lunedì 18 gennaio 2016

L'interminabile crisi del meccanicismo è ben visibile oggi


Continua a parlare e a far parlare di sé Giorgio Israel, intellettuale di rango che ci ha lasciato pochi mesi fa, con un suo libro postumo, uscito per la Zanichelli in questi giorni: Meccanicismo. Trionfo e miserie della visione meccanica del mondo.

Solo un profondo conoscitore della storia del pensiero scientifico (e non solo) come lui poteva addentrarsi efficacemente nel racconto di una visione del mondo, quella meccanicistica, che tanto ha condizionato e condiziona il dibattito su ciò che è l’essere umano, su che cosa sono i processi biologici, su che cosa sia il cervello. La riduzione dell’universo a macchina, pur meravigliosa, ha avuto come esito inevitabile una lettura della natura e dell’umano in chiave materialistica, di cui pagina dopo pagina, secolo dopo secolo, Israel denuncia contraddizioni e problematiche tuttora irrisolte.
                Lo fa presentandoci e spiegandoci il ricchissimo dibattito e confronto di idee e di domande che si sono sviluppati intorno a questa tematica, in quella che l’autore definisce una “interminabile crisi”: il meccanicismo è un concetto di breve successo che però è riuscito ad arrivare ai nostri giorni, segnandoli pesantemente, e promette di andare oltre.
                I giorni nostri sono quelli in cui, dalle neuroscienze ai criteri di valutazione della ricerca scientifica, l’approccio meccanicistico riduce la complessità del reale a modelli matematici, ad algoritmi che pretendono di essere l’unica chiave di conoscenza. Un tempo, il nostro, in cui si pretende che solo quantificandola in qualche modo la realtà possa essere conoscibile, mentre, per dirla con il filosofo francese Alain Finkielkraut, “tutto il resto è letteratura”: ciò che esula dal linguaggio matematico - intuizione, parola - sono inutili chiacchiere, buone per sfaccendati.
                 E invece, spiega Israel, la matematica ridotta a unico strumento di misura di tutto il reale risulta svuotata della sua potenza speculativa e non riesce neppure ad assolvere al compito minimale della misurazione stessa. Lo dimostra brillantemente egli stesso, per esempio entrando nel merito  di alcuni esperimenti – inadeguati - nell’ambito delle neuroscienze, nei quali si è cercato di capire se ognuno di noi è libero di scegliere o è predeterminato da processi neuronali. Sono stati messi sullo stesso piano fenomeni che coinvolgono l’attività cerebrale, di cui si può quantificare la durata, con processi irriducibili a qualsiasi modello matematico, come la “consapevolezza” e la “decisione”. Si è cercato cioè di individuare il “momento di una decisione” come fosse un tempo misurabile e rappresentabile con un punto su una retta, e non invece un’esperienza personale che può essere solo narrata, e che non ha niente a che fare con scale temporali numerabili.

                  Per Israel, l’esito finale del meccanicismo è l’uomo visto come complessità biofisica di corpo e genoma e neuroni, modificabili: sono, i nostri giorni, quelli del trionfo della tecnoscienza – un termine coniato dall’epistemologo Hottois che Israel stesso ha portato nel dibattito pubblico italiano, e che indica la trasformazione della tecnica, divenuta indipendente dalla ricerca scientifica speculativa e tutta tesa a migliorare performance operative senza approfondirne più di tanto il perché. “Basta che funzioni”, sintetizzerebbe Woody Allen, ma Israel mette in guardia: “Non conosciamo alcuno sviluppo tecnologico importante che non si sia basato su elaborazioni teoriche”, e soprattutto non conosciamo un’umanità che non si chieda il senso della sua esistenza e del mondo che la circonda. Una domanda che non si può misurare.

Assuntina Morresi su Avvenire, 2 gennaio 2016

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