venerdì 19 dicembre 2014

"TEDIO" contro scholé: il fallimento del merito della “buona scuola"

È usuale ripetere che Silvio Berlusconi non è riuscito a realizzare nessuno dei progetti che ha avanzato nel corso di un ventennio. Ma non è vero. Perché vi è un ambito in cui ha vinto, stravinto e anzi ha travolto qualsiasi opposizione: ed è quello dell’istruzione con lo slogan della “scuola delle tre i” (internet, inglese, impresa), vittoria che si estesa anche all’università. Non soltanto tutto il centrodestra si è allineato a questa formula, con l’emarginazione di residui ambienti di conservatorismo tradizionale; ma essa è dilagata in larga parte della sinistra che l’ha fatta propria e persino interiorizzata sul piano ideologico, mentre la derideva e protestava salendo sui tetti contro le politiche dell’istruzione dei governi berlusconiani.
Così abbiamo assistito all’invasione patrocinata con complicità trasversale di strumenti come le Lim (Lavagne interattive multimediali), ormai persino obsolete e spesso inutilizzabili in scuole che non hanno neppure i mezzi per riparare i gabinetti; mentre si prepara, con un coro di consensi, l’invasione dei tablet, in scuole che quasi mai hanno la banda larga, senza il minimo interesse per i contenuti che debbono trasmettere, tanto questa è l’ultima cosa che conta, e chi solleva il tema viene gratificato da sorrisini di sufficienza.
Così stiamo assistendo al dilagare delle lezioni in inglese, spesso tenute da docenti che non ne controllano più di qualche centinaio di parole, e non soltanto in materie tecniche. Si racconta di scene esilaranti di lezioni universitarie di estetica o storia dell’arte tenute a studenti dell’estremo oriente, che non conoscono l’inglese e sono venuti qui per studiare l’italiano e i beni artistici e culturali del nostro paese. Intanto si prepara la valanga dei corsi in lingua inglese nei licei per tenere i quali non esiste neppure una quota accettabile del personale qualificato necessario.
Quanto all’ideologia dell’impresa come modello universale, anche qui il trionfo è andato oltre ogni aspettativa. Non si tratta davvero di rimpiangere certi atteggiamenti ostili al mondo imprenditoriale in voga nell’estrema sinistra, ma di qui a bere la favola che l’impresa sia un modello perfetto di promozione del merito ne corre: basta guardarsi attorno e pensare alla crisi che stiamo attraversando. Ma neppure questo è il punto ed è penoso dover ripetere un concetto di elementare evidenza, rischiando di far la figura degli smemorati. Il mondo non è unidimensionale. Il criterio che presiede alla promozione del merito nell’impresa è intrinsecamente e radicalmente diverso da quello che presiede alla valutazione e promozione dei meriti intellettuali e culturali. È evidente che nel primo caso il criterio debba essere quello della soddisfazione del consumatore (“customer satisfaction”): se acquisto uno smartphone e non funziona, una scatola di alimenti che risultano guasti, ho il pieno diritto di protestare, essere rimborsato e poi rivolgermi alla concorrenza. In questo ambito sono utili quei confronti del rapporto qualità/prezzo che possono orientare il consumatore verso la scelta migliore. Ma se il ragazzo torna a casa con un 4 in matematica non è detto affatto, anzi è assai improbabile, che l’interessato e la famiglia abbiano il diritto di protestare con l’istituzione o il professore. Il 4 può, e spesso è, frutto di nullafacenza, trasandatezza, cattivo modo di studiare, e questo non può essere imputato alla scuola o università che sia. Lo slogan del “successo formativo garantito” è una solenne sciocchezza che mira alla formazione di persone tutte uguali, e chi lo avanza nel contesto di una società liberale è fautore di un grottesco connubio tra le ideologie del turbocapitalismo e del vecchio comunismo sovietico. La scuola può e deve tendere a far andare avanti tutti, però nella consapevolezza che si tratta di un principio orientativo, non conseguibile in modo pieno nella realtà, e che promozione del merito significa appunto premiare i migliori a svantaggio dei peggiori, che esistono, piaccia o no. Per questo, chi si straccia le vesti quando si dice che impresa e istruzione non possono essere accostati (e propone di omologare la seconda alla prima) sbaglia e di grosso. Anzi, non fa che propugnare un punto di vista che è all’origine dell’impossibilità di un’autentica promozione del merito nel campo dei beni immateriali e della conoscenza.
Difatti, il risultato è che l’insegnante deve diventare un passacarte e un “facilitatore” preposto all’esecuzione di ricette predisposte dalla tecnocrazia di turno; e il dirigente scolastico può essere bravo quanto si vuole, ma è plasmato dal ruolo istituzionale di rispondere alla “customer satisfaction” in una maniera che va bene per una ditta che produce seggiole ma non per un’istituzione che forma le persone e crea conoscenza e capacità. Costretto in quel ruolo imprenditoriale al dirigente scolastico non resta che premere sui docenti perché non diano voti bassi e non boccino troppo e predisporre un’offerta formativa accattivante e questo, più che prestare attenzione alla qualità dei corsi nelle materie fondamentali, significa proporre un contorno di attività collaterali che vanno dai corsi di danza a quelli di cucito o di yoga, in cui talora traspare l’affarismo. In certi casi le liste di queste proposte sono dignitose, in non pochi sono vergognose.
Questa lunga premessa conduce a spiegare perché il timido tentativo del piano della “buona scuola” di introdurre una progressione stipendiale degli insegnanti legata alla valutazione del merito stia miseramente fallendo. Nessuno può seriamente contestare la validità di un simile approccio rispetto a quello della progressione per anzianità, ma l’approccio di tipo imprenditoriale ha vanificato tutto. Se deve essere il dirigente scolastico, coadiuvato da una commissione, a valutare il merito, costui non dovrebbe essere un manager (magari neppure laureato) ma un preside, nel senso pieno del termine, ovvero il migliore tra tutti gli insegnanti. Tuttavia non un passo è stato proposto in questa direzione. Né ha senso stabilire delle quote prefissate di destinati alla progressione. Ma, soprattutto, è devastante l’idea che il merito non consista nell’essere un buon professore di italiano, di storia o di matematica, bensì nell’essere abile a mettere in piedi progetti “alternativi” che senza dubbio possono far pubblicità alla scuola ma per qualsiasi motivo eccetto che per quelli istituzionali. Del resto, come stupirsi che prevalga un andazzo verso il principio del TEDIO – Tutto Eccetto la Didattica Ordinaria, il contrario del greco “scholé” che significa ozio, ovvero spazio per l’autentica riappropriazione della propria identità e libertà – visto che abbiamo un sottosegretario che proclama la superiorità della didattica autogestita nelle occupazioni a quella ordinaria? È da chiedersi se egli abbia letto certe proposte circolanti da parte dell’“utenza” in tema di didattica autogestita, perché, se le avesse lette, la cosa sarebbe ancor più grave.

In conclusione, non è da stupirsi se un timido passo nella direzione della promozione del merito sia affondato di fronte all’opposizione di chi ha facilmente preso in mano la bandiera di critiche giuste, anche se non sempre con il migliore degli intenti: prova ne è che si sta tornando alla progressione stipendiale per anzianità. Così, l’unica lezione che occorre amaramente trarre da questa vicenda è che il dilagare di un approccio tecnocratico e anticulturale sta distruggendo persino la residua consapevolezza di cosa debba essere la verifica delle capacità di uno studente e di un insegnante nel sistema dell’istruzione. In una parola, ci riempiamo ogni giorno di più della parola “merito” allontanandoci sempre di più dal suo autentico significato.
(Il Mattino, 19 dicembre 2014)

13 commenti:

pupipupi ha detto...

Non ha idea (o forse sì) di quanti progetti alternativi riceve il liceo di mio marito: chi aderisce perde molte ore di lezione e riceve il plauso del preside! In compenso, ora che correggo le prove in ingresso di una facoltà letteraria, noto che circa un terzo degli studenti non sa scrivere, non dico in italiano, ma proprio in corretta grafia (impaginazione, uso del corsivo). Non c'è che dire: la neoscuola produce ottimi risultati!

Papik.f ha detto...

Il meccanismo è molto semplice; si premiano la scuola e il dirigente nelle misura in cui hanno aderito alle nuove iniziative, tipo tablet, registro elettronico, LIM, classe 2.0 e così via.
Nello stesso processo premiale non si tiene alcun conto dell'efficienza delle strutture tradizionali dell'istituto, e nemmeno della reale efficienza ed efficacia delle iniziative di cui sopra (della funzionalità delle reti wi-fi e della banda larga, appunto; ma anche, ad esempio, del fatto che chi insegna in inglese lo conosca veramente, o che un laboratorio, poniamo, di disegno informatizzato possieda il toner necessario alle stampanti).
Conseguenza voluta: il dirigente, essendo anch'egli un essere umano, eserciterà tutte le possibili pressioni sul Collegio dei docenti per mandare avanti le iniziative che consentiranno una migliore classificazione dell'Istituto e tenderà a trascurare tutto ciò che non serve a tal fine.
Un'ennesima rappresentazione all'italiana, nella quale conta soltanto l'apparenza e la sostanza va continuamente degradandosi.

Stefano Di Brazzano ha detto...

Per anni ho parlato contro il sistema della progressione degli stipendi per anzianità, ma ora come ora mi trovo a difenderla perché è il male minore. Premiando tutti premia anche i validi, mentre con gli altri sistemi proposti i validi rischiano seriamente di essere penalizzati. Speriamo almeno che le progressioni vengano ripristinate, ché attualmente siamo ancora in attesa di recuperare uno degli anni a suo tempo congelati.

Unknown ha detto...

Quali sono realmente i mali della Scuola? Una risposta su tutte: le scarse motivazioni di docenti e discenti.
Non vuole essere una generalizzazione, perché esistono lodevoli eccezioni, ma quello della motivazione è un problema sempre più consistente che andrebbe affrontato. Gli studenti sono sempre più svogliati e poco inclini nel credere nell’utilità della scuola; i docenti di riflesso credono sempre meno nell’efficacia della loro azione educativa seppur combattono strenuamente.
La motivazione è il frutto di fattori combinati: l’aspettativa che ognuno di noi ha di riuscire nel compito proposto, e la valenza del premio che otterremo una volta compiuto lo sforzo. Possono essere questi due fattori incanalati completamente dentro la Scuola senza un valido supporto esterno (la nostra società intesa come i valori che la costituiscono perché riconosciuti utili da tutti)?
La Buona Scuola affronta tutto questo? Non credo dalle proposte che ho letto, perché mirano principalmente all’organizzazione gestionale della scuola senza addentrarsi nella pratica didattica.
Anche Paolo Sestito, già presidente dell’Invalsi, afferma che: “Non esistono formule magiche per riformare la scuola… occorre fornire supporto e risorse alle scuole che operano in condizioni di contesto particolarmente difficili”.
Se non cambiano gli attori che fanno la scuola (docenti, studenti ed anche i genitori) modificarne la “scenografia” non produrrà effetti decisivi sulla recita (la vita scolastica per intenderci).
Proporre, ad esempio, di abolire la bocciatura nel biennio delle superiori è un falso modo di intendere il problema. Si da la colpa al termometro per curare la febbre. E’ come se per risolvere il problema degli automobilisti che passano con il rosso, si abolissero i semafori. L’effetto sarebbe devastante: è utile mandare avanti studenti in un indirizzo scolastico che forse non fa per loro?
Ho letto altre proposte che hanno come comune denominatore la parola abolizione: dei voti, delle note, delle bocciature, della campanella, del gruppo classe. Mi chiedo: se si tolgono questi elementi (per carità suscettibili di miglioramenti) che cosa resta della scuola? Quali sono le alternative valide? E’corretto risolvere i problemi eliminando le spie che ne segnalano la presenza?
La Buona Scuola non può, per sua natura, risolvere completamente il problema motivazionale proposto, perché questo ha origine profonde che esulano dal campo di applicazione di meri interventi normativi. Se la nostra società è attraversata da una crisi profonda di valori, non può essere la scuola l’isola felice al suo interno che ha il potere di risolvere tutto. Se uno studente risente in famiglia o altrove di un disagio interiore (e oggi ve ne sono di mille tipi) pensate che all’interno delle mura scolastiche l’alunno non manifesti il suo stato? La Buona Scuola che agisce dentro la scuola può anche risolvere i problemi che ve ne stanno al di fuori? Ovviamente no ma la mia non è una critica, bensì una semplice osservazione.
Non vi è dubbio che un ambiente scolastico più curato possa essere di stimolo per tutti ma la radice del problema è altrove: gli interventi proposti sono semplicemente “accessori”, curano le sfumature, non risolvono il problema più grande e lo nascondono sotto il tappeto. Si discuta invece su come far ritrovare le motivazioni agli studenti puntando sulla pratica didattica vera e propria. Finiamola col pensare, però, che la scuola debba diventare ludica per essere interessante.
Se ciascuno di noi farà la sua piccola parte, onestamente, la Buona Scuola la faremo tutti noi senza bisogno che qualcuno ce la imbocchi dall’alto.

Cristiano Villari

vfiore ha detto...

Posso fare un off-topic ?

L'Università di Cagliari, dove insegno, tramite il "Centro di Ateneo per la qualità", che ha fatto un battage di telefonate ai Direttori di Dipartimento e di CdS, ha proceduto alla "Attivazione corsi di formazione sulla metodologia di insegnamento nei CdS".

Ci saranno lezioni di pedagogia (come insegnare: io dopo 21 anni di università ho proprio bisogno di essere istruito da un pischello polit-corretto) e docimologia (come valuitare correttamente: non vorremo mica basarci su criteri tramandati dalla tradizione - una tradizione, la mia, già rilassata dal '68).

Fortunatamente il corso non è obbligatorio. Per ora.

Scusate lo sfogo. Saluti - V. Fiorentini

GiovaneDiLungoCorso ha detto...

Premetto che non sono un insegnate, ma un "frustrato" che lavora nell'impresa

Non capisco bene che idea di impresa abbiano i pianificatori della Buona Scuola. Molto irreale.
frustrato dalla miei esperienze lavorative per hobby leggo spesso testi di management per capire quanto siano stupidi i manager che ho incrociato sulla mia strada, e vedo che la Buona Scuola di errori ne commette molti
1)Non è corretto il metodo di selezionare tra le buone idee (le famose mail al sito) ma occorre creare un ambiente dove le buone idee possano emergere. Invece ho sentito dire che il collegio docenti avrà un valore solo consultivo. Pazzesco! Occorreva dare ancora più potere decisionale; se ne avesse avuto di più,lo Stato avrebbe risparmiato di comprare LIM per una scuola con pareti mobili in cui le LIM non possono essere installate.
2)E' assodato che il premio in denaro individuale, ha effetti disastrosi: diminuisce la collaborazione tra colleghi, demotiva chi non viene premiato. Inoltre la piramide carrieristica era visto come motivazione in un contesto fordista in cui l'interesse del contenuto del lavoro era scarso. Ora, non mi pare che il contenuto dell'isegnamento possa essere scarso: trasmettere ai giovani degli argomenti che si reputano interessanti, per me sarebbe un piacere (vorrei trovarmi nel film School of Rock o anche in Monsieur Lazhar ..)


Per quanto riguarda il rapporto tra scuola e mondo del lavoro il problema è che la scuola prepara troppo bene per il mondo del lavoro, se tanti neo-laureati vanno a lavorare all'estero! Se si facesse la scuola in base alle esigenze del mondo del lavoro, avremmo solo corsi per affettatori di prosciutti nelle catene dei grandi magazzini! Il problema è il mondo imprenditoriale troppo scarso (anche di risorse finanziare)

Papik.f ha detto...

Giovane di Lungo Corso, il suo ultimo paragrafo esprime alla perfezione quello che ho sempre pensato (e certamente non io soltanto), ma non viene mai detto dalla grande e influente stampa quotidiana, né dagli "esperti" più accreditati presso di essa.
Questi parlano sempre di scuola come se in Italia si verificasse un fenomeno noto come "invasione dei cervelli", per cui giovani formati all'estero accorrano per approfittare delle opportunità lavorative offerte dalla nostra imprenditoria e alle quali il nostro sistema formativo non corrisponda.
Ma sa qual è la risposta a queste obiezioni (se n'è già parlato in questo blog)? che si tratta solo di aneddotica irrilevante, poiché i test che misurano oggettivamente le competenze dimostrano scientificamente l'inferiorità della preparazione degli studenti italiani.

pupipupi ha detto...

Trasmetto i pensieri di un mio stimato amico, professore di Lettere in un liceo:
- da quando la provincia in cui insegna ha chiuso le scuole superiori al sabato è diventato impossibile far studiare i ragazzi al pomeriggio: le ore sono troppe e sono troppo stanchi.
- il 90% degli studenti non è interessato allo studio;
- sono frequenti i casi di studenti che non sanno scrivere in corsivo e non sanno usare il protocollo;
- le iscrizioni al classico e allo scientifico languono, mentre sono esplosi il linguistico e l'alberghiero;
- a nessuno importa nulla di tutto ciò. Prende piede l'idea che "tanto studiare non serve".
- L'Italia è in pieno declino e i politici non investono sulla scuola, ma sono piuttosto rottamatori e distruttori.
Sperando di non avervi troppo amareggiato, auguro a tutti buone feste.

santino ha detto...

Insegno matematica e fisica in un liceo scientifico, non ho le competenze linguistiche per poter insegnare con la metodologia clil, il MIUR non ha alcuna intenzione di spendere per formarmi in maniera seria (ossia per farmi raggiungere una competenza linguistica di livello C1) e comunque, se anche conoscessi ottimamente l'inglese, riterrei il clil TEMPO PERSO sottratto ad attività didatticamente ben più serie e culturalmente rilevanti (mi pare evidente infatti che se si concentra l'attenzione sugli aspetti linguistici ne risente l'approfondimento dei contenuti disciplinari), ancor più che insegno una materia oggetto di seconda prova scritta all'esame di stato.
Il Dirigente Scolastico ci ha già messo in guardia sul fatto che il clil è un obbligo in quanto previsto dalla riforma Gelmini (dimentica di dire però che la stessa riforma prevedeva anche che i docenti ricevessero un'adeguata formazione), con la conseguenza che chi si dovesse dichiarare indisponibile ad adottare tale metodologia non potrebbe più insegnare nelle classi terminali, anche se questo dovesse portare al venir meno della continuità didattica.
Non è mia abitudine condurre battaglie in solitudine, ancor più che a quanto pare per gran parte dei docenti italiani l'imposizione di certe pagliacciate inattuabili e didatticamente nefaste non costituisce affatto un problema (nel mio collegio docenti, ad esempio, ho chiaramente percepito che i miei interventi venivano visti come fastidiosi da diversi colleghi perché facevano allungare notevolmente la durata della riunione - prendo atto quindi che per molti tornare a casa mezz'ora prima è più importante della salvaguardia della propria dignità professionale) - pertanto, visto che sarò costretto a fare il clil, lo farò in una maniera che non sia dannosa per gli studenti, ossia eviterò di concentrarmi sugli aspetti linguistici, per focalizzare l'attenzione sui contenuti disciplinari. Al massimo potrò svolgere e far svolgere agli studenti qualche esercizio o problema col testo scritto in inglese, evitando accuratamente di far sorbire loro la mia indecorosa pronuncia e limitandomi ad un lavoro di mera traduzione (che, date le mie limitate competenze linguistiche, è l'unica cosa che sono in grado di fare in maniera decente).
In questo modo la forma sarà salva, con buona pace degli ignavi che hanno paura di dire al MIUR che il clil è una BUFFONATA inutile e indecorosa.
Qualche giorno fa in Consiglio di Istituto mi sono sentito dire da una rappresentante dei genitori (che fra l'altro è anche lei insegnante) che è compito mio acquisire (suppongo a mie spese) le competenze linguistiche per fare il clil in quanto i docenti devono essere pronti a inseguire le sfide della modernità: l'inglese, le competenze digitali e così via.
Le ho risposto invitandola a fare i dovuti approfondimenti giuridici in quanto ciò che lei sosteneva non corrispondeva al vero, essendo compito del datore di lavoro provvedere alla formazione dei propri dipendenti, ancor più che all'atto della mia immissione in ruolo come docente di scuola secondaria superiore non mi è stata richiesta alcuna competenza nelle lingue straniere.

La cosa che più addolora comunque è vedere una classe docente PASSIVA di fronte a questo scempio della cultura. Poi però rifletto sul fatto che durante il Ventennio i docenti italiani insegnavano la Cultura Fascista e che negli anni trenta non ebbero alcun pudore a esporre ai propri studenti contenuti del "manifesto della razza" e capisco tutto. Il vizio è antico, siamo le solite vestali del politicamente corretto.

Professor Israel, le chiedo scusa per il lungo sfogo e la ringrazio per essere una delle poche voci nel mondo della cultura che tuona contro questi deliri.

lucyrrus ha detto...

E' divertente constatare che in Italia (e forse solo lì) nella scuola si sia alla disperata caccia di un metodo che permetta di realizzare il "moto perpetuo" e che ( e questa è la parte disastrosa) molti docenti ci credano.

Anonimo ha detto...

Sono un insegnante di Lettere a fine carriera, ma ancora con una grande passione per il mio lavoro. Ho lavorato 20 anni nelle scuole elementari e 20 nelle scuole secondarie. Ho 2 diplomi classico e magistrale e due lauree. Sono completamente d'accordo con il prof Israel: la destra ha fallito miseramente il suo tentativo di cambiare la scuola. L'unica cosa positiva è stata l' estensione dello stesso metro docimologico in tutti gli ordini. Quando la Gelmini disse che chi aveva un'insufficienza non poteva essere promosso, fece subito marcia indietro, accorgendosi che il 70% degli studenti italiani sarebbe stato bocciato. E così, con l'ipocrisia tipica di questi politucoli, trovò la soluzione:" Anche con 3 insufficienze si può passare purché lo decida il Consiglio di classe, ma mascherando quest'ultime da 6 con l'asterisco!!" Che vergogna! Io ritengo che, sin dalla scuola elementare, occorra avere un'ottima metodologia per insegnare le basi: leggere, scrivere, far di conto. Abbiamo molti ragazzini alle medie che non hanno queste tre abilità, non perché sono "dislessici" o "discalculici", come ormai è in uso scusarli, ma per cattivi metodi, mancanza di impegno, scarsa collaborazione delle famiglie ecc. Il merito deve essere riconosciuto, pur cercando di dare ad ognuno secondo le proprie capacità e talenti. Andatevi a vedere "il metodo Suzuki" per l'apprendimento precoce della musica: Ci sono spunti interessanti. Il discorso è ampio e interessante. Lo continueremo, senza ipocrisie e avendo il coraggio di guardare la realtà in faccia.

pupipupi ha detto...

Sarebbe infatti ora di preparare e divulgare un 'antimetodo', ovvero il contrario di tutto ciò che nella scuola è stato fatto negli ultimi venti anni. Putroppo le iniziative che partono dall'alto sono tutte di senso contrario e le famiglie si fanno volentieri piccionare da tutte le abbaglianti novità del terzo millennio.

Stefano Di Brazzano ha detto...

Il geniale inventore del "sei con l'asterisco" (detto anche "sei rosso") non fu la Gelmini ma Francesco d'Onofrio, ministro dell'istruzione nel 1994 con il primo governo Berlusconi. In seguito la sinistra, che governò dal 1995 al 2001, si guardò bene dal modificare la disciplina. Essa non fu toccata nemmeno dal ministro Moratti (2001-2006, ministero caratterizzato dal vuoto pneumatico) La Gelmini fu ministro al 2008 al 2011 e su questo punto non intervenne, visto che già nel 2006 la disciplina era stata modificata dal ministro Fioroni (è quella tuttora in vigore).