, pur avendo scritto in un suo libro che «dopo aver generato i doverosi figli e averli allevati, il suo [dell'uomo] compito è finito, occupa spazio destinato ad altri» e «bisognerebbe che le persone a cinquanta o sessant’anni sparissero», pur avendo superato da un bel po' quella soglia di età, è ancora attivissimo e non vuole saperne, non dico di sparire, ma neanche di ritirarsi a vita privata.

Luigi Sammartino ha detto...

In effetti è da molto tempo che il mondo del lavoro è caratterizzato da una contraddizione particolare: per la quale, da una parte, a partire dai 45-50 anni si è considerati troppo vecchi per la professione, e dall'altra si dice che non ha senso andare in pensione a 60 anni ma bisogna posticipare.

In particolare nel mio settore, un informatico che ha superato i 40 anni di età difficilmente recupera il posto di lavoro, se lo ha perso.

Ovviamente, sono necessarie le opportune distinzioni tra i mestieri usuranti e quelli che possono essere protratti a lungo.

vanni ha detto...

Problema esistenziale di moltissimi. Problema della società?
Non si poteva dire meglio. Il tempo corre a velocità inimmaginabili (mio padre buonanima, allorchè Armstrong posò i piedi sulla Luna, già mi confidava:"... non credevo che avrei visto questa cosa nel corso della mia vita"), e molti di noi – o parlerò solo per me? – in età maturetta devono confrontarsi con una obsolescenza professionale, che sprofonda nella tenebra una quota parte delle nostre competenze e delle nostre esperienze. Ma tanta parte – almeno di idee, di concetti - non meriterà di essere insegnata e trasmessa?
Andando indietro nei secoli si incontrano bei tempi nei quali l'età del patriarca era corrispettivo e garanzia di preparazione e di saggezza, e l'anziano non doveva misurarsi con l'invecchiamento o il superamento tecnico delle sue nozioni.
Era anzi spesso onorato depositario di un know how superiore, in un mondo in lenta variazione di conoscenze (si sa che al crollo dell'impero romano addirittura si fecero vigorosi salti indietro). In remoti tempi l'anziano giocava un ruolo fondamentale nella vitalità e nella produttività di una comunità e quindi nella sua aspettativa di futuro e di successo. Bei tempi dunque?
Ora tecnica e scienza corrono e l'anziano viene spesso considerato a priori obsoleto e di peso al processo produttivo, viene considerato rigido preconcettualmente al cambiamento (e magari è un avventuriero dello spirito!) oltre che inadatto per ritmo.
In queste troppe parole faccio purtroppo riferimento soltanto a persone di "normale" levatura, non a chi ha doti fuori dal comune, anche se l'oncologo Israël e il suo quasi omonimo professor Israel non escludono affettuose diligenze anche nei confronti di questi ultimi; dunque due volte purtroppo.
E che qualche gerontocrate, che magari dovrebbe essere ricoverato se si dovesse giudicarlo in funzione dei suoi stessi principi, si impanchi a difensore del ricambio del nuovo e del giovane, be', è uno sberleffo della vita.
Jacques Delors - credo fosse lui, a suo tempo Presidente della Commissione Europea - scherzava paradossalmente quando asseriva che fosse nocivo mantenere nel circuito produttivo gli ultracinquantenni e che si sarebbe potuto vantaggiosamente fare tout court a meno di loro con grandi vantaggi economici, risolvendo una volta per tutte il gravoso problema delle pensioni?
Sono certo che scherzava. La lingua batte dove il dente duole.

rossana ha detto...

ho letto casualmente questo intervento, poichè mi ero appassionata alla lettura dei commenti del precedente. Ma come è possibile che le idee di fondo che sostengono le affermazioni di questo scritto siano così distanti da quelle del precedente.
Chiarisco meglio: "Un insegnante può offrire cose molto diverse secondo l’età: magari, col passare del tempo, è meno puntiglioso e attento ai dettagli ma è capace di fornire una visione più ampia e matura. Quale che sia il mestiere o la professione una persona anziana e competente ha un ruolo insostituibile nel formare i giovani che prenderanno il suo posto.
Invece stiamo perdendo di vista la questione fondamentale: la trasmissione delle competenze." Questa frase vale per tutti i professionisti o soltanto per i docenti universitari?? Come mai qualcuno è tanto preoccupato da arrogarsi il diritto di insegnare le professioni altrui? E' strano vedere come le idee si trasformino a seconda del punto di vista, o è una questione relativistica scarsamente comprensibile dal profano?
Inoltre, e ora mi riferisco allo scritto successivo, chi partecipa ad un blog penso che possa dire "chiuso il discorso" perchè intende ritirarsi dalla discussione da ora in avanti ed è quello che farò io; per il titolare del blog mi sembra quantomeno un comportamento poco delicato nei confronti dei suoi lettori.
Cordialmente

Caroli ha detto...

A me, che lavoravo in un'azienda americana è capitato quanto segue. In luglio 2008 ci hanno premiato, tutti e trentatre, consulenti e dipendenti, con l'essere un "centro di eccellenza". A dicembre ci hanno detto che il gruppo era in crisi. A metà gennaio 2009 hanno tagliato i dodici consulenti, a fine gennaio hanno messo in mobilità sedici (su ventuno) dei restanti progettisti. Si diceva: ma come? per uscire dalla crisi occorre progettare nuove macchine, per essere pronti. Risposta: i progetti li fa solo l'ufficio di Minneapolis. Conseguenza: una macchina progettata a Minneapolis, dopo mezz'ora di prova da un Cliente è stata impacchettata e rispedita al mittente. Questo per dire che non è detto che negli Stati Uniti ci sia poi sempre l'eccellenza di cui si parla. Anzi, ultimamente viene più di un dubbio.

Caroli ha detto...

A proposito di "svecchiamento": diversi anni fa, a Bologna era apparsa una scritta su un muro che recitava così: "Il comunismo è la gioventù del mondo!". E un'altra mano lì presso aveva scritto: "Breznev, Mao, Ho Chi Minh": erano, all'epoca, tutti sopra i 70-80 anni, tanto che di lì a poco sarebbero morti tutti.