giovedì 4 marzo 2010

BESTIARIO MATEMATICO n. 2

Approfondiamo il bestiario matematico relativo alla teoria degli insiemi nelle scuole primarie (elementari).

In molti libri, in molti documenti in rete adottati anche da circoli scolastici, istituti, ecc. si legge che un insieme può essere definito o rappresentato in tre modi:

- per caratteristica, ovvero secondo una proprietà che lo definisce, detta anche definizione intensiva.
Esempio:  P = {insieme di tutti i numeri pari}

- per elencazione, ovvero elencando materialmente tra parentesi i suoi elementi, detta anche definizione estensiva
Esempio. A = {3, 5, 9, 17}

- con un diagramma di Eulero-Venn (locuzione inutilmente pomposa) ovvero con un disegno che rappresenta in modo simbolico l’insieme.




Prima castroneria (didattica):

I diagrammi di Eulero-Venn furono introdotti per la prima volta da Eulero nelle Lettere a una principessa di Germania, per spiegare alla principessa l’inclusione di certi concetti. Ad esempio, il fatto che ogni essere umano è mortale (ma non il viceversa) è rappresentato simbolicamente da questa inclusione (propria) di cerchi:

Ma è facile capire che se pretendo di rappresentare l'insieme delle vocali – dato "per elencazione", V = {a, e, i, o, u} con il sottostante disegno, il  bambino tende a confondere completamente l’insieme qual è realmente – un elenco finito di cinque oggetti – con la figura geometrica a ellisse  dentro cui ballano quei cinque elementi. 

E vedremo subito le conseguenze di questa confusione.
Comunque questa terza “definizione” è soltanto un espediente grafico, un disegno che aiuta, non ha niente a che vedere con le prime due.

Seconda castroneria (concettuale):

Le prime due non sono due definizioni o rappresentazioni della stessa nozione. DANNO LUOGO A NOZIONI PROFONDAMENTE DIVERSE. La definizione “intensiva” restringe enormemente il numero di insiemi considerabili – per esempio A non è definibile mediante alcuna proprietà e gli esempi analoghi si sprecano. La definizione per elencazione è completamente diversa e comprende una marea di casi di insiemi che non sono definiti da alcuna proprietà mentre, d’altra parte molti insiemi definiti da proprietà non sono elencabili (tali sono, per esempio tutti gli insiemi infiniti).
La “definizione” restrittiva è errata e fuorviante anche perché la nozione primitiva di insieme – ovvero dettata dalla nozione comune, usuale, di insieme – può tranquillamente includere i casi in cui l’insieme può essere caratterizzato da una proprietà. Il viceversa non è vero, e quindi la seconda oltre ad essere indebitamente restrittiva, non è intuitiva. I matematici possono anche adottare tale definizioni per alcuni loro scopi ristretti, ma si tratterebbe di una scelta oltre che discutibile, didatticamente sbagliata (nessun libro moderno lo fa).
A questo punto è evidente che è pazzesco assegnare come compito o “verifica” ai bambini esercizi consistenti nel rappresentare un dato insieme nei tre modi anzidetti. Se il bambino è sveglio presto si accorgerà che vi sono insiemi che non sono suscettibili di tutte le rappresentazioni e gli crollerà tutto addosso (a lui e all’insegnante… a meno che questi non cerchi di soffocargli lo spirito critico).

Ora veniamo alla più grande BESTIALITA’ (concettuale e didattica):

È il modo in cui viene frequentemente introdotto il concetto di elemento che non appartiene a un insieme (da cui poi viene il concetto di complementare di un insieme ecc. ecc.).

Si legge in alcuni dei testi suddetti:

Un elemento che non appartiene all’insieme viene chiamato INTRUSO.

Raramente un termine fu più infelice e fuorviante.

«Cerca l’intruso» si propone in un esercizio-verifica e si propone un diagramma di Eulero-Venn del tipo dato nella figura seguente, dove l’insieme dato in forma di elenco è quello delle vocali, V:

L’elemento “intruso” è 8……

Ma con questa rappresentazione geometrica il bambino interiorizza l’idea che l’intruso è un elemento che non dovrebbe stare dentro perché non è nella lista ma che si è infilato “dentro” abusivamente. DENTROperché, in effetti, sta DENTRO! Altrimenti non lo si chiamerebbe INTRUSO!!!
Proprio come un «imbucato» in una festa che non dovrebbe starci, ma di fatto ci sta, sta dentro casa e non fuori.
Cioé dovrebbe star fuori, ma viene messo dentro per farlo vedere, chiamandolo però "intruso".
Quando viene il buttafuori?.....
Ci sarebbe da ridere se non fosse da piangere.
Chi ha pensato questa trovata merita il cappello d’asino.

Una considerazione finale.
Tutte queste disquisizioni aberranti hanno una caratteristica comune:

la mancanza di semplicità, il voler complicare a tutti i costi, il non volersi rifare a nozioni intuitive, proprio mentre si dichiara di inseguire il facile e il semplice.

Chi realizza questo exploit è tipicamente una persona con le idee confuse.
E le persone con le idee confuse si rifugiano dietro la moltiplicazione delle definizioni e delle nozioni. Insomma violano sistematicamente l’aureo principio del rasoio di Guglielmo di Ockam:

Entia non sunt multiplicanda praeter necessitatem
(Gli enti non debbono essere moltiplicati al di là del necessario).

Vedremo prossimamente altri esempi di indebita moltiplicazione delle definizioni.

mercoledì 3 marzo 2010

BESTIARIO MATEMATICO n. 1

(il n. 0 è la proprietà dissociativa)


QUANDO SI SMETTERA' DI TORMENTARE I BAMBINI CON LA TEORIA DEGLI INSIEMI E CON LA LOGICA?
Ma se almeno venisse fatto in modo decente senza metter loro in testa idee fasulle...


Parecchi libri riportano la seguente definizione:

«Un insieme è un gruppo di oggetti che hanno una proprietà in comune»

Se considero un automobile, una mela e un canguro formano, oppure no, un insieme?
Certamente sì. 
Ma non hanno alcuna proprietà in comune.
Qualsiasi gruppo di oggetti è un insieme.

Un insieme non è definito da alcuna "proprietà comune" dei suoi oggetti!








Agli autori il premio cappello d'asino e il cortese invito a tornare a brucare l'erba nei campi

martedì 2 marzo 2010

La distruzione del principio di autorità

Voglio farlo io un elogio di don Giussani a cinque anni dalla morte. Lo voglio fare proprio in quanto ebreo, perché don Giussani era un cattolico che voleva bene agli ebrei, capiva l’ebraismo. So di ebrei con cui ha saputo parlare stimolandoli ad approfondire la propria identità, non per convertirli. E soprattutto voglio fare il suo elogio per quel che ha dato sul tema dell’educazione, dicendo cose coraggiose e giuste – giuste perché vere – e che forse troppi, anche tra i suoi discepoli, stanno dimenticando o travisando. Difatti, don Giussani ha visto in tempo il rischio che si profilava e che ora è realtà: la distruzione del principio d’autorità. Certo, egli respingeva l’idea di guardare indietro, ma per lui il motore dell’educazione era l’esistenza di un maestro – e quindi il richiamo a un principio di autorità, autorità affettiva e autorevole, beninteso – e la trasmissione della conoscenza, dell’esperienza, della tradizione.
Prescriverei la lettura nelle scuole dei brani sulla “conoscenza per testimonianza”. La prescriverei come medicina quotidiana per coloro che ripetono sventatamente i futili protocolli dell’“autoapprendimento” e dell’“autoformazione”. «Tutta la cultura umana si basa sul fatto che uno incomincia da quello che ha scoperto l’altro e va avanti». Banale? Ovvio? Non direi proprio, a stare a sentire chi predica che l’alunno deve ricostruirsi tutta la conoscenza da solo, che nessuno deve insegnare l’algoritmo della divisione o la fonetica, perché sarebbe violenza sui minori, educazione “trasmissiva”, lezione “ex-cathedra”. Non è né banale, né ovvio: è semplicemente vero perché dettato dal buonsenso. Diceva Cartesio che il buonsenso è equamente ripartito ma non tutti sanno usarlo. Qui c’è chi, lungi dal saperlo usare, lo disprezza.
Per convincersi che l’acqua può essere scissa in ossigeno e idrogeno sarà forse necessario rifare l’esperienza di Lavoisier? Si riporrà piuttosto fiducia nella testimonianza di chi l’ha fatta. Certo, occorre che la testimonianza sia affidabile. Ed è giusto essere capaci di verificare questa affidabilità e di riappropriarsi attivamente del sapere trasmesso. Ma chi potrà creare questa capacità se non un autentico maestro? Quando un alunno avrà acquisito questa capacità autonoma sarà in grado di rendersi conto che gli articoli dell’Enciclopedia Treccani sono affidabili mentre quelli di Wikipedia non lo sono. Se nessuno gli avrà insegnato – trasmesso – la capacità di muoversi sul terreno bibliografico andrà allo sbando. Solo chi abbia acquisito a fondo queste capacità – derivanti da conoscenze consolidate nel tempo – sarà in grado di rendersi conto che il Dizionario Biografico degli Italiani fin ad ora pubblicato è affidabile, mentre il seguito, se verrà fatto con i metodi di Wikipedia, non lo sarà.
Ma ora la parola d’ordine dell’autoapprendimento è persino superata. L’ultimo grido è l’“apprendimento personalizzato”, tagliato su misura per ogni studente e che garantisca il “successo educativo”. La perdita del buonsenso trionfa quando si promuove un seminario dal titolo «Perché mi bocci?», appena svoltosi a Bologna con tanto di autorevoli partecipanti. «Ti boccio perché non studi, perché non hai senso del dovere malgrado quel che si sta facendo per te, perché sei un nullafacente» – risponderebbe il buonsenso. Nient’affatto. Agli «studenti che si sentono alieni in classe, insofferenti ai ritmi delle lezioni, alle prescrizioni degli insegnanti, che non sopportano i riti e le regole di questa istituzione che ancora chiamiamo scuola» bisogna offrire «soluzioni educative accattivanti» - recita il depliant. Ma quando si parla di «soluzioni accattivanti» si promuove quella pseudocultura che, per dirla con Zygmunt Bauman, «non ha gente da educare, ma piuttosto clienti da sedurre». Né passa per la mente il dubbio che, se la scuola non funziona, è perché è governata dalle soluzioni imposte da qualche decennio dalla dittatura del pedagogismo dell’autoapprendimento.
No, si vuol raddoppiare la dose di questa cattiva medicina. Secondo l’“esperto” inglese Charles Leadbeater, personalizzare significa «partecipazione e co-creazione». A suo dire, gli studenti sono già co-creatori. Non sono «solo diventati i co-produttori di un nuovo servizio e di nuovi impieghi per il telefono mobile, ma i creatori di una nuova ortografia coniata sulle conversazioni digitali, rapida, snella, abbreviata, fonetica, che dai cellulari sta via via invadendo più generali forme di scrittura».
Insomma, signori dell’Accademia della Crusca e dell’Invalsi, siete inutili cariatidi. Mentre vi lamentate perché gli studenti non sanno più scrivere e usare la logica nel comporre testi, il mondo vi scorre sotto i piedi e i “co-creatori” edificano un nuovo mondo dotato di una nuova lingua. Anzi, toglietevi di mezzo. Lo ammonisce Leadbeater, assieme ai suoi allievi italiani: «dare voce in capitolo a coloro che apprendono».
Si tolgano di mezzo anche quei genitori che pretendono dai figli un rendimento di qualità, rigore, disciplina, concentrazione. Il potere andrà agli alieni in classe e a quei genitori che fanno i sindacalisti della nullafacenza contro l’istituzione «che ancora chiamiamo scuola». E si tolgano di mezzo gli insegnanti che pretendono di insegnare. Una valutazione severa è riservata soltanto a loro, per gli altri c’è soltanto il successo garantito.
Occorrerebbe rileggere e mandare a memoria il celebre brano de La Repubblica di Platone in cui si spiega come dall’eccesso di libertà si passi alla tirannide:
«Forse adunque l’insaziabilità di quel bene che la democrazia si prefigge, la manda in rovina? — Ma quale bene? — La libertà — E in che modo? — Quando uno Stato retto a democrazia, assetato di libertà, si trovi ad avere per capi cattivi coppieri, ed oltre il dovuto si inebrii di libertà non annacquata, allora esso punisce i suoi governanti se non sono molto miti e non concedono molta libertà, e li accusa di essere tristi e oligarchici. Ed è inevitabile che il disordine penetri anche nelle case private e finisca per ingenerarsi l’anarchia anche fra gli animali. — In che modo? — Così: che il padre si avvezzi a divenire simile al figlio e a temere i figli; ed il figlio si faccia simile al padre e non rispetti e non tema i genitori … in tale ambiente il maestro teme e adula gli scolari, e gli scolari fanno poco conto dei maestri e dei pedagoghi; e in tutto i giovani si mettono alla pari con gli anziani e con essi gareggiano a parole e in atti; e i vecchi, cedendo ai giovani, si mostrano pieni di arrendevolezza e di gentilezza, ed imitano i giovani per non sembrare sgraditi né autoritari. … tutto questo ammollisce l’anima dei cittadini… infine non si danno pensiero delle leggi né scritte né non scritte per non avere nessun padrone. Questo veramente è il bello e baldanzoso principio da cui si genera la tirannide».
(Il Giornale, 1 marzo 2010)

lunedì 1 marzo 2010

La complessità è davvero antiriduzionista?

Può sembrare strano a qualcuno che la scienza della complessità sia una nuova versione di riduzionismo materialistico? Me ne rendo conto. Una motivazione di questa tesi può trovarsi nel seguente articolo (n. 101, scaricabile in pdf):
The science of complexity: epistemological problems and perspectives

domenica 28 febbraio 2010

Quando la confusione diventa la regola



L’accorpamento di più materie in un’unica disciplina alle scuole superiori è la vittoria della didattica fondata sul mito della "complessità". Peccato non si vada al di là delle teorie astruse. Con truffa ideologica incorporata

Bisogna dare atto all’associazione di insegnanti Diesse di aver colto un aspetto nevralgico della riforma dei licei. «Chi si incaponisse - si legge nella loro newsletter - sull’allarme per la riduzione delle ore di lezione e quindi delle cattedre dimostrerebbe di non rendersi conto che qualcosa si muove più in profondità», ovvero che nella riforma hanno influito «diverse suggestioni di stampo pedagogico, tali da non rendere per nulla neutro il passaggio dal vecchio al nuovo ordinamento». Il riferimento è al modo in cui è stato ristrutturato l'insegnamento delle scienze nei licei tecnici e professionali, dove si affacciano le nuove «Scienze integrate», intese come materia-sintesi di Scienze della terra, Biologia, Fisica e Chimica. In realtà, le Scienze integrate sono state introdotte in modo ambiguo perché negli indirizzi del biennio continuano a essere distinte in Fisica e Chimica. Questa scelta salomonica è frutto anche del netto dissenso espresso da tutte le massime associazioni del settore - Società italiana di fisica, Società chimica italiana, Consiglio nazionale dei chimici, Associazione per l’insegnamento della fisica, Associazione insegnanti chimici - che hanno stigmatizzato la materia «polpettone» in quanto inadatta a formare un’autentica cultura scientifica e anzi atta a contribuire alla «descientificizzazione» del sistema scolastico.
L’idea delle «scienze integrate» ha origine nel periodo del ministero Fioroni durante il quale impazzava l’idea di «complessità». Ad esempio, nella normativa del 2007, si prescriveva come «competenza» per l’asse scientifico-tecnologico il «riconoscere nelle sue (sic) varie forme i concetti di sistema e di complessità». Qualsiasi «competente» in materia sa che esistono parecchie definizioni di sistema; che non esiste una definizione comunemente accettata di «complessità»; che molti considerano le «teorie della complessità» come elucubrazioni vaghe e discutibili; che non pochi (anche autorevoli) le considerano pura e semplice cialtroneria. Il punto di partenza è l’affermazione che è in crisi il paradigma riduzionista e l’idea di «semplicità» della natura: occorre studiare la realtà nella sua «complessità» apprestando strumenti analitici adeguati. Il limite di questo approccio è che la scienza non può rinunciare a una qualche forma di riduzione a strutture semplici. Difatti, la radice dei suoi successi sta nel presupposto che il grado di complessità dei suoi concetti sia maggiore di quello dei fatti naturali, altrimenti tanto varrebbe limitarsi alle descrizioni puramente verbali. Comunque, tutto ciò è materia di una discussione apertissima ed è assurdo farne un asse concettuale dell’insegnamento, che deve sempre basarsi su teorie e metodi solidamente acquisiti e riconosciuti.
Al contrario, in un documento ministeriale del 3 marzo 2008 si individuava la teoria della complessità come nuovo asse formativo in sostituzione di quello classico. Partendo da una rozza definizione di sistema complesso come «composto da un gran numero di elementi che interagiscono tra di loro» (i documenti ministeriali non dovrebbero mai avventurarsi nell’epistemologia scientifica) si predicava che il riduzionismo era stato sostituito col concetto di «emergenza», ovvero l’emergere di «dinamiche d’insieme diverse da quelle delle singole parti». Seguiva una serie di affermazioni retoriche e inconsistenti sulla complessità che «rompe i confini delle scienze» e apre la via nientemeno che all’esplorazione del «territorio della multidimensionalità del reale»... Non basta: la scienza si sarebbe trasformata da sistema piramidale a «sistema a rete con correlazioni e nodi multipli». È maramaldesco osservare che, in un analogo documento, il riduzionismo piramidale si prendeva la rivincita con la seguente affermazione materialistica: «Nel nuovo paradigma della complessità le diverse discipline si presentano come un sistema a rete. Le più recenti ricerche sulle modalità di funzionamento dei nostri processi cerebrali individuano la natura costruttivistica e sociale del conoscere».
Piramide o no, è da chiedersi con quale diritto si meni scandalo se qualcuno propone di insegnare in modo critico - non di «non» insegnare, ma di insegnare in modo critico, ovvero scientifico - la teoria dell’evoluzione e poi si ritenga legittimo fondare un intero asse dell’istruzione su un’ideologia così unilaterale.
Troppe cose non vanno in questa costruzione. Non va la presentazione schematica e propagandistica della teoria della complessità, dando per buona la sua accettazione unanime nel mondo scientifico. Oggi la scienza è ancora largamente dominata dall’approccio riduzionista e molti sostengono che, in fin dei conti, le teorie della complessità ricorrono alle stesse metodologie che sono al cuore degli approcci tradizionali. Occorrerebbe rileggere i saggi del compianto Antonio Lepschy per capire quanto la materia sia «complessa» e controversa. Non ha fondamento presentare la scienza contemporanea come un sistema a rete basato sull’uso sistematico del concetto di «emergenza». Non ha fondamento sostenere che le ricerche sui processi cerebrali accreditino la natura costruttivistica del conoscere. Tantomeno è legittimo dare per scontato che si possano dedurre le forme della conoscenza dai processi cerebrali.
Se alla fine del percorso, la riduzione della libertà a «emergenza» ci regala il costruttivismo, ovvero una nuova versione di un meccanicismo materialistico negatore della creatività e libertà, per giunta gabellando un’ideologia per scienza, si ha il diritto di rispondere: «No, grazie». Ha ragione Gaetano Quagliariello a mettere in guardia contro «il tentativo di una sinistra costruttivista sconfitta per la quale la società doveva essere il paradiso in terra, di trasferire quello stesso costruttivismo nella vita dell’individuo», e facendo così rivivere la «mentalità del comunismo sotto mentite spoglie»; ed è legittimo ribadire l’idea che «la vita ha sempre la possibilità di meravigliarci, fino all’ultimo momento ed è su questo principio che basiamo la nostra libertà».
Ad ogni modo, insistiamo, tutta questa è ideologia, e non è lecito costruirvi sopra un asse formativo scolastico. Anche qui ha ragione Diesse a osservare che «solo l’esperienza dei docenti sul campo potrà portare contributi davvero “costruttivi”». È da augurarsi che questi contributi costruttivi consistano, nella pratica effettiva dell’insegnamento e avvalendosi della distinzione tra indirizzi nelle «scienze integrate», di vanificare un tentativo che può avere soltanto effetti distruttivi nella formazione di un’autentica cultura scientifica.
«Il Giornale» del 25 febbraio 2010

lunedì 22 febbraio 2010

Parlar per numeri? Soltanto un mezzuccio per ciarlatani

In Italia esiste una passione molto speciale per le statistiche. La ragione c’è. La statistica ha avuto un gran “patron”: il Duce. Mussolini era ossessionato dai numeri, in particolare da quelli che riguardavano la popolazione. L’Istituto Nazionale di Statistica fu la sua creatura prediletta e il suo presidente, il potentissimo Corrado Gini, aveva con lui un appuntamento fisso periodico per portargli e illustrargli tabelle su tabelle.
Oggi questa storica propensione è esaltata dalla tendenza mondiale a misurare tutto. Sembra che qualsiasi cosa sia più vera, più “oggettiva” se proposta in numeri. Non è così. La statistica è una scienza incerta, per qualcuno non è neppure una scienza ma un insieme di tecniche empiriche. Comunque i suoi risultati sono da prendere con cautela. Fino a che qualcuno spara che c’è il 48% di probabilità che entro 32 anni i ghiacciai si riducano del 97% si può riderci sopra, a condizione che non vengano assunte decisioni su simili basi. Ma quando si dice che nella tale città muoiono 7323 persone l’anno “a causa” dello smog, il sorriso si spegne e viene voglia di togliere la laurea, se ce l’ha, a chi parla così. Se poi si passa a stimare, sempre con precisione risibile, la probabilità di contrarre un dato tumore in presenza di una data anomalia genetica, e magari, su queste basi, si suggerisce a chi ha quell’anomalia l’asportazione della ghiandola mammaria, allora l’unica reazione possibile è l’indignazione. Perché un uso siffatto dei numeri è irresponsabile e persino criminale.
Oggi dilaga la parola “valutazione”. Si scrivono libri intitolati “la misurazione delle qualità”, si parla di misurare “in modo oggettivo” competenze, capacità, abilità e quant’altro, si progettano giganteschi istituti di valutazione “scientifica”. Disse il filosofo della scienza Georges Canguilhem: «non vi è scienza di un oggetto se questo oggetto non ammette la misura. Ogni scienza tende alla determinazione metrica attraverso la definizione di costanti o invarianti». Ebbene, l’unità di misura di qualità come la “competenza”, l’“abilità”, la “felicità” o il “dolore” semplicemente non esiste. Occorrerebbe quindi consigliare a chi ha il coraggio di parlare di “misurazione oggettiva delle qualità” di tacere definitivamente, se non altro per evitare di fare la figura del ciarlatano.
In un recente documento la International Mathematical Union e l’Institute of Mathematical Statistics – chi si intende di numeri più di costoro? – hanno denunciato l’«abuso» del ricorso ai numeri nella valutazione della ricerca scientifica. Hanno sostenuto che la credenza che il ricorso alla statistica sia più oggettivo dei giudizi verbali complessi è «infondata», che la pretesa oggettività dei numeri è «illusoria» e altamente intrisa di elementi soggettivi, per concludere: «I numeri non sono intrinsecamente superiori ai giudizi accurati».
A queste obiezioni si fanno orecchie da mercante perché questa numerologia è diventata un gigantesco affare attorno a cui brulica una legione di “esperti”, la cui unica competenza è quella di dare cifre, e poiché si trasmette come dogma di fede l’asserto che le cifre sono indiscutibili, questi “esperti” si collocano al disopra di ogni valutazione (numerica o no che sia). Per fortuna la crisi economica rende difficile espandere i carrozzoni con cui la corporazione degli “esperti” vorrebbe regolamentare la società ed estendere il proprio dominio dal campo dell’economia a quelli della salute, dell’istruzione, dell’ambiente, e anche della psicologia delle persone.  

(Avvenire, 21 febbraio 2010)

domenica 21 febbraio 2010

Le monstre sacré de la philosophie che cita le tesi di un pensatore borat


Jean-Baptiste Botul è un filosofo francese nato il 15 agosto 1896 e morto il 15 agosto 1947. Sorta di novello Socrate ha trasmesso le sue idee oralmente e non ha mai scritto nulla. Nel corso della sua vita ha peregrinato per ogni dove incontrando innumerevoli personaggi tra cui Pancho Villa, Stefan Zweig, Emiliano Zapata, Jean Cocteau, Simone de Beauvoir (di cui fu amante) e tanti altri. Il circolo dei suoi discepoli ne ha raccolto con zelo l’insegnamento orale e, ricostruendolo con lettere e altri frammenti scritti, ha pubblicato alcune opere botuliane. La prima, la più famosa, è La vita sessuale di Immanuel Kant, uscita nel 1999 per i tipi delle “Mille et une nuits” e tradotta in tedesco nel 2001 e poi anche in polacco. Nel 2001 è uscito il volume Landru, precursore del femminismo, una corrispondenza inedita tra Botul e il celebre serial killer. Poi nel 2002, Nietsche e il Demone del mezzogiorno, che è il testo di un’arringa difensiva davanti a un tribunale di conducenti di taxi dall’accusa aver subornato una ragazzina. Infine, nel 2007, il magistrale La metafisica del moscio. Da tutte queste opere emergono i lineamenti di un pensiero filosofico detto “botulismo”, al cui centro è la critica del pensiero di Kant. A dire di Botul, la filosofia di Kant è viziata dall’idea che i filosofi non si riproducono per penetrazione ma per contrazione.
Immagino che già il lettore si sarà reso conto che qualcosa non funziona. E infatti Botul non è mai esistito. È un’invenzione di Frédéric Pagès, giornalista del celebre periodico satirico francese “Le Canard Enchaîné”, il quale si deve essere divertito come un pazzo, fondando persino un’associazione di amici di Botul, NoDuBo (Noyau Dur Botulien, Nucleo Duro Botuliano) e istituendo il premio letterario Botul. Ma neanche lui immaginava di riuscire a prendere nella rete un pesce grosso come il mostro sacro della cultura parigina Bernard-Henri Lévy. Questi ha pubblicato il 10 febbraio un libro che – secondo l’editore – lo riporta alla sua “identità prima” di filosofo. Il titolo di questa grande “rentrée” filosofica è Della guerra in filosofia, definito un «libro-programma», un «manuale per età oscure, in cui l’autore mette le sue carte in tavola e dispone, cammin facendo, le pietre angolari di una futura metafisica». Insomma, nulla di meno dell’Aristotele del terzo millennio. BHL (com’è chiamato) se la prende soprattutto con Kant, definito come «un pazzo furioso del pensiero, un arrabbiato del concetto» e, per demolirlo, si basa sulle analisi di Botul che avrebbe definitivamente dimostrato «all’indomani della seconda guerra mondiale, nella sua serie di conferenze ai neokantiani del Paraguay, che il loro eroe era un falso astratto, un puro spirito di pura apparenza», «il filosofo senza corpo e senza vita per eccellenza».
Il solo riferimento ai neokantiani del Paraguay avrebbe dovuto insospettire per l’assonanza con i “gesuiti del Paraguay”. Ma che dire della settima conversazione del libro di Botul intitolata «Coito ergo sum» o della tesi secondo cui la metafisica di Kant si riduce al problema della masturbazione? BHL ha bevuto tutto senza neppure perdere cinque minuti su Internet per verificare.
Viene da dire con Flaiano che la situazione è grave ma non è seria. C’è da chiedersi con quali argomenti si possono convincere i giovani al rigore e alla serietà nello studio e a comportamenti eticamente corretti, se un “mostro sacro” della cultura si comporta in questo modo e qui da noi impazzano i copiatori di libri altrui che hanno la faccia di bronzo di giustificarsi sostenendo che il plagio è la forma più alta di pensiero.

(Tempi, 24 febbraio 2010)

sabato 13 febbraio 2010

Un nuovo libro in uscita


Vi fareste curare dal dottor House?

Non visita i pazienti, privilegia l’analisi e i test. Ritiene l’uomo una macchina da riparare ma rischia di perdere informazioni utili. Meglio l’approccio basato sulla persona proposto da Giorgio Israel
di Alessandro Gnocchi
Vorreste essere curati dal dottor House? Cioè da un genio a tutti gli effetti, il quale però teorizza l’inutilità di incontrarvi, tanto basta il metodo analitico supportato da un numero consistente di test, e quando decide di incontrarvi è solo per smascherare le vostre eventuali menzogne? O preferireste la dottoressa Cameron, ex «apprendista» del dottor House, che ha scelto il pronto soccorso e la pratica clinica, privilegiando il contatto col paziente?
Il che si può tradurre in questi termini, tagliando con l’accetta una materia in realtà densa di sfumature: meglio un approccio tutto scientifico o umanistico alla medicina? Giorgio Israel, docente di Storia della matematica presso l’Università di Roma «La Sapienza», non ha dubbi e infatti ha scritto Per una medicina umanistica. Apologia di una medicina che curi i malati come persone (Lindau, pagg. 98, euro 12; in uscita il 18 febbraio). Scelta di campo chiarissima. Meglio precisare subito che l’autore non rifiuta in toto l’approccio del dottor House e non ne mette in discussione i pregi. Tuttavia ne segnala i limiti e soprattutto collega gli uni e gli altri alla mentalità dominante, mettendo in luce le ricadute indesiderabili di una certa concezione della scienza.
Attraverso la riflessione sullo statuto della medicina, Israel prosegue il discorso già affrontato in altre sue opere sulla immagine oggi prevalente della scienza, quella meccanicista, e sulla svalutazione di tutte le attività intellettuali che non esibiscano, almeno all’apparenza, un fondamento di «verità oggettiva» (dove «verità oggettiva» deve «intendersi ciò che è garantito dal metodo delle “scienze esatte” a loro volta rappresentate dal modello delle scienze fisico-matematiche»).
Anche la medicina, soprattutto negli ultimi sviluppi tecno-genetici, si è incamminata lungo questa strada. Cosa che implica mettere da parte il singolo, il paziente, le sue impressioni soggettive ed enfatizzare tutto ciò che è «oggettivo». Vale a dire il fascicolo degli esami di laboratorio, le radiografie, le ecografie, le Tac, i test genetici: quello che disegna «in modo sempre più approfondito e minuzioso la geografia fisiopatologica del nostro corpo». Sia chiaro: quel pacco di carte è un trionfo della medicina occidentale. Ma non sempre è una «chiave incantata» per risolvere ogni problema.
Il medico infatti non dovrebbe rinunciare a guardare il paziente negli occhi. Non è una questione di compassione o bontà o sentimentalismo. L’abolizione del vissuto del malato è un errore a livello razionale. La pratica clinica può arrivare dove non arrivano gli esami o almeno integrarli saggiamente. Essa considera il modo in cui il paziente vive il suo stato, il suo «sentirsi malato», fattore che tra l’altro può influenzare anche i parametri «oggettivi». Se si sottrae a questo confronto, il dottore perde una grande quantità di informazioni.
Poi, naturalmente, ci sono le ricadute culturali della situazione descritta da Israel, molto ampie. Mano a mano che la medicina si trasforma in scienza esatta, si sviluppa una nuova immagine di uomo sempre più simile a una macchina. Il naturale è artificiale e viceversa. Basta dare un’occhiata fuori dalla finestra per verificare rapidamente quanto questa idea si sia imposta anche a livello popolare grazie alla tecnologia, in particolare quella digitale. Dal cervello macchina al cervello software, da scaricare in rete in un futuro che alcuni immaginano prossimo, la strada è tracciata e in molti la stanno percorrendo anche e soprattutto nella comunità scientifica. Questa visione, scrive Israel, porta dritto alla dissoluzione dell’identità e dell’individuo.
Se l’uomo è una macchina, la malattia è ciò che non rispetta i parametri del normale funzionamento, e la morte è la rottura definitiva. Ma «la macchina resta un oggetto la cui totalità è la somma delle parti», mentre l’uomo «non è un aggregato semplice di parti». Per essere una disciplina completa, la medicina deve per forza essere «qualcosa di più di una scienza puramente oggettiva» perché si occupa «di qualcosa che è molto di più di un mero oggetto materiale, di un uomo-macchina da riparare».
In fondo, è questo il rovello del dottor House, materialista tutto d’un pezzo spesso in preda a un dubbio di fondo (esemplare la quinta serie della fiction, con House sdoppiato causa schizofrenia incipiente): e se il materialismo tanto ostentato fosse solo una menzogna per non fare i conti con se stessi e per proteggersi da quello che non si sa spiegare o non si vuole ammettere perché ci fa soffrire orribilmente come i rapporti umani?
«Il Giornale» del 12 febbraio 2010



giovedì 11 febbraio 2010

Il ritorno dell’esame collettivo (ma col timbro dell’università)


La follia che sta facendo a pezzi il sistema educativo in Europa dilaga senza incontrare resistenze. In questa rubrica abbiamo raccontato vicende e decisioni deliranti prese in questo o quel paese dell’Unione. L’ultima della serie è questa. In Spagna, l’università di Siviglia ha introdotto una normativa sullo svolgimento degli esami scritti decretando che tutti gli studenti hanno il diritto di completare la prova di esame anche se durante lo svolgimento vengono sorpresi dall’insegnante a copiare. La questione verrà successivamente portata dinnanzi a una commissione di garanzia che deciderà, sulla base del reclamo dello studente, se il docente ha prove sufficienti che lo studente ha copiato oppure se ha ecceduto nel chiedere l’annullamento dello scritto. Il direttore della comunicazione dell’università ha giustificato la decisione dicendo che non era più accettabile che ogni professore seguisse criteri propri e che occorreva regolamentarne l’intervento di fronte a suggerimenti, al passaggio di foglietti o alla copiatura dei compiti mediante cellulare, chiarendo una volta per tutte che al docente è “proibito” sequestrare il telefono. Non solo: se il docente ritenesse di sequestrare fogli o altre prove della copiatura dovrebbe darne un verbale scritto allo studente affinché questi possa difendersi di fronte alla commissione. Il nuovo regolamento contiene altre cose amene, come l’abolizione di qualsiasi obbligo alla frequenza ai corsi: tutt’al più potrà essere premiato l’alunno che frequenta.
Confesso che mi mancano le parole e l’idea di argomentare contro un simile delirio mi provoca un senso di smarrimento, come se dovessi spiegare che per camminare si mette un piede davanti all’altro. Fortunatamente le reazioni che è dato leggere sui siti della stampa spagnola sono quasi unanimemente di sconcerto inorridito e di desolazione. Ma il sollievo è di breve durata. Difatti, subito dopo si legge la notizia che il ministro spagnolo dell’istruzione è sceso in campo in difesa dell’università di Siviglia sostenendo che la linea scelta è giusta perché occorre lavorare per realizzare «forme di esame che non dipendano da approcci mnemonici, dal copiare o dal non copiare»… «Spero – ha aggiunto – che troveremo delle formule di apprendimento sufficientemente innovatrici, di valutazione continua che non richiedano di fare esami convenzionali». Insomma, per evitare l’approccio mnemonico la soluzione è ricorrere alla memoria collettiva. «Non te lo ricordi tu? Allora te lo ricordo io, e quel che non ricordo io me lo ricordi tu». Così facciamo un bell’esame che non dipende dal copiare e non copiare. Come se la questione fosse soltanto di memoria (che pure non è da disprezzare). Se uno studente non sa risolvere un problema di matematica non è perché non lo “ricorda”, è perché non ha i mezzi e le capacità per risolverlo. Se scrive un tema pieno di errori di ortografia o sintassi non è perché gli manchi la memoria ma perché non ha gli elementi di base. Ma il signor ministro ha una grande idea: la valutazione continua senza “esami convenzionali”. Vecchia muffa demagogica di stampo sessantottino fritta e rifritta in salsa di didattica innovativa postmoderna. 
Negli Stati Uniti – dove pure le faccende dell’istruzione non vanno al meglio – copiare è considerato un atto immorale. Ed è giusto che sia così, perché dare prova delle proprie capacità in modo onesto è il dovere più importante di uno studente, in modo continuo o discreto che sia. In Europa, invece, impazza la demagogia e la dittatura degli esperti con il cappello d’asino. Chiedersi perché le cose vadano male è una pura perdita di tempo.



(Tempi, 11 febbraio 2010)

domenica 7 febbraio 2010

Se per Veronesi la fede oscura la ragione


 La filastrocca dell’incompatibilità tra scienza e religione sta diventando ripetitiva e provoca un senso di stanchezza. In certi casi, ormai il dialogo si rivela una pura perdita di tempo. Ma Umberto Veronesi è un uomo di grande levatura e pare impossibile che anche con lui si crei una simile incomunicabilità. Nessuno mette in discussione la legittimità di essere ateo o agnostico, tanto meno si può mancare di rispetto a una simile scelta, per esempio dicendo che l’ateismo impedisce di ragionare. Ma non è per una questione di galateo e di reciprocità che va evitata l’affermazione simmetrica: e cioè che la religione impedisce di ragionare. Va evitata semplicemente perché è falsa. Sarebbe falso affermare che l’ateismo impedisce di ragionare: basterebbe produrre l’esempio di tanti scienziati e pensatori atei che hanno ragionato e ragionano benissimo. È non meno falso affermare che la religione impedisce di ragionare e che scienza e fede non possono andare insieme. Anche in questo caso basterebbe una lista di scienziati credenti, gente che ragionava benissimo, senza cui la scienza neppure esisterebbe – una lista talmente lunga che una pagina di giornale non basterebbe a contenerla.
Non era forse un credente Keplero, al punto di motivare le sue leggi del moto planetario come espressione dell’armonia impressa dal Creatore al mondo? Spero a nessuno passi per la mente di dire che Galileo era ateo: se egli riservava alla mente umana lo studio della natura, lasciava il resto alla sfera religiosa. E che dire di Newton? Alla sua morte, venne scoperto un baule contenente una massa di manoscritti che rappresentava il 70% della sua produzione totale, dedicati all’alchimia ed alla teologia. In una memorabile conferenza letta nel 1946, il celebre economista John Maynard Keynes, che aveva acquistato all’asta questi manoscritti da tempo scomparsi – ora è disponibile in italiano il “Trattato sull’Apocalisse” –, diceva di essersi trovato di fronte all’«ultimo dei maghi» i cui «istinti più profondi erano occulti, esoterici», un «monoteista della scuola di Maimonide». Newton era un mistico, influenzato dal pensiero cabalistico, che portava queste sue convinzioni persino nella definizione di spazio (“sensorium Dei”). Non era forse un pensatore razionale? Senza la sua razionalità la scienza moderna semplicemente non esisterebbe.
La verità è che gli scienziati non credenti o atei sono stati sempre una ristretta minoranza. E questo persino nel periodo dell’Illuminismo francese, peraltro una breve parentesi dopo la quale di nuovo abbondano gli scienziati credenti, come Louis-Augustin Cauchy, cui certamente la religiosità non impedì di ragionare bene e di essere uno dei maggiori matematici dell’Ottocento.
Dice Veronesi che la religione è integralista mentre la scienza vive nel dubbio, nella ricerca della verità. Ma accoppiare la parola “integralista” alla religione è arbitrario. Essa si attaglia altrettanto bene a molti scienziati. Integralista è quella forma di religiosità che vede nel testo rivelato qualcosa di scritto direttamente dal dito di Dio e che va quindi preso alla lettera, in modo assolutamente testuale. Ma nell’ebraismo e nel cristianesimo le Sacre Scritture sono scritte da uomini e la rivelazione è mediata, per cui è fondamentale l’opera di interpretazione. L’esegesi biblica costituisce un’opera sterminata che ha accompagnato secoli di religiosità e che ha costituito una forma di pensiero razionale. Anzi, come è stato più volte osservato, questa attività di interpretazione ha rappresentato un esercizio di razionalità che ha favorito lo sviluppo dello spirito scientifico. Per spiegare (razionalmente) la presenza importante degli ebrei nella scienza moderna dopo la loro emancipazione, non occorre certamente evocare fattori razziali, ma proprio l’abitudine all’esercizio della ragione derivante dalla pratica intensa dell’esegesi biblica. I religiosi integralisti esistono certamente e li vediamo pullulare fra di noi, e spesso trucidare chi non crede alle loro verità, anche se curiosamente sono quelli verso cui si nutre la maggiore indulgenza. Ma esistono anche scienziati integralisti, quelli che si nutrono di un dogmatismo della scienza che si chiama “scientismo”, ovvero della pretesa senza fondamento che qualsiasi fatto possa essere ricondotto a una spiegazione basata sul metodo sperimentale o su un approccio matematico. Ma anche guardando al procedere della scienza si danno manifestazioni di dogmatismo. Il filosofo della scienza Thomas Kuhn, nel suo famosissimo “La struttura delle rivoluzioni scientifiche”, ha descritto la tendenza della scienza a cristallizzarsi attorno a un insieme di assunti (da lui detti “paradigma”) che la comunità ufficiale tende a difendere ad ogni costo, spesso con spirito dogmatico. Non sempre gli scienziati sono mossi dal bisogno di criticarsi e mettersi in gioco. Non di rado si chiudono in un atteggiamento di conservazione. Per cui il progresso della scienza spesso deve passare attraverso una rottura drammatica, un conflitto aperto di scienziati innovatori col paradigma dominante (la “rivoluzione scientifica”).
In conclusione, i dogmatici e le menti incapaci di ragionare liberamente esistono dappertutto. È inopportuno elevare contrapposizioni artificiose tra scienza e religione, che oltretutto non hanno alcun riscontro nella storia, e in particolare nella storia della scienza. Come disse Einstein, «la scienza senza religione è zoppa, la religione senza scienza è cieca». L’analisi razionale della natura è fondamentale, è lo sguardo che l’uomo porta verso il mondo che lo circonda; ma la scienza da sola non può sopportare il peso di tutte le richieste dell’uomo, in particolare delle domande che riguardano il senso del suo essere nel mondo o, se si vuole, di quella sfera che Kant chiamava il mondo morale e che sfugge a qualsiasi spiegazione naturalistica.



(Il Giornale, 5 febbraio 2010)

sabato 30 gennaio 2010

L'Iran khomeinista è il vero erede del nazismo


 È venuta la Giornata della Memoria 2010 e personalmente l’ho trascorsa in casa. Non sono stato chiamato a partecipare ad alcun evento o manifestazione, neppure come invitato, malgrado abbia dedicato qualche libro alla questione ebraica e alle leggi razziali del 1938 e una serie interminabile di articoli all’antisemitismo. Non me ne stupisco e non me ne dolgo perché ho da tempo assunto come regola quella di parlare, in queste occasioni, soltanto dell’antisemitismo che minaccia gli ebrei viventi. Del resto, non si ripete fino alla noia, che conoscere la storia passata serve a non ripeterne gli orrori? Tuttavia, parlare dell’antisemitismo di oggi non è gradito e serve a farsi depennare. Come ha scritto Fiamma Nirenstein sul Giornale, per lo più, si usano dire due parole di circostanza per poi parlare di Hiroshima, delle minoranze etniche e della Resistenza. A me capitò di sentir equiparare i campi di concentramento e i centri di permanenza temporanea (CPT) per i clandestini. Qualcuno più audace passa dai CPT a Gaza, e ne deriva l’equazione Gaza = Auschwitz, da cui discende il corollario che gli israeliani (e quindi gli ebrei) sono i nuovi nazisti. Ebbene, per poter parlare della Shoah non pago il pedaggio di dire che Maroni è il nuovo Himmler, per cui preferisco starmene a casa a sfogliare in silenzio le foto dei miei parenti trucidati ad Auschwitz, i pochi documenti che ne conservo, e a parlarne con i miei figli.
Tuttavia quest’anno sono successi alcuni fatti nuovi che potrebbero cambiare le cose – almeno speriamo. Il primo fatto è noto ed è stato riportato da tutti i giornali. Ma conta sottolinearne un aspetto cruciale che già il Giornale ha indicato con un titolo efficace: «Khamenei celebra la Shoah: “ Un giorno Israele sarà distrutto”». Niente di nuovo, s’intende. I dirigenti iraniani ci hanno abituato al loro slogan ripetuto in tutte le salse: Israele va distrutto, Israele è un ramo secco che sta cadendo, basta dare una scossa all’albero, e così via. Ma quel che c’è di nuovo stavolta è la scelta di aver fatto questo proclama, e con tanto clamore, proprio nella Giornata della Memoria, nel giorno in cui si ricorda lo sterminio degli ebrei ad opera dei nazisti. Non è intervenuta soltanto la Guida Suprema del regime iraniano, l’ayatollah Ali Khamenei – sottolineando che i tempi dell’inevitabile distruzione dipendono dal modo in cui le nazioni islamiche affronteranno il tema – ma anche il presidente del parlamento Alì Larijani – già capo della delegazione che trattava la questione nucleare e da tanti in occidente lodato come personalità ragionevole e moderata – che ha parlato in modo truculento di Israele ridotto a «terra bruciata».
In verità, non c’è neppure nulla di nuovo dal punto di vista delle intenzioni: il regime iraniano non ha mai fatto mistero di stabilire uno stretto collegamento tra questione israeliana e questione ebraica. L’Iran è oggi il centro mondiale del negazionismo, il paese che promuove attivamente la propaganda della tesi secondo cui lo sterminio degli ebrei non è mai avvenuto, e che comunque in fin dei conti Hitler qualche buona ragione a detestare gli ebrei l’aveva. È un antisemitismo che si pone in continuità con i legami tra una parte del mondo islamico e il regime nazista simboleggiato dalle relazioni amichevoli tra Hitler e il Gran Muftì di Gerusalemme.
Tuttavia, fino ad ora, una parte consistente dell’opinione pubblica occidentale ha chiuso gli occhi di fronte al carattere esplicitamente antisemita dell’antisionismo iraniano. Anche il presidente Obama ha condannato certe espressioni ma non ha preso atto del fatto che esse erano ispirate da una volontà di vero e proprio genocidio razziale.
Ora nessuno può chiudere gli occhi. Non vi sono alibi. La dichiarazione della volontà di distruggere Israele fatta non in un giorno qualsiasi dell’anno, ma proprio il 27 gennaio, ha un significato inequivocabile. È quanto dire: “nel giorno in cui si ricorda lo sterminio di un terzo degli ebrei del mondo, noi vi annunciamo che ci apprestiamo a proseguire l’opera sterminandone un altro terzo”. E poi, di questo sterminio si dirà che non è mai avvenuto, come lo si dice ora del primo. Chi può chiudere gli occhi di fronte al proclama sfrontato che la lotta contro Israele è una lotta contro gli ebrei? Come non vedere che “celebrare” così la Shoah appone a questa lotta un’etichetta razziale inequivocabile?
Tutto ciò è terribile ma potrebbe essere una buona notizia se servirà, una buona volta, ad aprire gli occhi e a svegliare le coscienze.
La seconda buona notizia è che nel nostro paese, nei discorsi ufficiali delle massime autorità – dal presidente della Repubblica Napolitano, al premier Berlusconi al presidente della Camera Fini – è stato denunciato esplicitamente il pericolo dell’antisemitismo di oggi e, in particolare, il pericolo dell’antisemitismo iraniano che minaccia quel terzo del mondo ebraico che vive in Israele. Forse questi segnali inizieranno a svegliare l’opinione pubblica. E magari, l’anno prossimo, le celebrazioni del 27 gennaio potrebbero essere meno ritualistiche e commemorare gli ebrei morti per mettere in luce le minacce che incombono sugli ebrei viventi, e non per cambiare discorso.

(Il Giornale, 29 gennaio 2010)

Mi ha fatto un gran piacere constatare che questo articolo è stato ripreso favorevolmente sul sito dell'AID, Agenzia Iran Democratico, Sito ufficiale dell'Associazione rifugiati politici iraniani residenti in Italia

martedì 26 gennaio 2010

La sfida della scuola e la questione nazionale


Qualche giorno fa è scoppiato il caso di una scuola elementare di Noventa Padovana in cui la maestra ha assegnato come compito per casa la traduzione in dialetto veneto di una poesia. In sé, l’episodio non meriterebbe un clamore particolare. Esso costituisce soltanto un sintomo di come una malintesa autonomia scolastica abbia ridotto la scuola a un emporio di attività integrative (in questo caso dedicate alla “valorizzazione delle tradizioni locali”) che penalizza soprattutto le materie portanti, come la lingua e la letteratura italiana, la matematica e le scienze, la storia, la geografia. Quel piccolo episodio assume importanza in relazione ai risultati di un’analisi condotta dall’Accademia della Crusca assieme all’Invalsi (l’Istituto per la valutazione), da cui risulta che, su un importante campione dei temi di maturità del 2007, circa il 58% conteneva errori gravissimi di grammatica, sintassi, organizzazione logica e persino di ortografia, insomma da bocciatura senza appello; mentre soltanto il 20% dei temi era stato valutato insufficiente negli esami di stato. Non soltanto questo dato – che conferma quel che qualsiasi docente universitario constata misurandosi con gli studenti che la scuola gli consegna – non ha ricevuto l’attenzione che merita. Non soltanto i riformatori che hanno fabbricato la scuola che produce questi risultati continuano a far finta di nulla riproponendo imperterriti i loro modelli. Ma molti commenti attorno all’episodio di Noventa Padovana sono stati improntati a uno sprezzante fastidio: la cosa più importante sarebbe il recupero delle tradizioni locali, chi se ne importa dell’ossessione per la lingua italiana. C’è chi crede che si possa costruire un futuro basato sui dialetti e l’inglese; non capendo che, se è possibile che un futuro lontano riservi una realtà sociale e linguistica diversa, per ora, e per un bel pezzo, la forza culturale, scientifica e tecnologica di un paese poggia, e poggerà, sugli stati nazionali.
Ho fatto di recente un viaggio in Sud Africa e mi ha colpito il fatto che un paese uscito da pochi anni da drammi epocali, e che ne porta i segni tangibili, sia proiettato verso un futuro di costruzione unitaria che non si attarda alle recriminazioni, per quanto giustificate. «Proudly SouthAfrican», orgogliosamente SudAfricano, si legge dappertutto. Invece da noi si sta preparando il ricordo dell’Unità d’Italia in un’orgia autodistruttiva di svalutazione di quel fatto storico e di recriminazioni virulente (dopo 150 anni!) per eventi incomparabili con l’orrore dell’apartheid (durato fino a pochi anni fa). È legittimo ripensare storicamente l’Unità d’Italia, ma la storia la fanno gli storici e non, a colpi d’accetta, sindaci che cancellano la dedica di piazze a Garibaldi, mentre resta l’intitolazione di vie e scuole a personaggi ben più discutibili come Palmiro Togliatti o Nicola Pende. Invece di far storia con le delibere e gli occhi volti al passato e con sterili recriminazioni, non sarebbe meglio occuparsi di costruire il futuro con spirito «proudly Italian»?
Se siamo qui a parlare del futuro del paese e a paventarne il declino è perché il punto a cui siamo giunti lo dobbiamo proprio al processo che è di moda denigrare. Mi limito a un breve accenno sul tema della scienza. L’Italia è stata il primo paese a creare un’accademia delle scienze (l’Accademia dei Lincei), che però ha dovuto subito chiudere i battenti proprio perché non sostenuta da uno stato nazionale, mentre le accademie scientifiche di punta si affermavano nelle grandi nazioni europee come la Francia e l’Inghilterra. A metà dell’Ottocento, l’Italia, malgrado i suoi Galilei e Volta, era un paese scientificamente marginale, senza accademie e università di rilievo, senza un sistema di istruzione moderno, con una cultura scientifica parcellizzata e irrilevante. Nel Settecento, neanche il Regno di Piemonte era riuscito a trattenere uno dei suoi più grandi matematici, Lagrange, trasferitosi a Parigi. Le cose cambiarono in pochi decenni, dopo l’Unità, per merito di un manipolo di scienziati che studiarono e importarono i grandi modelli europei, per merito di personalità come i matematici senatori Luigi Cremona – ministro dell’istruzione e fra i creatori delle scuole di ingegneria – e Vito Volterra, fondatore di tutte le principali istituzioni scientifico-tecnologiche del paese, a partire dal Consiglio delle Ricerche. A fine Ottocento, l’Italia era al terzo posto mondiale in matematica e si stava affermando nella fisica al punto che la fisica nucleare moderna, con Fermi e i suoi colleghi, sarebbe stata una creazione italiana e grandi risultati sarebbero stati ottenuti in biologia, come mostra il fatto che i grandi Nobel della biologia molecolare moderna sono in gran parte allievi della scuola di Giuseppe Levi. Questo è accaduto perché un governo nazionale ha sostenuto questa impresa e ha deciso di creare un sistema di istruzione moderno e unitario. Ed è accaduto perché l’Italia disponeva già di un patrimonio che poche altre regioni del mondo avevano: un lingua unitaria che permetteva la comunicazione al di là della frammentazione dei dialetti, ed una lingua sostenuta da una delle culture più importanti del mondo.
Ripeto: se noi oggi possiamo discutere di rischi di “declino” di un paese che ha una posizione mondiale di tutto rilievo, e di come porvi rimedio, è perché abbiamo raggiunto questa posizione grazie a quanto fatto durante il processo unitario. Ancor più rapidamente possiamo ritornare a una condizione di assoluta marginalità se ci accingiamo a distruggere quel che abbiamo costruito non comprendendone il valore e anzi svalutandolo irresponsabilmente. Nessuna persona seria può disprezzare le tradizioni locali e i dialetti, che debbono essere preservate e valorizzate come elemento importante delle nostre radici culturali. Ma l’idea di studiare la fisica in friulano o in inglese e la storia in siciliano o in inglese, marginalizzando la lingua che viene appresa in modo naturale in famiglia, tanto più dopo che decenni (anche di opera meritoria della televisione) l’hanno consolidata sempre di più come tessuto unitario del paese, è irresponsabile e autodistruttivo. Un paese di dialetti per la vita quotidiana e di inglese per le comunicazioni professionali non è soltanto un’idea velleitaria, perché le mutazioni linguistiche sono processi storici lenti che non si prestano facilmente ad essere forzati; ma prospetta un futuro di drammatico declino culturale e di subordinazione scientifico-tecnologica.
Perciò non si tratta di stracciarsi le vesti per la vicenda veneta, quando di preoccuparsi – e molto – per la scarsa attenzione al sondaggio dell’Invalsi e dell’Accademia della Crusca che, nel divario con gli esiti dei giudizi effettivi, mostra in quanto poco conto venga tenuto l’apprendimento della lingua. Come ha osservato la professoressa Elena Ugolini, commissaria dell’Invalsi, quei risultati non mettono in luce soltanto povertà di pensiero, ma assenza di strumenti basilari di logica e di espressione: «ragazzi così che futuro possono avere?». Questa è l’emergenza cui la scuola deve far fronte e che deve essere percepita da tutti come una questione nazionale, assieme a quella dell’analfabetismo matematico. Sono emergenze cui non si fa fronte con escogitazioni di metodologia didattica o burocratico-aziendalistiche, come il programma Merito e Qualità per la matematica improvvidamente varato dal Ministero. Bensì comprendendo che è sui contenuti dell’insegnamento che si vince la scommessa. E questo, nel caso dell’italiano, significa ovviamente studiare la lingua ma anche abituare e appassionare gli alunni alla ricchezza e alla complessità dell’espressione linguistica acquisita attraverso la lettura dei testi letterari. Insomma, rammentando una buona volta che uno dei compiti principali della scuola è la trasmissione della cultura.


(Il Messaggero, 23 gennaio 2010)

domenica 24 gennaio 2010

Dan Brown, ovvero come vendere bufale preparate con competenza scolastica

Ho sempre istintivamente evitato di leggere i romanzi di Dan Brown. Dovendo intraprendere un lungo viaggio aereo e vagabondando tra gli scaffali della libreria dell’aeroporto mi sono detto che forse potevo cogliere l’occasione per leggerne uno e farmi un’idea non per sentito dire. In fondo, ho pensato, sarà un modo di passare il tempo: quantomeno la trama sarà accattivante. Così ho comprato il primo romanzo a portata di mano, Angeli e demoni, in inglese.
Trama animata e divertente? Non soltanto una mortale bufala, una broda allungata a forza pur di riempire un numero accettabile di pagine. Ma un’accozzaglia di assurdità da lasciare a bocca aperta. Non si tratta soltanto dell’inverosimiglianza della trama, del fatto che le costruzioni fantascientifiche sono assolutamente improbabili: per esempio, è difficile che un aereo sperimentale che viaggia a una velocità di una quindicina di volte quella del suono possa atterrare su un aeroporto normale senza essere notato. Non si tratta neppure soltanto del carattere malamente abbozzato dei personaggi, talvolta caricaturali fino al limite del ridicolo. Si pone una domanda più elementare: è mai possibile che uno scrittore di best seller che guadagna quattrini a palate non abbia la possibilità di ingaggiare qualcuno che gli riveda il testo in modo da non propinare parole in italiano malamente storpiate? Non è un’usanza tipicamente americana quella di avvalersi dei “revisori stilistici”? Evidentemente Dan Brown è un pasticcione, un avaro o gli piace prendersi in giro da solo, visto che ci propina “Capella Sistina” con una “p” sola, fa dire che «non si può entrare perché… è chiusa temprano», fa intimare che «basta di parlare» e così di seguito. Sembra di sentire uno di quei turisti americani che parlano a mozziconi di un italiano improbabile: il guaio è che quei mozziconi vengono messi in bocca a personaggi italiani. Ma dove Brown raggiunge un vertice è nella descrizione di Roma dall’alto dell’aereo: un dedalo caotico di viuzze che si avvolgono senza regola alcuna attorno a chiese e ruderi “in rovina” (sic) e nelle quali impazzano miriadi di auto Fiat. Un’immagine, osserva Brown, che è il simbolo dell’assenza di ordine. Insomma Roma è il caos allo stato puro. Che sensibilità artistica e culturale! Con spettacolare incoscienza Brown si presenta nella parte caricaturale del cow boy giunto dal profondo Midwest che si chiede perché non si butti giù quel rudere in rovina del Colosseo per rifarne uno nuovo in vetrocemento e non si spiani tutto il centro di Roma per sostituirlo con un sistema di strade ortogonali comprensibili.
È comunque indubbio che Brown è totalmente inconsapevole della propria ignoranza. Ad esempio, sapete quale religione si praticava nel Pantheon di Roma? Il culto di tutti gli dei pagani, ovvero… il panteismo… C’è poco da ridere. Milioni di persone si bevono queste boiate pazzesche e finiscono pure col credere che il panteismo sia il politeismo.
Alla fine di questa lettura mi sono chiesto quale giudizio potrebbe ottenere Dan Brown nei termini della fatidica triade conoscenze/competenze/abilità tanto cara ai patiti di valutazione scolastica. La risposta è semplice. A competenze se la cava benissimo: per esempio, «sa usare strumenti e materiali finalizzandoli al raggiungimento di uno scopo, in seguito a un proprio progetto». Difatti, è riuscito a finalizzare una massa di bufale e di castronerie al conseguimento di una montagna di quattrini. Ad abilità poi non ne parliamo: sta alle stelle. Più “abile” di lui difficile trovarne. Quanto a conoscenze sta a zero. Ma che importa? Quello che conta è che nella certificazione delle competenze se la caverebbe alla grande.  

(Tempi, 27 gennaio 2010)

lunedì 18 gennaio 2010

Una replica sull'eugenetica

Cara Melania Rizzoli,
ho letto con disagio la sua lettera indirizzata al sottosegretario Eugenia Roccella. Non sono un medico come lei, ma so cos’è la scienza e la sua lettera costituisce la conferma del fatto che la medicina non è una scienza. Il che non significa che non si tratti di una prassi ancor più complessa e nobile di una scienza “oggettiva”. Difatti, come ha scritto un celebre medico e storico della medicina, Mirko Grmek «i medici devono agire anche non conoscendo tutti gli elementi del problema» e la medicina è lungi dal possedere tutti gli elementi del problema. E aggiungeva di non credere che «la medicina di oggi sia più “scientifica” di quella del passato, pur se la maggior parte delle persone, soprattutto tra i medici, dirà di sì, ma si tratta di persone che non conoscono la storia della scienza». Scriveva un altro illustre studioso, Georges Canguilhem: «Vi è scienza di un oggetto soltanto se esso ammette la misura e la spiegazione causale», e questo non è il caso. Credendo che la medicina sia una “semplice” scienza si finisce con lo scrivere autentiche assurdità “scientifiche”, come lei  – non se ne abbia a male – ha fatto in questa lettera.
In tutta la sua lettera lei non fa altro che parlare di diritto a volere dei figli sani con certezza, come se qualcuno al mondo potesse garantire qualcosa del genere. Lei parla di «vita certa, sicura, senza malattia». Ma quando mai? Quale persona seria può garantire una vita certa, sicura e senza malattia sulla base di test genetici? Non esiste alcuna possibilità – salvo pochissimi casi ben noti – di garantire una «modifica scientifica di difetti incompatibili con la vita», bensì soltanto una probabilità, la cui stima è estremamente complessa e vaga, di ottenere qualche risultato migliorativo.
Lei parla di «geni difettosi» che dalla loro unione producono non la vita ma «la morte certa», abusando in modo inaccettabile del termine “certo” e “certezza” in un contesto in cui è consentito soltanto parlare in termini statistici. Si dovrebbe avere maggior riguardo per la statistica e non strapazzarla come se fornisse certezze assolute. Abusando del termine “certo” lei commette un errore gravissimo: confondere la correlazione con la causalità e far credere che una concomitanza di eventi implichi l’esistenza di un un legame di causa-effetto. Un simile legame non esiste né in termini positivi che negativi: perché come non esiste alcuna certezza che si verifichi un evento negativo non esiste alcuna garanzia che la modifica di “errori” genetici produca il risultato voluto, il quale poi riguarda soltanto un aspetto minimo della panoplia patologica che resta completamente aperta, incluse le possibili interazioni dei nostri interventi su cui sappiamo ben poco.
Inoltre, non soltanto, come osserva Grmek, il programma genetico «è un qualcosa che interviene continuamente nella regolazione delle sintesi chimiche e che può sia provocare che combattere dei disturbi patologici in qualsiasi momento della vita individuale», ma il paradigma “tutto è genetico” è manifestamente privo di alcun fondamento. Esiste una miriade di fattori non genetici che possono intervenire a modificare il corso degli eventi. Affermare che «il cancro è una patologia genetica» è soltanto una mezza verità. Se fosse una verità tutti i discorsi circa la prevenzione alimentare e nei costumi di vita (anche psicologici)  sarebbero privi di fondamento: e non lo sono. Lei davvero crede che un giorno sarà possibile elaborare un test genetico globale con cui predire se un nascituro avrà nel futuro un cancro qualsivoglia e sopprimere di conseguenza tutti gli embrioni “difettosi” lasciando svilupparsi soltanto quelli “sani” offrendo loro la “garanzia” di non contrarre mai la terribile malattia? Se lo crede davvero mi permetta di invitarla alla riflessione.
Lei ha contrabbandato come “scientifico” qualcosa che è fuori dalla portata della medicina e cioé la garanzia di produrre figli sani mediante la selezione genetica. Questo è nient’altro che vendere illusioni. L’eugenetica di un tempo, che vendeva l’illusione di un’umanità perfetta, non era meno scientifica di quella attuale che propina il sogno pericoloso che bastino quattro test genetici ad avere addirittura un figlio “senza malattie”, in nome della pretesa di essere in grado di correggere gli errori della natura.
Mi lasci concludere con le parole di quaranta anni fa di Canguilhem, un pensatore razionalista, non certamente un bigotto: «… perché non sognare una caccia ai geni eterodossi, un’inquisizione genetica? E, nell’attesa, perché non privare i genitori sospetti della libertà di seminare senza limiti? Questi sogni, lo sappiamo, per alcuni biologi […] non sono soltanto dei sogni. Ma sognando questi sogni, si entra in un altro mondo, limitrofo del migliore dei mondi di Aldous Huxley, dal quale sono stati eliminati gli individui malati, le loro malattie singolari, e i loro medici. Ci si rappresenta la vita di una popolazione naturale come un sacco della tombola, cui sono preposti dei funzionari delegati dalla scienza della vita, i quali sono incaricati di verificare la regolarità dei numeri che esso contiene, prima che sia permesso ai giocatori di tirarli fuori dal sacco per metterli sulle cartelle. All’origine di questo sogno, vi è l’ambizione generosa di risparmiare a dei vivi innocenti e impotenti la colpa atroce di rappresentare gli errori della vita. All’arrivo del sogno, troviamo la polizia dei geni, coperta dalla scienza dei genetisti. Non se ne deve concludere che esista l’obbligo di rispettare un “laisser-faire, laisser-passer” genetico, ma soltanto che esiste l’obbligo di ricordare alla coscienza medica che sognare rimedi assoluti significa spesso sognare rimedi peggiori del male».
Giorgio Israel

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La lettera di Melania Rizzoli:

Gentile sottosegretario Roccella, leggo con stupore il suo duro giudizio sulla decisione del giudice civile di Salerno, dott. Antonio Scarpa, di aver autorizzato una coppia italiana alla selezione genetica embrionale per fecondare un figlio sano,e le scrivo d’impulso, come medico e come parlamentare della sua maggioranza, per difendere, condividere e sostenere fortemente questa scelta umana, difficile e per me apprezzabile. Lei parla di «gravissima sentenza», mentre io gioisco per la stessa ed ammiro la mancanza di viltà del giudice civile. Lei aggiunge «così si introduce il principio che la disabilità èun criterio di discriminazionerispettoaldirittodinascere »ed io le rispondo che l’Atrofia Muscolare Spinale di tipo 1, che la coppia lombarda trasmetteva geneticamente con la sua unione, non è una disabilità, ma una gravissima patologia, incompatibile con la vita,che paralizza, lentamente e gradatamente, tutta la muscolatura scheletrica e porta a morte sicura gli sfortunati bambini che riescono a superare i naturali e spontanei tentativi abortivi durante la propria gestazione, e che, appena nati, iniziano a paralizzarsi, già dal primo giorno di vita, per poi morire entro il loro primo anno di età a causa del lento soffocamento. Cara sottosegretario Roccella, lei ricorda che «l’accesso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita, cuore della legge 40, è riservato solo alle coppie infertili, per avere le stesse opportunità di chi può procreare naturalmente, e non serve a selezionare un figlio», ed io le rammento che la coppia in questione aveva provato testardamente e diligentemente a non «selezionare un bambino», aveva tentato più volte a«procreare naturalmente», nel pieno rispetto della vostra legge 40, con il gratificante risultato di assistere sconsolata e disperata a quattro lutti, tre aborti a gravidanza avanzata ed un bimbo nato vivo, ma morto asfissiato e soffocato, lentamente, a sette mesi, tutti vissuti non tra sorrisi e carillon, ma tra medici, medicine ed ospedali. La coppia «fertile» in questione ha quindi deciso di rivolgersi ad un giudice per avere l’autorizzazione a procreare un figlio che viva, magari sano, ma comunque non portatore ed esente da quella patologia che ha stroncato la vita dei precedenti quattro figli. Avrebbero potuto recarsi all’estero, ma devono aver pensato, loro,a quel giudice italiano che in Italia lo scorso anno ha dato l’autorizzazione all’induzione della morte su una ragazza in coma vegetativo, che pure respirava autonomamente, quindi come non ottenere l’autorizzazione all’induzioneallavita? Allavita certa,sicura, senza malattia È forse un reato aprire una breccia nella tanto discussa legge, peraltro già bocciata parzialmente dalla Corte Costituzionale? È forse un reato desiderare di mettere al mondo dei figli sani, che vivano la vita, e non debbano conoscere solo dolore, sofferenza e malattia?È un reato di noi parlamentari impedire il diritto alla salute ed alla vita. Non si tratta di nessuna selezione genetica, ma di modifica scientifica di errori genetici, di difetti incompatibili con la vita, che è e resta sacra. È come la scoperta di un nuovo farmaco, che elimina e sconfigge una patologia, e a cui dobbiamo essere grati. Cara sottosegretario, comprendo e capisco il suo ruolo, ma non condivido una sola parola della sue dichiarazioni, anzi auspico, da parlamentare di questa maggioranza, e da medico quale sono, una modifica della legge 40, non per un’apertura alla selezione genetica insensata, ma per l’allargamento della legge anche a quelle coppie «fertili» che sono però portatrici di geni difettosi, di geni che dalla loro unione producono non la vita ma la morte certa nei figli che ne derivano. Perché oggi che stiamo lottando tutti insieme per sconfiggere il cancro nel mondo, non possiamo considerare anche quelle genetiche ed incompatibili con la vita come «patologie da sconfiggere» ed eliminare?Non è il cancro stesso una patologia genetica? Non stiamo studiando il genoma in proposito? Il nostro compito in Parlamento è quello di aiutare i cittadini nel loro diritto alla salute e alla vita, e di modificare quelle leggi,come la 40 del 2004 ,per permettere a quei genitori che lo desiderano, di procreare figli sani. Questo si chiama progresso della scienza, della ricerca e della tecnica, che noi parlamentari dobbiamo incoraggiare e normare, certo, ma senza frenare ed impedire, nella rincorsa di un consenso cattolico che temiamo di perdere! Ma quale uomo di Chiesa auspicherebbe la nascita e la vita infelice di un bambino? Quale Papa non approverebbe la «cura» per eliminare una malattia? Quale Dio assisterebbe inerte alle sofferenze ed alla morte asfissiata di un bambino indifeso? La natura stessa cerca di eliminare con ripetute minacce di aborto quei feti difettati geneticamente, e spesso ci riesce, spegnendo «naturalmente » quelle vite destinate ad una breve ed infelice esistenza. Cara Sottosegretario Roccella, quel che voglio sottolineare è che la selezione genetica di embrioni sani è equivalente ad una terapia
avanzata che impedisce e delimina una malattia sicuramente mortale. Non tentiamo noi medici,
quotidianamente, di far vivere i nostri pazienti anche a dispetto di gravi malattie, con le più avveniristiche delle terapie? Non garantiamo noi parlamentari una sanità che assicuri salute e dignità ai cittadini? E ai loro figli che dovranno nascere? Ecco, allora, noi parlamentari applichiamoci per evitare di legiferare inutili crudeltà, condannate da tutti gli italiani, e cerchiamo di distinguerci non per impedire qualcosa, ma per fare e dare qualcosa al nostro popolo. Soprattutto se si tratta di dare e di garantire la vita.
*medico e deputato del Pdl


(pubblicati rispettivamente sul Giornale del 15 e del 16 gennaio)

venerdì 15 gennaio 2010

Razzismo italico?


Dunque, è scoppiata la prevedibile polemica sul razzismo degli italiani ed ha investito anche il terreno linguistico con il rimprovero mosso da Pierluigi Battista a Vittorio Feltri di aver usato la parola “negro”. Feltri ha prodotto diversi esempi per provare l’innocenza del ricorso a questa parola. Ad essi può essere aggiunto il più importante di tutti: l’introduzione del termine “negritudine” (dal francese “négritude”) da parte del presidente e poeta senegalese Léopold Sédar Senghor che, assieme a Aimé Césaire e altri, lo intese come simbolo e rivendicazione orgogliosa dei valori culturali dell’Africa nera. Un intellettuale certamente non reazionario come Sartre si schierò con il movimento della “negritudine” sostenendo che esso esprimeva la ricerca delle radici di una civiltà oppressa dal colonialismo. Certo, il concetto e il movimento della “negritudine” fu poi criticato e avversato da molti africani come espressione di una persistente subordinazione culturale e di un razzismo alla rovescia. Il che significa soltanto che tutto ciò è materia di una discussione che non può che essere pacifica, ragionata e aliena dalle condanne perentorie tipiche del politicamente corretto.
Chi scrive detesta il politicamente corretto e le sue follìe fondamentaliste. Ne ho visto un simbolo all’aeroporto di Francoforte, in cui sono stati allestiti piccoli cubi di vetro per fumatori, dove il malcapitato può sfogare il proprio vizio soltanto se lo espone in vetrina al pubblico ludibrio. Tuttavia, anche nelle cose peggiori può esserci qualcosa di buono e una certa prudenza nell’uso delle parole è giusta. Ritengo che il criterio discriminante sia quello del contesto oltre che, ovviamente, dell’intenzione. Ad esempio, anni fa un noto uomo politico – evitiamo il nome e le polemiche connesse – si riferì in televisione ad alcuni suoi amici che considerava dei primitivi sul piano della cultura alimentare come a dei “zulù” (con l’accento sulla “u”). In questo caso non bisogna essere antropologi per sapere che zulu designa una lingua e una cultura e per trovare orripilante l’uso di questo termine come sinonimo di primitivo, rozzo e selvaggio. Lo stesso politico, facendo ricorso all’espressione «non ho l’anello al naso», dava ragione al politicamente corretto, perché è inaccettabile identificare questa usanza – cui ricorrevano popolazioni di elevate capacità organizzative e guerriere – come un simbolo di dabbenaggine idiota.
Conta il contesto e l’intenzione, e se il politicamente corretto insegna qualcosa è a non comportarci più come quei bianchi che, con mentalità provinciale, reagivano alla presenza di una persona di colore con la stessa ilare curiosità con cui si osserva un babbuino. In fondo, il termine “negro” si pone sullo stesso piano del termine “giudeo”, su cui pesa un ripetuto uso dispregiativo. Malgrado questo uso si continua a parlare di pensiero “giudaico” o di “radici giudaico-cristiane” senza alcuna connotazione negativa, al contrario. Conta l’intenzione e il contesto. Perché, se si parla dei “giudei” per auspicare la loro morte come una liberazione per l’umanità (alla maniera di Agostino Gemelli), è un’altra faccenda, alquanto sporca. Come lo è l’uso della parola “giudeo” (ma anche “ebreo”) quando non c’entra nulla: per esempio parlando di consigliere ebreo del ministro dell’istruzione. E come lo sarebbe parlare della riforma sanitaria non del presidente Obama, ma del “nero” Obama.
Potremmo continuare con le disquisizioni, ma viene spontanea una domanda: non ci stiamo impelagando in discussioni non prive di valore ma che finiscono con l’occultare i problemi più gravi? Le parole possono essere pietre, ma i comportamenti di fatto possono essere proiettili, anzi obici. Leggiamo sulla stampa che il parroco di Rosarno ha dichiarato: «Li avete cacciati. Oggi siamo più poveri. Bisogna aiutare i fratelli che sbagliano», invitando i “farisei” a non entrare in chiesa. Ci si stracciano le vesti dicendo che il bubbone è cresciuto malgrado gli sforzi della Caritas, dei sindacati e le teglie di maccheroni confezionate da una signora caritatevole. In verità – lo dico senza reticenze – ho sempre nutrito la massima repulsione morale per la pratica della carità. Detesto quelle persone benvestite che calano la monetina e se ne vanno contente e appagate senza chiedersi se in tal modo non hanno perpetuato la schiavitù del bambino che l’ha raccolta e, in generale, la condizione miserabile dell’elemosinante. Sono convinte di aver fatto un passo verso il paradiso e ne hanno fatto uno verso l’inferno. Propinare un piatto di minestra e fornire cartoni nuovi che perpetuano il dormitorio per strada, invece di pretendere condizioni umane degne di questo nome, questo sì che è un comportamento indecente.
C’è qualcosa di profondamente sbagliato e fuorviante in certe polemiche attorno al razzismo connaturato negli italiani, che avrebbe le sue radici nel periodo iniziale dello stato unitario. Ormai è diventata una moda intollerabile e autodistruttiva imputare ogni male di questo paese all’unità. Basta guardarsi attorno e guardare alla storia degli altri principali paesi europei per rendersi conto di quanto la verità sia all’opposto: l’Italia è il paese che ha le più deboli tradizioni razziste in Europa. A Rosarno sono emersi i tentacoli della criminalità organizzata, che rappresenta la forma contemporanea dei mercanti di schiavi, e il terreno che ne alimenta la sopravvivenza, ovvero una cultura diffusa dell’illegalità. È emersa la complicità, quanto meno il volgere lo sguardo dall’altra parte di istituzioni, organizzazioni e molti cittadini che hanno preferito lavarsi (o, per meglio dire, sporcarsi) la coscienza con l’elemosina anziché prendere di petto il problema di opporsi con tutte le forze alla malavita organizzata e al moderno schiavismo. Questi sono i veri problemi, di questi bisogna parlare, su questi bisogna agire. Prendersela col ministro Maroni – che agisce in modo ineccepibile – scagliare fulmini contro un razzismo popolare di dimensioni irrilevanti, invocare il ritorno alla carità elemosinante anziché ai diritti e alla giustizia, impelagarsi in una storiografia senza capo né coda, non è razzismo, ma certamente rappresenta una scandalosa elusione dei problemi reali la quale, dopo uno sterile vociare, può soltanto aprire la strada a ricominciare tutto come prima e peggio di prima.
(Il Giornale, 13 gennaio 2010)

C’è un nemico che nessuno vuole vedere ma continua a uccidere. Ecco le sue vittime

 (Tempi, 14 gennaio 2010)


Tutti dovrebbero leggere il recente libro di Giulio Meotti: Non smetteremo di danzare. Le storie mai raccontate dei martiri d’Israele (Lindau). Mi sono reso conto che era indispensabile che lo leggessi anch’io, che pure non dovrei essere di quelli che sottovalutano il nuovo antisemitismo. Ma, leggendolo, mi sono reso conto che di questo nuovo antisemitismo parliamo troppo al futuro, come se fosse un pericolo, una minaccia, e non qualcosa con cui stiamo già convivendo, talmente attuale e incombente da farti rabbrividire al ricordo di come fu considerata con leggerezza una situazione analoga un’ottantina di anni. Perché, se questa è l’Europa della Giornata della Memoria, della condanna dell’antisemitismo «con animo pietistico, fino a rendere indigeribile l’Olocausto» (per dirla con Meotti), è anche l’Europa in cui la Francia deve nominare un prefetto per la lotta contro l’antisemitismo in quanto nei primi mesi del 2009 gli atti contro gli ebrei sono raddoppiati rispetto allo stesso periodo del 2008: ben 794, fra cui 123 azioni violente vere e proprie. È un clima ben rappresentato dalla recente profanazione: l’asportazione della scritta “Arbeit Macht Frei” che sovrasta l’ingresso al lager di Auschwitz e ne costituisce un simbolo pregnante. «L’antisemitismo è un veleno della nostra Repubblica», ha dichiarato il ministro degli interni francese. Ma non si è chiesto cosa alimenti questo veleno e se le politiche europee di commemorazioni, proclami, prefetti e pietismi esclusivamente rivolti al passato non siano uno svuotare col cucchiaino un serbatoio alimentato poderosamente dal «veleno antisionista, dall’odio per Israele, accettato e propagato a piene mani». La critica – in principio legittima – per le politiche di Israele si tramuta in Europa in una condanna senza appello, in una condanna metafisica, che stona in modo stridente con il voltarsi dall’altra parte di fronte ad atti efferati compiuti da tanti altri governi nel mondo al cui confronto il comportamento di Israele è un modello di correttezza.
«Israele può essere minacciato esistenzialmente perché non esiste nelle carte geografiche su cui studiano generazioni di arabi e di iraniani, può essere messo in stato d’assedio perché la sua storia è negata in Europa. Negata come vicenda umana fatta di emigrazione, di guerre contro il rifiuto arabo, di lotta per l’indipendenza sotto il mandato britannico. Negata come diritto sancito dalle Nazioni Unite. Negata nella dignità delle sue vittime». Ed è appunto una storia di vittime quella che racconta il libro di Meotti. È una storia che inizia nel 1972 alle Olimpiadi di Monaco e non si è più arrestata lasciando sul terreno migliaia e migliaia di morti e che non è conosciuta neanche superficialmente, perché viene rubricata sotto la questione palestinese anziché sotto la voce “antisemitismo”, cui propriamente appartiene. Tutto è mascherato dalla tendenziosa distinzione fra questione ebraica e questione israeliana: una distinzione che i carnefici si guardano bene dal fare. In un’epoca in cui tutti si dichiarano laici, razionalisti, in cui il diavolo è stato dichiarato morto assieme a Dio, l’unico Male assoluto del mondo rimasto è Israele. Come scrive nell’introduzione al libro Robert Redeker – il Salman Rushdie francese, clandestino in patria perché condannato dagli islamisti – «il solo fatto di pronunciare il nome di Israele fa perdere la ragione a molte persone». Per molti, soprattutto per una certa sinistra, Israele è il «sostituto laico di Satana». Il libro di Meotti getta luce sul nuovo martirio già in corso e sulla esplosione di irrazionalità che lo giustifica e che preferiamo non vedere.