martedì 14 aprile 2009

La scienza non è onniscienza, tantomeno onnipotenza

Sono lontani i tempi in cui la teoria del valore-lavoro di Marx veniva ostinatamente difesa anche di fronte all’evidenza delle sue inconsistenze teoriche. Naturalmente c’è chi si occupa ancora di questa tematica, tuttavia senza l’accanimento di qualche decennio fa quando era d’obbligo una difesa a tutti i costi. Ricordo un dibattito in cui un Lucio Colletti ancora marxista ricorse a una spericolata acrobazia dialettica sostenendo che, a ben vedere, dire che A = B non è la stessa cosa che dire che B = A… Oggi possiamo sorridere di questi atti di fede a condizione di non essere indulgenti nei confronti di analoghi atti di fede come la cieca credenza secondo cui il mercato possiede la virtù salvifica di autoregolarsi, da cui la prescrizione assoluta di liberarlo da ogni intralcio e intervento esterno. È un’antica convinzione che risale almeno alla celebre metafora della “mano invisibile” di Adam Smith e che, da Walras e Pareto alla scuola dei Chicago boys di Milton Friedman, ispira ancora quella che è considerata la corrente principale (neoclassica, talora detta “mainstream”) della teoria economica.
Occorrerebbe distinguere. Quando si predica la necessità di lasciar libero il mercato sulla base dell’idea che ogni intervento dirigista è pericoloso in quanto contrasta con i principi della democrazia liberale e quindi può aprire la strada all’autoritarismo, ci si muove sul terreno della teoria politica e sociale. In altri termini, non si afferma in modo stringente che il mercato abbia quella virtù salvifica ma si ritiene che lasciarlo libero è auspicabile perché costituisce la migliore garanzia di preservare le libertà. Un altro approccio del tutto ragionevole e fondato è asserire, sul piano dell’analisi storica che, da quando esiste il sistema capitalistico, nessuno è stato capace di proporre un sistema migliore. Ben altro discorso è scendere sul terreno della teoria economica e asserire l’intrinseca perfezione del sistema capitalistico, in quanto il mercato sarebbe davvero capace, se lasciato completamente a se stesso, di condurre l’economia in uno stato di equilibrio. Qui si entra nel campo della mitologia e delle affermazioni fideistiche che fanno a gara con l’atto di fede nella teoria marxiana del valore-lavoro. È estremamente irritante il tono saccente da vestali della “scienza” economica con cui certi economisti fustigano ogni minimo dubbio nei confronti dei dogmi del punto di vista neoclassico. Può darsi che gli interventi statali per tamponare la crisi siano sbagliati ma bacchettare un prudente pragmatismo – per esempio quello del ministro Tremonti che afferma la necessità di procedere con realismo valutando i fatti man mano che si presentano – in quanto violerebbe i principi razionalmente e scientificamente assisi della teoria economica, è semplicemente insopportabile.
Chi e quando ha mai dimostrato che il mercato è omeostatico e sa porsi da solo in equilibrio? Nessuno. Al contrario, ogni tentativo di elaborare teorie e modelli matematici capaci di fornire questo risultato è fallito miseramente, pervenendo a dimostrare l’opposto: il mercato – almeno quello rappresentato nei modelli formali – non è quasi mai globalmente stabile, non è quasi mai capace di porsi in equilibrio e – paradosso supremo per una teoria che si vuole liberista – l’unico modo di conseguire l’equilibrio sarebbe quello di imporlo per decreto, per via di pianificazione. Ma anche questo non significa gran che, perché i modelli sono troppo distanti dalla realtà e qualsiasi cosa dicano è troppo astratta per avere valore fattuale. Il disastro è tale che la teoria della stabilità globale – quella che dovrebbe dimostrare che il mercato si porta da solo in equilibrio – è stata pudicamente censurata nella letteratura economica più recente. Ma non va meglio con teorie più moderne, come la teoria dei giochi che – come ha ammesso uno dei suoi massimi esperti, il Nobel Robert Aumann – ha un rapporto “poco confortante” con la realtà. Lo stesso Aumann, intervistato nel corso di un suo recente viaggio in Italia, alla richiesta di commentare la crisi economica e prevederne gli sviluppi, ha ammesso onestamente di non poter dire nulla di più di quanto direbbe un qualsiasi uomo della strada.
D’altra parte, l’osservazione empirica della realtà non è più confortante: dov’è la realtà del mercato come sistema omeostatico? Scapperebbe da ridere se non fosse una faccenda assai seria. Il re è nudo, ma c’è chi resiste a tutti i costi per non dover ammettere che la teoria economica deve fronteggiare la dura constatazione che fare una “scienza oggettiva” dei comportamenti soggettivi è una “mission impossible”. Difatti, il vero problema è sempre quello: come descrivere oggettivamente il comportamento di un soggetto? La teoria neoclassica, dalle origini al “mainstream”, definisce un comportamento razionale come quello in cui il soggetto agisce soltanto per il suo personale tornaconto (è “infinitamente egoista”) e ha una conoscenza perfetta del mercato (“infinitamente preveggente”). Come disse ironicamente Henri Poincaré, la prima ipotesi è accettabile, la seconda assai meno. Ma l’introduzione della conoscenza imperfetta non fa che complicare le cose e rende ancor più ingestibili i modelli. Un modo di cavarsela è stato quello di riproporre la stessa minestra però in salsa normativa, e questo ha molto a che fare con la crisi economico-finanziaria attuale. Si tratta della teoria delle cosiddette “aspettative razionali”. Le “aspettative” sono le attese dei soggetti economici di fronte a eventi che possono influire sulle loro decisioni. Tanto per cambiare, esse sono dette “razionali” quando i soggetti conoscono perfettamente il funzionamento del sistema economico e sanno utilizzare al meglio questa conoscenza. L’assioma chiave è che il comportamento “razionale” dei soggetti indirizzerebbe l’economia proprio verso gli eventi che essi “razionalmente” si aspettano. Ed ecco che l’immagine di un’economia che si evolve in modo determinato e prevedibile verso uno stato ottimale auspicato viene riesumata. Come dicevamo, la minestra è la stessa: è il vecchio modello dell’Homo oeconomicus o, per dirla con Aumann, dell’Homo rationalis, «specie mitica del genere dell’unicorno o della sirena», ben diverso dal suo cugino Homo sapiens «spesso guidato da motivazioni totalmente irrazionali». Tuttavia, in salsa normativa, la pietanza sembra più digeribile, in quanto non si dice “questa è la realtà” bensì “così dovrebbe essere”: comportatevi razionalmente e la realtà sarà razionale; agite come macchine razionali e l’economia funzionerà come un sistema equilibrato e perfettamente prevedibile.
Questa idea è l’asse portante del modello matematico di Black-Scholes-Merton (introdotto negli anni settanta dagli economisti matematici Fisher Black e Myron Scholes e rielaborato dall’ingegnere elettronico Robert Merton), che vuol descrivere l’andamento nel tempo di prodotti finanziari (come un portafoglio di azioni, obbligazioni e valute) e di opzioni definite su di essi. Le ipotesi del modello sono semplici: il rendimento del portafoglio è pari a un tasso d’interesse costante privo di rischio, i prezzi seguono un andamento del tipo “moto browniano”, le attività finanziarie sono tutte perfettamente divisibili e anche il tempo è continuo, in altri termini le attività si spalmano nel tempo per frazioni arbitrariamente piccole di prodotti finanziari. Si tratta di ipotesi irrealistiche che sono state accettate in quanto le si è ritenute capaci di realizzare un mercato finanziario prevedibile. E qui è nato il guaio, perché, a differenza dei modelli iperastratti dell’equilibrio generale, il modello di Black-Scholes-Merton è applicabile ed è stato applicato, eccome: si è dato a credere che bastasse farlo girare nei computer per realizzare il miracolo di un’economia “razionale”, e mezzo mondo finanziario ci ha creduto.
Il crack della finanziaria Long Term Capital Management nel 1998 (3,5 miliardi di dollari di buco) avrebbe dovuto mettere sull’avviso che il mondo è fatto da uomini che non sono “razionali” in quel senso cui la teoria economica si è ostinatamente impiccata. Niente da fare. Il resto è storia di oggi: l’Homo sapiens si è imposto sull’Homo rationalis e si è avuta la manifestazione più clamorosa dell’incapacità di prevedere i processi economici.
Se davvero dominasse un atteggiamento “scientifico” – nel senso comune di un pensiero aperto e scevro da pregiudizi – bisognerebbe fronteggiare con umiltà questo crollo delle certezze. Invece, tocca pure sentir riproporre la lezioncina sui principi di “razionalità” che dovrebbero governare le scelte economiche “scientifiche” con la prosopopea di chi è reduce da Austerlitz anziché da Waterloo. Il rischio è che, passata la tempesta, si ricominci daccapo a razzolare secondo i principi dell’Homo rationalis.
In fondo questa vicenda serve a illuminare meglio uno degli aspetti caratteristici dello scientismo di oggi e che emerge in altri contesti come quello delle scienze biologiche, in breve in tutti i contesti in cui intervengono fenomeni vitali o soggettivi che determinano condizioni enormemente più complesse dei fenomeni del mondo inanimato. L’osservazione che spesso si sente fare è la seguente: se, come si dice e talora si lamenta, queste scienze hanno una così grande capacità di intervento e riescono a influire in modo così significativo sui processi biologici e sociali, vuol dire che esse si avvalgono di conoscenze acquisite di grande valore. E allora perché mai occorrerebbe arrestare o controllare un’attività che accresce la conoscenza? Non sarebbe questa una forma di oscurantismo nemico della scienza e della ragione?
Ebbene, la risposta è che le cose non stanno affatto in questi termini. L’accrescimento della capacità di intervento non corrisponde in generale affatto a una crescita di conoscenza. Anzi, in certi casi accade persino il contrario. La teoria economica ne è l’esempio più clamoroso. Sono lontani i tempi in cui Vilfredo Pareto – che finì col rendersi conto delle illusioni razionalistiche della teoria dell’equilibrio economico – prendeva in giro Walras osservando che nessuna nazione si era arresa all’evidenza delle sue dimostrazioni matematiche. Mezzo mondo finanziario si è adeguato al modello di Black-Merton-Scholes e ancor oggi pochi hanno il coraggio di dire ad alta voce che esso andrebbe gettato al cestino e il Nobel ritirato ai suoi autori. L’impatto pratico dell’ideologia della “razionalità”, distillata in varie ricette tutte derivanti dalla stessa matrice, è stato ed è enorme. Tuttavia, il fondamento teorico “scientifico” delle teorie connesse è inconsistente e, corrispondentemente, i risultati sul piano predittivo e applicativo sono men che mediocri. Insomma, una pseudoscienza onnipresente e onnipervasiva quanto inefficace e priva di fondamento. La realtà si incarica di dimostrarlo: l’unico modo efficace di affrontare la crisi è pragmatico.
Non ci sogneremmo di emettere giudizi tanto severi nel caso della genetica o delle neuroscienze che sono basate su solidi fondamenti fattuali e sperimentali. Ma anche qui nasce un grave problema di previsione. È da tempo che la stessa fisica ha dovuto abbandonare l’idea della previsione perfetta. Ancora negli anni cinquanta John von Neumann, nel fondare i principi di una meteorologia scientifica, poteva sostenere che l’uso di adeguati modelli matematici, la capacità di risolverli numericamente con il calcolatore mediante approssimazioni sempre più spinte, congiunta a un sistema capillare di rilevazione dei dati, avrebbe condotto a previsioni sempre più precise ed estese nel tempo, fino al punto di poter persino controllare il clima. Oggi noi sappiamo quanto questa fosse un’illusione. E, se non bastassero le conoscenze teoriche sulle proprietà dei modelli usati a farci capire che esistono ostacoli di principio a un illimitato perfezionamento delle previsioni, è sufficiente la constatazione dei fatti. Giorni fa un giornalista scientifico, di fronte al caos di opinioni contrastanti concernenti l’effetto serra, lanciava un appello accorato: «scienziati, mettetevi attorno a un tavolo e risolvete il problema». Santa ingenuità. Non c’è tavolo che possa oggigiorno risolvere un simile problema, semplicemente perché non esiste una base teorica adeguata ad affrontarlo. E se le cose stanno così in meteorologia chi può seriamente pensare che sia possibile prevedere gli effetti a medio e lungo periodo di manipolazioni genetiche condotte in modo massiccio ed esteso? Gli interventi che vengono fatti possono anche essere perfettamente determinati in relazione all’effetto “locale” ma per il resto si muovono al buio. Difatti, si interviene per lo più per prevenire un effetto (una malattia) di cui si conosce soltanto molto vagamente il grado di probabilità di svilupparsi; e non si ha alcuna idea delle implicazioni che avranno interventi estesi di modificazione genetica sulla popolazione. Pertanto, anche qui ci troviamo di fronte a una scienza che ha certamente la capacità di intervenire massicciamente sulla realtà e che tuttavia si muove entro un panorama conoscitivo molto ristretto.
Questa situazione di insufficienza teorica è ancor più evidente nel caso delle neuroscienze. Siamo informati quotidianamente delle “scoperte” circa i processi cerebrali che sarebbero alla base dei processi mentali. Qui il discorso sarebbe molto lungo e meriterebbe una trattazione a parte. Ci limitiamo ad osservare che nessuno può seriamente contestare che mentre si pensa qualcosa accade sempre nel cervello. Ma se si pretende di ricostruire il nesso causale che conduce da un processo cerebrale a un pensiero, non basta individuare l’“accensione” di qualche area neuronale in relazione a un certo tipo di attività mentale, altrimenti ci si limita alla descrizione vaga di una generica correlazione. Per fornire una descrizione scientifica propriamente detta che dimostri il legame di causa-effetto tra attività cerebrale e mentale occorrerebbe descrivere in modo preciso e dettagliato come un processo neuronale produca quel determinato pensiero e non in modo meramente formale bensì mostrando come i neuroni ne generino il significato. Un simile obbiettivo è immensamente più ambizioso di una previsione esatta degli eventi atmosferici sul medio periodo ed è quindi fuori della portata di qualsiasi forma di analisi scientifica conosciuta. Chi lo dichiari praticabile non è una persona seria.
Ammettere che la conoscenza scientifica ha dei limiti non significa essere nemici della scienza. Al contrario. Rende un pessimo servizio alla scienza chi la confonde con l’onniscienza. E rende un pessimo servizio alla società chi su tale inesistente onniscienza vuole fondare i diritti di un’onnipotenza.
(Il Foglio, 8 aprile 2009)

25 commenti:

Andrea Cortis ha detto...

... agite come macchine razionali e l’economia funzionerà come un sistema equilibrato e perfettamente prevedibile. Ed in effetti e' questo e' il comportamento razionale che ci si sente ripetere qui negli USA da quando e' iniziata questa crisi ... comprate gente, spendete e spandete o voi che potete, ...

Neanche a dirlo la gente continua indefessa a comportarsi in modo "irrazionale", e comincia finalmente ad utilizzare l'irrazionalissimo porcellino!

Gianfranco Massi ha detto...

Dal 1945 siamo entrati nell' era atomica. La scienza ha fatto ulteriori progressi in ogni campo.
Eppure nessuno sa che cosa sta succedendo, ora, sopra e sotto di noi. Ancor meno in campo economico. Lo dimostrano i maremoti e i terremoti che restano imprevedibili,( anche se potremmo ridurne gli effetti). Lo dimostra questa crisi economica.
Per non parlare dei conflitti tra popoli che rendono sempre più precaria la pace.
A noi "olivastri", - come ci chiama l' apostolo Paolo [Rom 11] - innestati nell' "olivo buono", non resta che attendere "i tempi escatologici".
L' escatologia, come la vulcanologia, non sa prevedere dove e quando accadrà, ma di sicuro il Terremoto accadrà.

Luigi Sammartino ha detto...

Paul Volcker, ex governatore della Fed, ha dichiarato che le teorie economiche prevalenti, fondate sul principio di razionalità dei mercati, hanno fallito la prova del mercato reale.

Queste teorie economiche sono state applicate dal MIT, dalla Business School dell'università di Harward a dall'Università di Chicago alla gestione dello stesso loro patrimonio, e le perdite sono state enormi.

Eppure un forte scetticismo nei confronti dell'Economia Matematica era già stato espresso da Ludwig von Bertalanffy, uno dei padri fondatori della moderna teoria dei sistemi.

broncobilly ha detto...

"...un conto è dire che... da quando esiste il sistema capitalistico, nessuno è stato capace di proporre un sistema migliore. Ben altro discorso è scendere sul terreno della teoria economica e asserire l’intrinseca perfezione del sistema capitalistico..."

Le critiche mi sembrano un po' severe, anche perchè non penso che qualcuno pronunci mai l' ultima asserzione.

Detto questo le convenzioni di "razionalità" ed "efficienza" me li terrei ancora stretti. La loro semplicità ripaga con gli interessi i mille fallimenti e le molte cofutazioni a cui vengono quotidianamente sottoposti. Una teoria non persuade solo per il fatto di essere vera.

Mi chiedo piuttosto come mai chi appronta i rimedi alla crisi lo fa volente o nolente ancora sulla base di quelle teorie.

E mi chiedo anche perchè nelle Università questi concetti non cedono spazio. E' forse al lavoro una lobby accademica? Non penso proprio, la cosa dura da troppo tempo.

Il fatto è un altro: è da ingenui aspettarsi che basti confutare un' ipotesi per spazzarla via. Un pragmatista direbbe che una critica senza conseguenze pratiche non ha nemmeno conseguenze teoriche. Molte critiche che si sentono sono proprio di questo tipo.

Forse una buona teoria non la si giudica solo in base alle confutazioni che riceve ma piuttosto in base al costo indotto dalla sua approssimazione e in relazione alle alternative disponibili.

Luigi Sammartino ha detto...

C'è un punto nell'argomentazione di broncobilly che trovo molto interessante. Mi riferisco al passaggio finale del post che lui ha allegato assieme al suo commento.

My methodological pluralism does have one limit, however, any argument should be honest. Unfortunately the ethics of my profession are shameful—many economists keep searching for more “predictive power,” defined in terms of misleading indicators such as t-statistics, with little regard for whether the results actually mean anything. For too many economists, getting published is the only thing that matters.
In effetti, siamo proprio sicuri che qui si tratti soltanto di una questione epistemologica?

Mi spiego meglio: in che modo una teoria economica si dimostra migliore di un'altra? Sulla base di una valutazione di tipo empirico, o forse c'è di mezzo anche molta disonestà intellettuale?

Caroli ha detto...

Richiamo il fatto che l'argomento del post è la scienza, non le penose arrampicate sugli specchi per tentare di attribuire dignità scientifica alle teorie economiche, o, peggio, al comportamento umano.

broncobilly ha detto...

Mi siano consentite ancora due considerazioni a difesa dell' ortodossia neoclassica.

Il modello neoclassico puo' essere visto come la rappresentazione di un mondo ideale: una lista di condizioni necessarie per avere certi effetti auspicabili. Spesso la sua utilità consiste nel verificare quali lacune si siano prodotte nel caso concreto.

Esempio, se davvero la descrizione delle "aspettative razionali" si esaurisse in quanto detto, molto semplicemente i "cicli economici" non esisterebbero. Ma come è possibile tutto cio' visto che Lucas le introdice proprio per spiegare i cicli economici?

Il fatto è che Lucas le introduce anche e soprattutto per dirci dove esse hanno fallito nella storia (lui individua un' incapacità degli imprenditori nel discriminare tra l' oscillazione dei prezzi nell' industria e la variazione nel livello generale dei prezzi). C' è una regolarità anche negli "errori" e per descriverla occorre un puno di riferimento. Persino tutte le teorie Keynesiane possono essere ridotte ad un "errore" cognitivo ben specifico rispetto all' ortodossia neoclassica: la cosiddetta "illusione monetaria".

Oggi si agisce nella stessa maniera per tamponare la crisi: si guarda il modello, si rivelano le condizioni mancanti e si operano le compensazioni.

Non mi sembra poi che la filosofia del Long Term Capital Management sia riconducibile all' ortodossia neo-classica dei mercati finanziari visto che quest' ultima afferma chiaramente l' inesistenza di strategie razionali per "battere il mercato", ovvero riportare risultati sopra la media. Al limite la teoria ortodossa sconsglia il salvataggio a cura della politica.
. Cosa puntualmente fatta e che mina la validità della teoria stessa per il futuro.

Giorgio Israel ha detto...

Mi sia consentito di dissentire da ogni parola ma anche di non rispondere perché preferisco discutere con libri e articoli specializzati anziché con Wikipedia.

broncobilly ha detto...

Ecco un buon libro di riferimento che riassume la visione standard dei mercati finanziari (... asset prices typically exhibit signs of random walk and... one can not consistently outperform market averages...) con relativa bibliografia specialistica. Ne approfitto per indicare il link più corretto in merito.

Sul corretto ruolo che hanno le aspettative nell' impianto del Nobel Lucas ho attinto da un suo feroce critico, il Nobel Herbert Simon: Scienza economica e comportamento umano. Edizioni Comunità p.30.

Giorgio Israel ha detto...

Il link "più corretto" è sempre Wikipedia... La sua idea di cosa sia il modello neoclassico è ingenua e quindi, mi scuserà, ma non trovo materia di discussione.

Giorgio Israel ha detto...

Memento: questa è la season 2. Cfr. post del 22 gennaio al punto 2.

broncobilly ha detto...

Ottimo il messaggio del 22.1. Il punto 2 poi è il mio preferito, contiene molte verità e lo sottoscrivo, specie questa: certo che in rete viene spontaneo di fare quello che si vergognerebbero come ladri di fare altrove: sparare sentenze apodittiche.

Facciamo un esempio per non rimanere sul vago.

"... esistono atti di fede come la cieca credenza secondo cui il mercato possiede la virtù salvifica di autoregolarsi, da cui la prescrizione assoluta di liberarlo da ogni intralcio e intervento esterno. È un’antica convinzione che risale almeno alla celebre metafora della “mano invisibile” di Adam Smith e che, da Walras e Pareto alla scuola dei Chicago boys di Milton Friedman..."
Quindi Milton Friedman e i Chicago boys chederebbero che il mercato "venisse lasciato libero da ogni intralcio in modo di autoregolarsi"!?

Ma se i suddetti "richiedono" addiritura che la nel mercato della moneta venga istituito un MONOPOLIO di legge con la creazione di una banca centrale proprio perchè ritenevano che il mercato non fosse in grado di autoregolarsi!!! MONOPOLIO COERCITIVO, altro che "lasciato libero di autoregolarsi".Il conflitto che ha ingaggiato Friedman con il free-banking ispiratosi all' Hayek di 'Denationalisation of Money' dov' è finito?

E il bello è che la perla di cui sopra è stata probabilmente confezionata da chi aveva in mente proprioi mercati finanziari, visto che prendeva spunto dalla crisi finanziaria in atto per svolgere alcune considerazioni. Come capita spesso con i suoi critici, Friedman non è stato nè letto, nè sfogliato.

D' altronde saltabeccare con troppa disinvoltura tra fisica, economia, pedagogia e politica estera riserva anche di questi inciampi.

Mi scusi per questa focaccia, ma non avevo gradito molto il suo pane.

Giorgio Israel ha detto...

Aggiungo un piccolo compendio elementare ma corretto di nozioni di base:

«Nella teoria microeconomica la crisi degli anni settanta è drammatica: nel 1974 è dimostrato che non esiste una base scientifica per ritenere che i mercati assegnino le risorse della società in maniera efficiente. Ciò avrebbe dovuto essere sufficiente per dichiarare chiuso il programma di investigazione teorica basato sulla fede nella bontà del libero mercato. Ma nel mondo accademico gli economisti preferirono ignorare i problemi. Da allora, vediamo uscire dalle università legioni di economisti che credono (senza fondamento) che da qualche parte esiste una teoria rigorosa che dimostra che i mercati assegnino le risorse della società in maniera efficiente.
Milton Friedman, l'esponente più rappresentativo della cosiddetta corrente monetarista, riabilita alcuni principi della tradizione classica e individua come causa prevalente dell'inflazione la pretesa dello Stato di forzare i meccanismi del mercato. Friedman ha approfondito il ruolo svolto dalla moneta nei processi economici rimettendo in discussione l'interpretazione keynesiana del comportamento monetario degli individui, così come le loro scelte di consumo e risparmio. Sotto la sua guida sorse una visione dell'economia secondo la quale "l'inflazione è sempre e comunque un fenomeno monetario". In base a questo principio, la variabile chiave per stabilizzare i prezzi sarebbe l'offerta monetaria. La base di tutto questo ragionamento è la fede assoluta nella stabilità dei mercati in un'economia capitalista (esattamente il contrario di ciò che la teoria microeconomica aveva scoperto, e nascosto, nel 1974). Quindi, la "ricetta" di Friedman per controllare l'inflazione consiste in primo luogo nell'adottare misure dirette a frenare il credito e la creazione di moneta. Queste misure sono dirette a mantenere un ritmo uguale dell'aumento di massa monetaria (e della domanda che ne deriva) e l'aumento dell'offerta di beni e servizi. Friedman sostiene che questo equilibrio tra domanda e offerta non può avvenire se non attorno a un tasso naturale di disoccupazione, che deve essere accettato in quanto fenomeno strutturale del processo economico.  
Altri autori della corrente monetarista, più radicali di Friedman, sostengono il principio delle aspettative razionali nel cui ambito gli operatori economici sono dotati di un grado di informazione non inferiore a quello dello Stato (cfr. R. Lucas, T. Sargent, R. Hall, R. Dornbhsch). Ne segue che se tutti hanno le stesse informazioni, si crea una situazione nella quale nessuno possiede le informazioni in grado di influenzare i comportamenti altrui. Questa situazione riporterebbe in auge lo schema della concorrenza perfetta e toglierebbe allo Stato ogni diritto di intervenire nel settore dell'economia, in quanto potenzialmente perturbatore di un sistema di per sé autoregolato».

Caroli ha detto...

E allora, come spiega, il ragionamento di Friedman, il riferirsi ad un "rischio deflattivo" a cui si è fatta menzione nel tentare una risposta coerente alla corrente crisi economica? C'è qualcosa che non mi torna. Il "sistema autoregolato" a me pare una chimera. Sbaglio? Grazie.

Giorgio Israel ha detto...

Che il sistema autoregolato sia una chimera non c'entra niente col fatto che il paradigma centrale dell'economia neoclassica in tutte le sue versioni è l'idea di rimuovere qualsiasi intralcio che impedisca al mercato di mettere in opera la sua capacità omeostatica di raggiungere l'equilibrio. Che questo implichi degli interventi è ovvio. Perciò chi vede nel fatto che si predichi la necessità di un qualche intervento una contraddizione con la credenza in quella capacità (lasciar libera la mano invisibile di operare) non ha compreso l'essenza della questione. Walras era socialista e credeva nella necessità di operare interventi al fine di realizzare le condizioni di comportamento razionale (illimitata preveggenza e illimitato egoismo) capaci di liberare questa capacità del mercato di autoregolarsi. La ricetta di Friedman mira a creare le condizioni per realizzare l'equilibrio tra domanda e offerta e implica ovviamente la necessità di interventi. Non viviamo in un mondo ideale, lo stato esiste, le regole esistono, e chi crede in quella capacità del mercato cerca le soluzioni affinché essa si sviluppi pienamente, liberandolo dai vincoli.
Comunque, ripeto, tutta la storia del paradigma neoclassico ruota attorno all'idea della virtù autoregolatrice del mercato, purché libero di muoversi secondo condizioni di perfetta "razionalità"; ovviamente variamente declinata nelle diverse interpretazioni. Perciò, insisto, credere che esista una contraddizione tra la proposizione di misure e interventi e il nutrire quella credenza, è una pura e semplice cantonata.
Francamente non volevo più intervenire su questa faccenda, perché non mi pare opportuno copiare sul blog un libro intero scritto sul tema per i principi adottati da gennaio. Lo faccio per una volta e qui chiudo.

Caroli ha detto...

Tutto chiaro, grazie.

broncobilly ha detto...

Dunque, secondo la teoria neo-classica il mercato si autoregola ma ha bisogno di un continuo intervento esterno (mano visibile) affinchè si autoregoli.

Mi sembra un passo avanti rispetto alla "... prescrizione assoluta di liberarlo [il mercato] da ogni intralcio e intervento esterno...". Una formula che non lascia certo presagire sbocchi socialisteggianti.

La precisazione inoltre fa capire un po' meglio la funzione che di fatto svolgono oggi i modelli neoclassici: indicano dove intervenire.

Anche perchè concetti come "bene pubblico", "dilemma del prigioniero", "asimmetria informativa", "esternalità negativa" (concetti in nome dei quali opera la mano visibile), da dove arrivano se non dal paradigma neoclassico dello studio dell' economia?

Sarebbe bene ora proseguire sciogliendo il connubio tra Homo economicus e liberismo ("... prescrizione assoluta di liberare il mercato da ogni intervento esterno...").

Tanto per (ri)fare un esempio, nel paradigma austriaco in salsa hayekiana (concorrente di quello neoclassico), l' operatore economico non è certo un Homo economicus, eppure si critica proprio quella robusta mano visibile che la teoria neoclassica tende invece a giustificare (il monopolio statale sulla moneta è un caso lampante).

Giorgio Israel ha detto...

Pubblico questo commento - ma è davvero l'ultima volta - per mettere in luce perché certe discussioni sono inadatte ai blog, e perché stavo per chiuderlo.
Qui non c'è nessun passo avanti o indietro e nessun cammino virtuoso in cui dovrei proseguire per emendarmi.
In estrema e rozza sintesi il punto è il seguente.
L'economia "scientifica" ha tentato di modellarsi sull'esempio della fisica matematica newtoniana ricercando una legge di comportamento del mercato analoga alla legge di gravitazione universale. Solo che tale legge ha un carattere di assoluta oggettività nel "sistema del mondo" mentre il sistema economico è "perturbato" da comportamenti umani "sciocchi" o "irrazionali" che oscurano la legge naturale che permetterebbe al mercato di portare l'economia in equilibrio. In tal senso la prescrizione assoluta è di liberare il mercato da intralci e interventi esterni, consentendo soltanto quelli che permettano alla mano invisibile di esplicarsi in piena libertà. Questo si realizza scoprendo qual è il comportamento autenticamente "razionale" che l'homo oeconomicus deve seguire al fine di non intralciare il mercato con interventi irrazionali e stupidi. Se l'agente si conformerà a tale razionalità naturale, che la teoria si incarica di scoprire, non resterà che lasciare al mercato di agire da solo. Inutile dire che attorno a tale questione si apre una panoplia di risposte che gravitano attorno alla definizione di razionalità e che si scontrano col fatto che il comportamento dell'atomo sociale risulta infinitamente più complesso e difficile da definire (normativamente) di quello dell'atomo materiale (cfr. Koyré; e tutte queste questioni, incluso il fondamentale carteggio tra Walras e Poincaré sono discusse in Ingrao, Israel, "The Invisible Hand", MIT Press, 1990, 2a ed. 2000).
Il vero tallone d'Achille delle teorie neoclassiche (e in generale del mainstream) è proprio la nozione di razionalità. Anche la teoria dei giochi (sia pure nata in un contesto di rottura con il paradigma neoclassico) è impiccata attorno a questa enorme difficoltà e alla povertà estrema delle definizioni su cui si basa. Al punto che esistono manuali di teoria dei giochi scritti da due autori in cui, nella definizione di strategie miste si dividono e scrivono pagine separate...
Fra l'altro, il "dilemma del prigionerio" è stato proprio escogitato da due matematici della RAND per ridicolizzare il concetto di razionalità sottostante alla nozione di equilibrio di Nash. L'aspetto tragicomico della faccenda è che poi tanti l'abbiano preso sul serio dimenticando che si trattava di una burla e che sarebbe stato più opportuno non dimenticare la portata critica in esso contenuta.
Comunque, neanche i più accaniti difensori del paradigma neoclassico si sognano di negare che il centro del paradigma sia il carattere omeostatico del mercato e che questo porta a un mare di difficoltà nella definizione di una "razionalità" che dovrebbe sciogliere il complesso rapporto tra normativo e descrittivo (rapporto che non si pone nel campo delle scienze fisico-matematiche).
Tutte queste sono questioni molto delicate e complesse che non si risolvono in un blog, tantomeno a colpi di sentenze apodittiche, oltretutto enunciate in tono polemico, pretendendo, non sa si in nome di quale autorità, passi avanti e "prosecuzioni" di correzioni. Dopo trent'anni che mi occupo di queste cose e che ne ho discusso con specialisti, anche personalmente con autorità come Debreu o Arrow, dovevo sperimentare su un blog un simile livello di discussione? Mi si vuol veramente convincere che il blog, anziché essere un modo leggero di diffondere idee e stimolare riflessioni - che, ove si intenda svilupparle in modo più profondo, vanno condotte altrove e con altri mezzi - è soltanto uno strumento di involgarimento intellettuale e culturale e di caduta di stile nell'apostrofare l'interlocutore? Perché ho già censurato il peggio, venuto dopo il richiamo al punto 2 del post del 22 gennaio, che avrebbe dovuto suggerire un atteggiamento più modesto e riflessivo.

Alessandro ha detto...

Caro prof. Israel,
condivido pienamente le sue posizioni e le lascio un piccolo contributo che le potrà forse interessare di critica razionale delle scienze 'dal lato sperimentale'

http://www.iss.it/publ/anna/2008/3/443211.pdf

Cordialmente
Alessandro Giuliani

Fabio ha detto...

Gentile prof. Israel, ricordo quando nei suoi articoli post-crisi economica condannava i tentativi del riduzionismo di spiegare realtà complesse e multiformi con modellini matematici tanto belli quanto inutili.
Ricordandomi di quella sua critica, stamane sono saltato sulla sieda e mi sono anche piuttosto irritato alla lettura della seguente notizia (neretti miei):

La diffusione di Internet negli ultimi anni ha portato un’apertura grazie alla quale, oggi, chiunque può aprire un sito web. Peccato, però, che non tutti i siti contengano delle informazioni credibili, in particolar modo i blog. E’ questo il motivo per cui alcuni ricercatori stanno cercando di sviluppare un sistema che permetta di analizzare automaticamente il contenuto di un sito stabilendo un criterio di credibilità. I ricercatori, di provenienza austriaca, stanno lavorando ad un programma che analizzi la lingua utilizzata per i blog al fine di classificarne il contenuto come altamente credibile, mediamente credibile o poco credibile. Il codice guarda la distribuzione delle parole, confrontandone il contenuto con articoli presenti su siti autorevoli e realizzando il paragone.Io studio ingegneria informatica e sono abbastanza familiare con questi procedimenti (ossia usare valutazioni di carattere puramente statistico per individuare situazioni che sono solo vagamente condizionate), però sapevo cosa stavo facendo e, soprattutto, cercavo immagini di scacchiere nelle fotografie... non la verità giornalistica!

Giorgio Israel ha detto...

La madre degli idioti è sempre incinta

Alessandro ha detto...

Non perdiamo di vista il punto principale, qui non si tratta di vedere cosa ha detto questo o quell economista ma di ammettere che negli anni nessun modello economico è riuscito a prevedere alcun che nè sul piano macroeconomico che microeconomico.
Lo stess è accaduto a noi biofisici con la predizione della struttura tridimensionale delle proteine a partire dalla sequenza nonostante il problema fosse molto più facile e ben posto.
'Big Blue', il progetto IBM che affrontò il tema con la pura 'forza bruta' di decine di migliaia di strutture proteiche di cui trovare le regole che le legavano alle loro sequenze aminoacidiche con sistemi empirici (reti neurali, statistica multidimensionale ecc.) è fallito miseramente così che Big Blue è stato riconvertito al gioco degli scacchi dove la 'chiusure logica' del gioco ha consentito al sistema di comportarsi benissimo.
Noi sappiamo praticamente tutto sulla solvatazione dei polipeptidi ma non riusciamo a fare uno straccio di previsione su QUEL particolare sistema. E' la crisi del pensiero per categorie che ci ha spinti a considerare le ISTANZE REALI di una nostra idea (quella particolare proteina, quella particolare azienda) come copie imperfette del nostro modello ideale, senza capire che quello che era imperfetto era il modello ideale non la sua istanza reale.
Alla lunga questo atteggiamento ha portato la nostra scienza sempre più lontana dalla realtà e sempre più arrogante, se ne è andata a vivere in un sistema autoreferenziale dove scienziati scrivono su quello che hanno detto altri scienziati, è una deriva pericolosa, molto pericolosa, è di fatto una resa nei confronti di una reale presa sul mondo.

Alessandro ha detto...

Non perdiamo di vista il punto principale, qui non si tratta di vedere cosa ha detto questo o quell’ economista ma di ammettere che negli anni nessun modello economico è riuscito a prevedere alcun che nè sul piano macroeconomico che microeconomico.
Lo stesso è accaduto a noi biofisici con la predizione della struttura tridimensionale delle proteine a partire dalla sequenza nonostante il problema fosse molto più facile e ben posto.
'Big Blue', il progetto IBM che affrontò il tema con la pura 'forza bruta' di decine di migliaia di strutture proteiche di cui trovare le regole che le legavano alle loro sequenze aminoacidiche con sistemi empirici (reti neurali, statistica multidimensionale ecc.) è fallito miseramente così che Big Blue è stato riconvertito al gioco degli scacchi dove la 'chiusure logica' del gioco ha consentito al sistema di comportarsi benissimo.
Noi sappiamo praticamente tutto sulla solvatazione dei polipeptidi ma non riusciamo a fare uno straccio di previsione su QUEL particolare sistema. E' la crisi del pensiero per categorie che ci ha spinti a considerare le ISTANZE REALI di una nostra idea (quella particolare proteina, quella particolare azienda) come copie imperfette del nostro modello ideale, senza capire che quello che era imperfetto era il modello ideale non la sua istanza reale.
Alla lunga questo atteggiamento ha portato la nostra scienza sempre più lontana dalla realtà e sempre più arrogante, se ne è andata a vivere in un sistema autoreferenziale dove scienziati scrivono su quello che hanno detto altri scienziati, è una deriva pericolosa, molto pericolosa, è di fatto una resa nei confronti di una reale presa sul mondo.

broncobilly ha detto...

"...negli anni nessun modello economico è riuscito a prevedere alcun che nè sul piano macroeconomico che microeconomico..."

Penso che dietro ad uscite di questo tenore, più che un' errata valutazione ci sia dell' ignoranza.

A questo proposito esemplare è il cristallino editoriale sul Sole 24 di oggi in cui Roberto Perotti considera alcune pigre critiche rivolte agli economisti accademici:

"Gli economisti non hanno previsto nè capito la crisi perchè la metodologia prevalente si basa su modelli troppo astratti e matematici...".

Perotti: questa critica è frutto dell' ignoranza...

"Gli economisti guardando la realtà con la lente perversa di ipotesi assurde come le aspettative razionali, l' informazione completa, i mercati efficienti...".

Perotti: anche questa critica è frutto di una profonda ignoranza...

"Gli economisti non hanno previsto la crisi".

Perotti: qui c' è molta confusione, ai sismologi nessuno chiede di prevedere i terremoti... si domanda invece una valutazione seria delle conseguenze e di come debbano essere affrontate.

"Molti non economisti hanno previsto la crisi...".

Perotti: falso.

Dopodichè, si passa giustamente all' analisi di accuse più serie e circostanziate. Es.: la maggioranza degli economisti non ha nè previsto nè capito la crisi perchè era all' oscuro di sostanziali innovazioni nel mercato del credito...

Giorgio Israel ha detto...

Pubblico questo commento perché è emblematico.
Quando ci si riduce a tentare di liquidare il punto di vista altrui ricorrendo all'insulto ("ignoranza") si da soltanto prova di una gran debolezza.
Discutere così non è consentito a nessuno, nemmeno a Perotti - che peraltro non è né Adam Smith né von Hayek - figuriamoci a lei: quale competenza speciale e con quale autorità si permette di sentenziare sull' "ignoranza" altrui?
Che Perotti sentenzi (e lei in coda) "frutto di profonda ignoranza" è soltanto manifestazione di una debole e miseranda arroganza. A Perotti si potrebbe rispondere adducendo l'opinione contraria di fior di specialisti di autorità ben maggiore, ma combattere così, a suon di colpi di mazza ferrata, può essere divertente se uno concepisce le discussioni di merito come incontri di wrestling.
Tutto ciò è soltanto indicativo di quanto il castello di una certa casta di economisti caschi a pezzi da tutte le parti.
E comunque l'articolo di Perotti andrebbe letto per intero, il che lei si guarda bene dal fare. Difatti, la seconda parte contiene critiche pesanti agli economisti, in merito alle quali ci sarebbe da rilevare una contraddizione: è credibile che quegli errori che l'articolista imputa agli economisti non siano legati all'ideologia che ne ha ispirato scelte e previsioni? E se si approfondisce la questione non si finisce a rimettere in discussione proprio quei difetti che Perotti troppo sbrigativamente liquida?
Ma qui entreremmo già in una discussione civile e di merito, il che è fuori da questo contesto.
Chiuso il discorso.