sabato 1 maggio 2010

Ancora sulla medicalizzazione della scuola


Il celebre matematico settecentesco Leonhard Euler conosceva a memoria l’intera Eneide ed era capace, pur divenuto cieco, di calcolare a mente uno sviluppo in serie fino al settimo termine dettando il risultato a un assistente: per chi non conosce la matematica significa fare un mare di calcoli difficili, ritenendo a memoria un numero enorme di risultati parziali. Al confronto, il miglior matematico vivente farebbe la figura di un “discalculico”. La “discalculia” è definita come un disturbo che si manifesta come “difficoltà negli automatismi del calcolo e dell’elaborazione dei numeri”. Se confronto la calligrafia dei miei figli con quella di mio padre constato un crollo di qualità tale da considerarli come affetti da “disgrafia”, la “difficoltà di realizzazione grafica”. Per non dire della “disortografia”.
A pensarci bene, non c’è da stupirsi. Secoli fa il calcolo mentale e l’arte della memoria erano considerati una virtù da coltivare intensamente. Oggi facciamo persino il conto della spesa sulla calcolatrice del cellulare e imparare le tabelline è opzionale. Diciamo, per carità di patria, che usiamo le nostre facoltà mentali in modo diverso. Perciò circola una legione di discalculici, tra cui coloro che non amano i numeri. Per quanto riguarda poi lo scrivere, sarebbe strano stupirsi che siano in aumento esponenziale i “disgrafici”, visto che insegnare a tenere correttamente una penna in mano e a maneggiarla secondo regole efficaci è considerato repressivo e reazionario: vorrei segnalare, al riguardo, le lucide riflessioni di Angelo Panebianco sulla mania nostrana di apprezzare non ciò che è ragionevole ma ciò che è “moderno”. Quanto alla crescita dello stuolo dei “disortografici” c’è chi pretende che sia dovuta a “difficoltà nei processi linguistici di transcodifica”; ma bisognerebbe chiedersi se, anche qui, non intervenga il fatto che stimolare la capacità di tradurre correttamente in testo scritto le parole pensate è ormai considerato una fisima reazionaria.
Sta di fatto che, invece di esplorare ragioni come quelle accennate, ci si è orientati da tempo verso l’approccio “curativo”, raggruppando i detti disturbi, assieme alla classica dislessia, sotto l’acronimo DSA, Disturbi specifici di apprendimento. Il DSA sta per essere riconosciuto da una legge nazionale come... malattia? Per carità. Il DSA – si dice – si manifesta in soggetti con capacità cognitive adeguate, in assenza di patologie neurologiche e di deficit sensoriali. Insomma, è una sindrome in stato di normalità ma che dà problemi. Ma allora tanto varrebbe introdurre acronimi, definizioni e leggi che definiscano o curino la pigrizia, l’obesità, la logorrea, la miopia, la petulanza, la distrazione e via dicendo. Ma nella legge c’è la contraddizione: si dice difatti che la diagnosi di DSA viene effettuata dagli specialisti del Servizio Sanitario Nazionale, ovvero medici, psichiatri e psicologi. E poiché il Servizio Sanitario Nazionale cura le malattie, rispunta surrettiziamente la definizione del DSA come patologia. E che sia una patologia è confermata dal fatto che la discalculia non viene diagnosticata dall’insegnante di matematica, o la disortrografia da quello d’italiano, bensì da medici, psicologi e psichiatri.
È il gioco delle tre carte: da un lato, si nega trattarsi di una malattia – sarebbe arduo definire tale un insieme di “sintomi” generici e disparati – ma al contempo la si considera tale riducendo a trattamento sanitario un problema che anziché DSA può essere piuttosto DSI, come ha fatto rilevare un preside con quarant’anni di esperienza, ovvero Disturbi Specifici di Insegnamento. Il gioco delle tre carte è abile perché, se provi a lamentare la tendenza alla medicalizzazione, ti si risponde che non è vero, in quanto nessuno ha parlato di patologie, e che comunque il problema sarà affrontato con metodi psico-pedagogici. Ma allora, perché un passaggio diagnostico di tipo sanitario? Perché, a dispetto dell’affermazione che il DSA non è dovuto a patologie neurologiche, ci si è ingegnati a trovarne le cause materiali – malnutrizione alla nascita, effetto dei vaccini, mancanza di omega 3 e altre amenità – che stranamente non lascerebbero tracce materiali. Per risolvere la questione sono intervenuti i soliti neuromani, quelli che fanno la risonanza magnetica persino ai salmoni morti, che hanno cercato le “diversità” strutturali dei DSA nel cervello. I risultati sono incerti, qualcuno parla di “anomalie” della corteccia, altri di “zone” del sistema visivo, altri dei neuroni a specchio. Su tutto grava l’assurdità di un metodo che pretende di stabilire correlazioni, per giunta basate su statistiche rozze, tra le mappe di funzioni elementari e comportamenti umani estremamente complessi, correlazioni mai stabilite in modo accettabile.
Si noti che mentre alcuni psichiatri sostenitori dell’esistenza del DSA, ma prudenti, stimano in 0,1% i bambini affetti, i fautori della legge parlano di un 3-5% da cui deriverebbero conseguenze imponenti visto che la legge prevede riduzioni di impegno scolastico e orari flessibili per i genitori. Se a una simile cifra si aggiunge quella dei bambini affetti dall’altra “malattia”, l’AHDH, Attention Deficit Hyperactivity Disorder, la sindrome del bambino agitato, il numero di minori con problemi raggiunge percentuali da capogiro, di che pensare a una degenerazione della specie umana. L’esistenza dell’ADHD fu decretata a maggioranza, nel 1980, dall’Associazione degli psichiatri americani e “poi” ci si è ingegnati a dimostrare la verità di tale delibera. Anche qui, dopo aver ipotizzato anomalie cerebrali di ogni tipo, sono scesi in campo i neuromani, per individuare con risonanza magnetica (e al solito modo fasullo) diversità cerebrali che dimostrerebbero l’esistenza della patologia. Ma quel che è specialmente grave nel caso dell’AHDH è che dagli USA – dove si è arrivati alla cifra da capogiro di 17 milioni di diagnosi – si è diffusa una medicina, il Ritalin, che è nient’altro che un sedativo: è facile intuire quanto possa essere pericoloso somministrare sedativi a un bambino in crescita.
Ma tant’è. Tanti abbiamo visto per decenni, ne “Il pellegrino” di Charlie Chaplin, un bambino iperagitato che picchia tutti, combina guai, incolla la carta moschicida sulla faccia della gente, mentre la madre tenta di calmarlo con inadeguate moine. L’abbiamo visto come paradigma della maleducazione, nel senso stretto del termine. È finita: l’educazione è un processo in via di sparizione, quantomeno nel senso di un rapporto tra persone. Esiste soltanto la diagnosi e la terapia delle anomalie di individui-monadi. Tutto è ridotto a processi biologici. Siamo un aggregato di “diversità” da trattare in termini sanitari, da conformare a criteri di normalità definiti secondo criteri “scientifici”, si fa per dire. La società è vista come una gigantesca clinica che ha come “mission” la modellazione degli individui su quei criteri. La solita ideologia scientista invade ogni aspetto della vita personale: si va dal progetto di confezionare un individuo perfetto fin dalla nascita, alla subordinazione della scuola al sistema sanitario, allo stressometro negli uffici, e via delirando; tutto sotto la dittatura sempre più soffocante degli “esperti”, psicologi, psichiatri, neurologi, misuratori delle qualità.
(Il Foglio, 28 aprile 2010)

lunedì 26 aprile 2010

Così trasformano le scuole in ospedali



 Stefano Zecchi ha denunciato l’ennesima tappa della dittatura degli esperti: l’introduzione della misura dello “stress-lavoro correlato”, che produrrà un’altra proliferazione di “specialisti” di dubbia competenza ma dotati del potere supremo di controllare lo stato psicologico altrui mediante test, questionari, protocolli e altri marchingegni pseudoscientifici. È un processo di “medicalizzazione” della società che trasforma tutti in malati monitorati, misurati e controllati da una corporazione di esperti al di fuori di ogni controllo.
Non illudiamoci, il processo è planetario e resistervi sarà difficile: l’epicentro sono gli USA, dove dilaga la manìa di considerare ogni stato come una patologia da curare e di sostituire concetti qualitativi con quantità, misure, test e punteggi anche se i risultati di questi metodi sono spesso mediocri. Un esempio clamoroso di questo andazzo è la classificazione dei comportamenti dei bambini vivaci e iperattivi – “con l’argento vivo addosso”, si diceva un tempo – come una malattia che molti studiosi seri considerano una scandalosa invenzione: il suo acronimo è AHDH, Attention Deficit Hyperactivity Disorder. Che vi siano bambini del genere è arcinoto e, in alcuni casi, si cade nella patologia. Ma codificare in generale simili comportamenti come una malattia è folle e pericoloso perché rischia di classificare come malati persone perfettamente normali e scarica le famiglie di ogni responsabilità trasformando un problema quasi sempre educativo in una faccenda di dottori e psicologi. Negli USA l’AHDH è stato diagnosticato in 17 milioni di bambini. L’anno scorso il sedativo Ritalin, prodotto allo scopo, è stato ricettato 20 milioni di volte con un giro di affari stratosferico. Una celebre ballerina, Elisabetta Armiato, ha ricordato di essere stata una bambina iperattiva che saltava sul tavolo da pranzo. Proprio per questo ha deciso di battersi per il divieto dello screening di massa dell’AHDH nelle scuole italiane e per il consenso informato prima della somministrazione di Ritalin.
Ma mentre ci si batte per turare una falla se ne aprono altre più gravi. È in discussione in Parlamento una legge, pare approvata da uno dei due rami (e già a livelli regionali), che è frutto di un trasversalismo politico progressista saldato dal comune intento di fare il futuro. Essa codifica l’esistenza di una nuova malattia detta DSA, Disturbi Specifici di Apprendimento. Di che si tratta? Il DSA raggruppa “disturbi” diversissimi tra di loro, che assieme non fanno una sindrome, ma sono riunificati solo perché legati ai processi di apprendimento, anche se ciò accade per altre malattie di diversissima natura: e questo già la dice lunga sulla serietà “scientifica” di chi ha messo in piedi un simile artefatto.
Il DSA include la dislessia, e fin qui vi è poco da dire, trattandosi di un disturbo noto, anche se si dice che fossero dislessici Newton e Einstein, ovvero i più grandi scienziati della storia. Include poi la “disgrafia”, «disturbo di scrittura che si manifesta in difficoltà della realizzazione grafica». Già qui c’è da saltare sulla sedia. In una scuola, in cui non è più considerato necessario insegnare a come tenere una penna in mano, coloro che hanno difficoltà nello scrivere o nel disegnare sono una massa imponente. E non è un ritornello quotidiano che le capacità ortografiche dei bambini delle primarie sono disastrosamente modeste? Ebbene, anche la “disortografia”, pomposamente detta “difficoltà nei processi linguistici di transcodifica”, è un disturbo incluso nel DSA. Conclude il quartetto la “discalculia”, «disturbo che si manifesta con una difficoltà negli automatismi del calcolo e dell’elaborazione dei numeri». Anche qui giova ricordare le carenze matematiche degli studenti sistematicamente attestate dai test internazionali e verificabili quotidianamente da qualsiasi insegnante: la massa dei “malati” di discalculia è un esercito. Per la mia specifica competenza matematica ho approfondito la questione. Leggendo alcuni materiali “specialistici”, ho constatato che i criteri di demarcazione della “malattia” sono quanto mai vaghi e mal definiti. Nelle definizioni si fa spesso ricorso a idee dei meccanismi del calcolo mentale completamente fasulle. Senza contare che si trascura il contesto storico-sociale: nel Settecento il matematico Eulero era in grado di fare calcoli mentali di mostruosa difficoltà che, essendo cieco, dettava a un aiutante. Oggi anche il più valente matematico non sarebbe in grado di avvicinarsi da lontano a simili capacità. Esiste un’evoluzione storica delle capacità di calcolo e di memorizzazione che è stata ampiamente studiata e che questi “specialisti” ignorano. Oggi, per molte ragioni anche legate agli sviluppi tecnologici, siamo al livello storico più basso delle capacità di calcolo mentale, aggravato dalla crisi della scuola e da teorie didattico-pedagogiche inappropriate. Tralascio di dire quale sia il livello dei rapporti che ho consultato, scritti in una lingua che potrebbe configurare la patologia di “disgrammaticìa” e “dis-sintassìa”. Infine, ho cessato di avere rispetto per queste elucubrazioni quando ho sentito dire da uno di questi “specialisti” che gli studenti in sedia a rotelle sono strutturalmente poco abili nel calcolo mentale perché questo sarebbe legato alle capacità motorie: basti pensare che uno dei più celebri fisici e matematici viventi, Stephen Hawking, è affetto da atrofia muscolare progressiva.
Tuttavia, si sta preparando il più gigantesco processo di trasformazione della scuola italiana in ospedale: la legge riconosce la diagnosi di DSA effettuata dal Servizio Sanitario Nazionale, la quale viene comunicata dalla famiglia alla scuola. In altri termini, le famiglie che mirano a trasformare gli insuccessi scolastici dei loro figli in malattia da curare, possono mettere fuori gioco scuola e insegnante mediante psicologi e psichiatri, notoriamente esperti in grafismo, calligrafia, ortografia e matematica. Viceversa, genitori di vedute più rigorose possono vedere il loro figlio sequestrato dal processo dell’istruzione e consegnato all’ambulatorio: difatti la legge prevede che le scuole possano apprestare interventi per individuare casi di DSA «sospetti» (dàlli all’untore!) e comunicare alla famiglia che il loro figlio è un anormale. Già c’è chi stima tra il 3 e il 5% la prateria su cui pascolerà il grande affare del DSA.
Per comprenderne fino in fondo le devastanti implicazioni, va sottolineato che la legge garantirà «appositi provvedimenti dispensativi e compensativi di flessibilità didattica», una «didattica individualizzata e personalizzata», e la dispensa da «prestazioni non essenziali ai fini della qualità dei concetti da apprendere». I provvedimenti riguardano persino le famiglie, le quali acquisiscono il diritto a orari di lavoro flessibili. Insomma, se tuo figlio passa dalla categoria di insufficiente in matematica a quella di discalculico, ottiene il successo formativo garantito, e tu stai pure a casa. Nel frattempo, avanza inarrestabile la dittatura degli specialisti che, per affermarsi, ha bisogno di una società fatta di malati, di disturbati e disadattati da misurare, monitorare e curare.
Resta soltanto da confidare nei vincoli della crisi e del rigore del Ministero dell’Economia per arginare questo autentico delirio.
 (Il Giornale, 22 aprile 2010)

giovedì 22 aprile 2010

Basta un’eruzione e la "scienza" ci dice che l’universo è un mistero


«Uno dei più grandi misteri dell’Universo è il fatto che non sia un mistero. Siamo in grado di comprendere e prevedere il suo funzionamento a tal punto che se un uomo comune del Medio Evo si trovasse a vivere tra noi si convincerebbe che siamo dei maghi». Così scriveva nel suo “Perché il mondo è matematico” il noto astronomo e autore di libri di cultura scientifica, John D. Barrow. È un trionfalismo che ci accompagna imperterrito, per esempio nella divulgazione di massa alla Piero Angela: la scienza ormai ha reso trasparente tutto, dalla pietra al cervello. Altri non si spingono a tanto, ammettendo che non sappiamo e non sapremo mai tutto, ma ribadendo che le verità acquisite dalla scienza poggiano su solida roccia e che soltanto la scienza ha diritto a dirsi “cattolica”. E guai a dire il contrario: si rischia – che dico – si ha la certezza dell’anatema, di ottenere il marchio infamante di “irrazionalista”, “nemico della scienza e della ragione”, “seguace di maghi, fattucchiere e oroscopari”. È una campagna che va avanti da mezzo secolo, e i cui paladini sono schierati attorno alle bandiere del progresso, del libero pensiero, della lotta contro l’oscurantismo.
Poi esplode il vulcano Eyjafjiallajökul e improvvisamente la musica cambia. Il Corriere della Sera dedica una pagina intera alle implicazioni espitemologiche dell’evento intitolandola nientedimeno che: “La natura imprevedibile è più forte di noi”. Passi il “più forte di noi”, ma quell’“imprevedibile” lascia di stucco. Se l’avesse detto chi da tempo contesta lo slogan dell’onnipotenza della scienza, e sostiene che è “razionale” e “scientifico” ammettere che la scienza si scontra contro gravi difficoltà di previsione, che è sempre più difficile ottenere leggi generali, che la scienza di base è in grave stallo, sarebbe partito l’anatema. Ma a chi è uso sostenere che l’unica fonte di verità è la scienza è consentito spararla grossa. Come Margherita Hack che non vuol spingersi a dire «che la scienza sia impotente» – non esageriamo, nessuno si spinge a tanto – ma arriva alla conclusione che «non tutto è prevedibile». Eppure – consola Hack – la scienza serve comunque a qualcosa, anche quando prevede l’assoluta imprevedibilità – e anche questo è un po’ troppo cattivo con la povera scienza. Difatti «non sappiamo quando il Vesuvio andrà in eruzione ma di certo prima o poi accadrà». Di certo? Per quanti sforzi abbiamo fatto non abbiamo capito perché dall’assoluta imprevedibilità di quando possa accadere un’eruzione discenda la certezza del suo accadimento. Deve averci messo lo zampino un veggente.
Secondo Paolo Rossi la vicenda del vulcano distrugge «il mito della prevedibilità dei fenomeni fisici ma anche del corso storico». Difatti, curiosamente, Rossi coglie l’occasione per sfogarsi contro gli sta antipatico anche se non c’entra nulla: esemplifica come errori madornali le previsioni di padre Lombardi che vedeva i cavalli dei cosacchi abbeverarsi alle fontane di San Pietro e le previsioni apocalittiche di Asor Rosa. Più attinente sembra la critica della pretesa degli economisti di controllare scientificamente il mercato. Ma sarebbe stata più pertinente una critica delle previsioni di costruire entro breve tempo una macchina pensante, un robot autonomo, e di tutto l’armamentario di speculazioni a base di risonanza magnetica con cui si vuol far credere che staremmo sul punto di tradurre pensieri in termini di processi chimico-fisici cerebrali. Ma è meglio prendersela con padre Lombardi o Asor Rosa.
Per parte sua, a Emanuele Severino la tesi che la Natura sia più forte della Tecnica infastidisce non poco. Lui vede la crisi del vulcano come una pausa nel percorso con cui la Tecnica va verso il dominio del mondo e una prova che, pur combattendo alla pari con la Natura, ancora non è in grado di tenerle testa del tutto. Ciò sarebbe dovuto anche al fatto che le leggi della scienza (su cui la tecnica è basata) sarebbero ipotetiche, da cui discende, ad esempio, che «un corpo, abbandonato a sé stesso, da un momento all’altro, invece di cadere verso il basso potrebbe andare verso l’alto», da cui una ribellione radicale della Natura che mette in discussione il dominio della Tecnica. Non è chiaro se il corpo che sale verso l’alto siano le polveri del vulcano: in tal caso, nessun problema, ci ricadranno presto sulla testa, confermando le leggi della fisica. Oppure si vogliano riproporre le tesi dell’integralista islamico Al-Ghazali che quasi costarono la testa ad Averroé: solo che Al-Ghazali parlava della libertà di Dio di governare la natura a suo piacimento e non di una Natura dotata di libero arbitrio.
Questo è quanto ci ha offerto la lettura del mattinale scientifico all’ombra del vulcano. Peraltro è certo che, depositatesi le polveri, ricomincerà la solfa che «il più grande mistero è che non vi siano più misteri».

(Il Foglio, 20 aprile 2010)

domenica 18 aprile 2010

Crisi della cultura numerologica e i problemi della valutazione

La qualità si può misurare?

«Siamo di fronte a una cultura dei numeri in cui istituzioni e individui credono che si possano conseguire decisioni eque mediante la valutazione algoritmica di alcuni dati statistici .... incapaci di misurare le qualità i decision-makers sostituiscono la qualità con i numeri che essi possono misurare» (Dal documento "Citation Statistics»).


Riporto un confronto pubblicato su Avvenire una decina di giorni fa sul tema della misurazione delle qualità e dell'ossessione numerologica.
Gli specialisti della misurazione delle qualità reagiscono in modo irritato a quello che sentono come una messa in discussione del loro mestiere.
Ma non è conveniente nascondersi dietro un dito.
La misurazione delle qualità fa acqua da tutte le parti e mette in discussione i procedimenti cosiddetti "oggettivi" nella valutazione: è un problema molto attuale nel campo dei sistemi dell'istruzione e della ricerca scientifica.
Frattanto, le massime autorità in tema di numeri proscrivono sempre più apertamente e radicalmente l'uso di metodi numerici nella valutazione della ricerca.
Poco più di un anno fa istituzioni prestigiose come la International Mathematical Union, l'International Council of Industrial and Applied Mathematics, e l'Institute of Mathematical Statistics hanno prodotto un documento Citation Statistics che demolisce teoricamente i metodi bibliometrici e, in particolare il citation index, concludendo con un'affermazione molto netta: «Numbers are not inherently superior to sound judgements».

È seguita una presa di posizione di tutte le più note e prestigiose riviste di storia e filosofia della scienza del mondo, Journal under Threat , che rigetta il metodo di valutazione numerica ERIH e preferisce rinunciare a tutti i vantaggi (finanziamenti) derivanti dall'essere valutati in questo modo.

Infine di recente è intervenuto un'altra personalità di prestigio, il Presidente di SIAM, Society for Industrial and Applied Mathematics, Douglas N. Arnold. In un durissimo articolo, Integrity under attack: The State of Scholarly Publishingin cui denuncia il modo scandaloso con cui molte riviste e autori usano abilmente i metodi di valutazione quantitativa per trarne vantaggi a scapito della serietà della ricerca, chiede esplicitamente la soppressione dell'uso di metodi bibliometrici per la valutazione.

Sarebbe il caso di prendere atto di questi sviluppi.
Per ora riguardano la ricerca scientifica e, di conseguenza, ovviamente la valutazione del sistema universitario.
Ma è bene guardare in faccia la realtà. La problematica è unitaria. Le implicazioni sui metodi di valutazione numerica dei sistemi scolastici sono evidenti.

Quanto all'idea generale che si possono "misurare" - non tanto attribuire generiche stime numeriche, come i voti a scuola, ma "misurare" in modo preciso e oggettivo - le qualità, è un modo per buttare al cestino le acquisizioni di qualche secolo di metodologia della scienza in nome di considerazioni generiche ed è espressione di una certa fatuità culturale e teorica dilagante.

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Perché sì
Allulli:

Con la sua consueta serenità e pacatezza Giorgio Israel, in un articolo pubblicato sulle colonne di questo giornale, ha dato del ciarlatano a chi ha il coraggio di parlare di "misurazione della qualità"; se, invece di insultare, si documentasse su ciò di cui parla, scoprirebbe che la qualità non solo è misurabile, ma è di fatto misurata tutti i giorni. Innanzitutto che cos’è la qualità? Le definizioni che ne vengono date convergono sul principio che la qualità è il grado in cui un processo od un prodotto od un servizio od una prestazione soddisfa le attese dell’utente/cliente/consumatore (che a sua volta può essere singolo o collettivo).
 Tutti noi misuriamo ogni giorno la qualità di ciò con cui veniamo a contatto: una macchina, una pietanza, un servizio pubblico; tuttavia le nostre attese rispetto al prodotto/servizio spesso sono diverse, in quanto ognuno matura aspettative diverse e molto personali. A parità di prestazione il giudizio che emerge dai diversi "giudici" può essere dunque molto diverso. Questo non significa che la qualità non si può misurare, ma solo che il giudizio che viene attribuito è frutto di una elevata soggettività.
 Che cosa fa Israel quando assegna i voti ai suoi studenti all’università: non esprime forse una misura quantitativa di una prestazione qualitativa? È tutto il sistema scolastico a basarsi su giudizi numerici di prestazioni qualitative. Il problema dunque non sta in questo; sta piuttosto nel fatto che la prestazione viene misurata in modo del tutto soggettivo e senza rendere chiari, espliciti e trasparenti i criteri di giudizio. Su quale base si assegna un voto ad una interrogazione o ad un compito scritto? Sulla base della conoscenza della materia, della vivacità espositiva, della logica argomentativa, della correttezza grammaticale, sintattica e lessicale della esposizione?
 Probabilmente la maggior parte dei docenti usa tutti questi criteri, ma sicuramente ognuno di loro li "pesa" diversamente, come sa chiunque abbia reminiscenze di scuola. Su quale base si assegna 25 o 27 in un esame universitario? Anche in questo caso i criteri di giudizio divergono profondamente, al punto che in alcune facoltà si possono trovare medie altissime, mentre in altre i voti sono molto più bassi; lo stesso fenomeno accade con i voti scolastici.
 E su quale base si giudica una scuola? Lo sa Israel che gli ispettori inglesi dell’Ofsted, che lui cita ad esempio, prima di entrare in una scuola analizzano tutti gli indicatori sul funzionamento della scuola, sui risultati dei test, sugli abbandoni, in modo da disporre di punti oggettivi di riferimento per il loro giudizio? E lo sa che i giudizi degli stessi ispettori vengono formulati sulla base di criteri molto precisi, e non solo di un generico apprezzamento della "qualità"? Insomma la qualità viene misurata tutti i giorni. Ecco allora la necessità di confrontarsi su come "misurare la qualità". Non per rendere del tutto oggettivo il processo di valutazione, perché non lo sarà mai. Però per renderlo almeno un po’ meno casuale ed arbitrario di adesso.

Perché no
Israel:

Si rassegni Giorgio Allulli. Non ho bisogno di documentarmi per sapere quel che mi dice la metodologia della scienza: le qualità non si misurano, tutt’al più se ne può dare un giudizio tradotto in indicatori numerici. È quel che faccio quando assegno un voto: di certo, non misuro assolutamente nulla. Non misuro neppure se dico che il mare ha forza 8, figuriamoci se posso misurare la conoscenza, la vivacità, la competenza, l’intelligenza e tutto ciò che uno studente mette in opera in una prova d’esame. Sono concetti che non ammettono una definizione oggettiva e tantomeno possiedono un’unità di misura. E dove non c’è unità di misura non c’è misurazione.

Non è solo questione di divergenze di giudizi, è l’oggetto stesso che si ribella a una definizione univoca. Per esempio, si può fare una statistica e rilevare che la maggioranza ritiene che A sia più bello di B, il che ha qualche interesse; ma chi pensa che B è più bello di A non si troverà mai nella condizione insostenibile di chi pretenda che una formica è più alta di un elefante. La definizione di qualità di Allulli (ed è singolare cercare definizioni formali di un concetto che è al centro della riflessione filosofica da secoli) riconduce al concetto di utilità. Consiglio di leggere la celebre corrispondenza tra Henri Poincaré e Léon Walras in cui il primo spiega perché l’utilità non è misurabile (e il secondo concorda). Come non è vero che l’utilità è misurabile, non è vero che ogni giorno misuriamo qualità: ne diamo valutazioni soggettive, come quelle circa la mia serenità e pacatezza.

Ciò detto, è ragionevole perseguire valutazioni il più possibile concordi e accettate. Ma questo non si fa perseguendo la pretesa illusoria di costruire una metodica della valutazione sul modello delle scienze esatte. La valutazione è un processo culturale e sociale che non può essere astratto dai contenuti. Solo attraverso il confronto culturale e di merito si realizza un processo di valutazione con un elevato grado di accettazione e di fondatezza. Apprezzo il sistema delle ispezioni purché basato su giudizi di merito. Ritengo delicato l’uso dei test e assurdo l’uso di parametri come gli abbandoni che finiscono col premiare il lassismo.

Conosco il sistema Ofsted ma non ritengo una buona idea lodarlo indipendentemen-te dal fatto che gli studenti inglesi hanno livelli di preparazione disastrosi. Come ha osservato Cesare Segre, le valutazioni debbono essere fatte dai competenti. Aggiungo io, con un sistema di controlli incrociati che stimoli un processo complessivo di confronto.



Trovo preoccupante l’emergere di una corporazione di "valutatori" che manifesta una tendenza all’autoreferenzialità di cui è sintomo la reazione aspra quando qualcuno osa metterne in discussione la dottrina. È bene che anche i valutatori accettino di essere valutati. Non sono il solo a considerare con estrema perplessità la prospettiva di mettere la scuola in mano a chi ritiene che esista una scienza della misurazione delle qualità. Consiglio di leggere l’articolo Vite a punti ("Corriere della Sera" del 7 marzo) per rendersi conto di quanta insofferenza e degrado culturale stia creando l’ossessione numerologica.



(Avvenire, 8 Aprile 2010)

domenica 11 aprile 2010

Una replica al direttore di Confindustria-Education

Il direttore controreplica? No ma anche sì.
Difatti si legge sul sito di Tuttoscuola la notizia che egli avrebbe inviato un mail a una settantina di persone "autorevoli" per commentare la mia replica al suo intervento sul Sussidiario; e che questa mail avrebbe come oggetto "Israel straparla". Del suo contenuto l'unico che non sa niente e ancora non ha capito niente è il sottoscritto. Il che - stare del tutto fuori dai pettegolezzi - considero un autentico titolo di onore.
La redazione di Tuttoscuola definisce l'"oggetto" del mail non diplomatico e inelegante. Ancor più inelegante è rispondere a questo modo, facendo appello al consenso delle "autorità" in una forma privata che poi diviene pubblica senza che il messaggio lo diventi. Tanto più che è un'ineleganza che segue a un'ineleganza. Difatti, le "critiche" di Gentili culminavano nell'affermazione che la linea da noi scelta porta alla produzione di "furfanti"...
A queste ineleganze se ne aggiunge una terza: quella di mettere in giro la voce falsa che vi sarebbero dissensi e imbarazzi nella commissione. Falsa, come ha ben precisato sempre su Tuttoscuola il consigliere Max Bruschi.

Un modo davvero civile di discutere: invece di ricorrere ad argomenti si cerca di delegittimare e isolare il contraddittore. Un tipico comportamento di chi non ha più niente da esibire salvo che la mazza del potere.

Frattanto, il dibattito vede l'intervento del professor Tagliagambe che evoca nientemeno che Florenskij come precursore delle competenze... Forse si sarà confuso con Makarenko e le sue comuni educative sovietiche.
Le due frasette di Florenskij da lui citate sono quasi coincidenti con molte affermazioni che ho fatto nel mio articolo, e le sottoscrivo senza esitazioni. Resta il fatto che il poveretto aveva a che fare con le tesi del professor Tagliagambe quanto con la danza classica. 
Registriamo anche che ci viene proposta una definizione di competenza divergente da quella corrente, e in aperta collisione, per esempio, con quella dell'esperto Thélot (v. il post precedente) e, difatti, con un aperto rimprovero all'Ocse-Pisa. Tanto per dare conferma che siamo in piena scolastica. L'unica cosa che manca, e che sarebbe benvenuto, è il rasoio di Occam.


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Caro direttore,
sono assolutamente sconvolto dal fatto che mail private possano essere rese pubbliche. E' un modo di operare incivile, indegno di chi si occupa di educazione. Ovviamente, ciò non riguarda chi pubblica, ma chi trasmette materiali. A questo punto colgo l'occasione per ripetere quanto privatamente (e sottolineo privatamente) ho scritto: e cioè che non intendevo entrare in baruffe (non lo scontro tra Israel e Gentili, ma alcuni commenti scambiati per mail), riservandomi di intervenire pubblicamente alla fine del dibattito che ho voluto pubblico. Lo riporto integralmente:
"Carissimi,
non mi ero reso conto che la risposta di Claudio Gentili (cui avevo scritto privatamente) fosse stata spedita a una così qualificata platea. Sforzo dunque la mia congiuntivite (spero scuserete eventuali errori dovuti alla fatica di scrivere) e preciso quella che è la mia posizione ed evito di entrare in baruffe che non fanno parte del mio carattere e del mio modo di operare per il bene pubblico.
Mi limito a precisare che conosco perfettamente le persone che mi sono compagne di viaggio e che ho avuto il privilegio di scegliere. Non abbiamo magari posizioni identiche, ma abbiamo un "idem sentire" e una stessa valutazione dei problemi. Altrimenti, non ci sarebbe stato possibile lavorare così bene (sottolineo, così bene, in assoluto e ancor più in rapporto ad alcuni prodotti "innovativi" che ho avuto modo di vedere, e che pure hanno avuto tempi lunghissimi di maturazione) in così poco tempo.
Le indicazioni per i licei sono il frutto di un lavoro, guidato da un ristretto gruppo tecnico, che si è avvalso del "top" della nostra accademia e dei nostri insegnanti liceali, per una volta fianco a fianco (anche "fisicamente"). Abbiamo tenuto conto delle esigenze espresse dal mondo universitario (che, lo ricordo, rappresenta lo sbocco privilegiato dei nostri studenti liceali) per cercare di ridurre, nel tempo, le carenze riscontrate. Abbiamo anche avuto il privilegio di poter lavorare in anteprima sui nuovi quadri OCSE per la matematica (cosa che forse Claudio non sa). Abbiamo concatenato al "profilo" (che contiene le competenze in uscita) già approvato nel regolamento ciascuna disciplina. Abbiamo fissato gli OSA irrinunciabili e gli obiettivi generali, lasciando grande libertà alla scuola e agli insegnanti di arricchire e di poter usare la metodologia didattica che ritengono più opportuna.
Su questo, in piena sintonia con il ministro, abbiamo lavorato. Sulla realtà, insomma. Abbiamo avuto sostegni importanti. Certo, tutto è migliorabile, e per primo, ormai settimane fa, ho invitato lo stesso Gentili a farmi esempi concreti. Ma siamo convinti che la strada sia quella giusta.
Dopo di che, se ciò significa passare per reazionario, mi dichiaro reazionario.
Ritengo, ovviamente, per quanto mi riguarda, chiusa ogni polemica. Non ritornerò più sull'argomento, se non a chiusura del dibattito pubblico".
Concludo: il tutto mi sembra un maldestro tentativo, compiuto da chi non mi conosce bene, per cercare di intralciare il lavoro della commissione. Tentativo destinato ad andare a vuoto. Guano nel ventilatore. Ma sono adeguatamente munito di impermeabile. Ne approfitto per confermare la stima e l'amicizia verso Giorgio Israel, un combattente senza il quale, probabilmente, la nostra battaglia per raddrizzare la scuola sarebbe stata molto più difficile se non impossibile.
Prof. Max Bruschi

Il buon professore mette in castigo le idee degli esperti


Al Convegno che si è svolto a Roma l’8 aprile sulla «scuola dell’obbligo tra conoscenze e competenze» ha partecipato Claude Thélot, già presidente di una commissione sul futuro della scuola francese sotto la presidenza Chirac. Il Corriere della Sera l’ha intervistato presentandolo come «uno dei più grandi esperti di problemi scolastici». Leggere cosa ha detto è istruttivo per capire chi sono questi “esperti” e in quali mani si vuole mettere la scuola europea.
Una premessa. La scuola non va bene in Francia. Lo ammette lo stesso Thélot, asserendo che circa il 15% per cento dei giovani esce dalla scuola dell’obbligo con conoscenze insufficienti e grandi difficoltà nell’applicarle, più o meno nella media europea. In realtà, se così fosse non sarebbe poi un gran disastro. Ma le cose stanno molto ma molto peggio. Per rendersene conto basta leggere il libro di Laurent Lafforgue e Liliane Lurçat, “La disfatta della scuola. Una tragedia incompresa” (ora tradotto in italiano da Marietti); e anche leggere i tanti rapporti di ricercatori francesi come Catherine Krafft. Il quadro che presentano è quello di un disastro senza precedenti, altro che 15%: intere generazioni che non sanno più scrivere e far di conto. Come accade da noi. L’altro giorno un collega si metteva le mani nei capelli di fronte a persone vicine ad andare a insegnare che ancora non capiscono perché la frazione ¼ si possa anche scrivere 0,25.
Lafforgue è un matematico di prim’ordine, una Field medal, l’equivalente del Nobel per la matematica. Nel 2005 ha dovuto dimettersi dall’Alto Consiglio dell’Educazione francese per aver scritto privatamente al presidente del medesimo che era assurdo chiedere consulenze a funzionari ed “esperti”: «Per me è esattamente come se fossimo un Alto Consiglio dei Diritti dell’Uomo e decidessimo di fare appello ai Khmer rossi per costituire un gruppo di esperti per la promozione dei Diritti Umani». Vista la composizione del Consiglio dei Diritti Umani dell’ONU la prospettiva è ormai realtà… Ma Lafforgue è ingenuo come tutte le persone che credono ancora di poter parlare il linguaggio della verità e sa che chi ha ridotto la scuola francese in questo stato sono proprio i cosiddetti “esperti”, i teorici della “didattica delle competenze”, della scuola dell’autoformazione e del successo formativo garantito. Ha pagato caro per dirlo ma chiunque legga il suo libro o visiti il suo sito vi troverà una miniera di idee e di osservazioni che potrebbero davvero servire per iniziare a porre rimedio al disastro.
Si inizia a capire così perché un Thélot limiti la percentuale degli insuccessi a un modesto 15%: perché non può ammettere che le cose vadano tanto male, visto il potere che le persone come lui hanno avuto ed hanno sulla scuola, ma, al contempo, deve far capire che bisogna continuare a propinare la sua medicina. E cosa si frappone al successo totale della “cura”? In primo luogo, i professori, quei maledetti professori che non si adattano a fare quel che prescrivono gli esperti.
Sentite: «Scuola e professori tradizionalmente insistono sulle conoscenze: invece dovrebbero occuparsi meno di trasmettere il sapere e occuparsi più della crescita dei propri alunni». «Il docente – prosegue Thélot – deve essere prima di tutto uno specialista del successo dei propri studenti».
A questo punto qualsiasi persona ragionevole, non corrotta dal modo di “ragionare” aberrante di queste persone, vede in modo plateale la contraddizione. Che cos’è il “successo” a scuola? Conoscere e saper usare le conoscenze. Difatti non risulta che la scuola si occupi di altro che di “saperi”. Proprio Thénot lo conferma lamentando che troppi ragazzi abbiano insufficienti conoscenze e capacità di applicarle. E allora, come ottenere questo successo? Non trasmettendo conoscenza, per carità, ma trasformandosi in specialisti del successo degli studenti… Molto facile in realtà: basta trasformare la scuola in un paese dei balocchi, divertirsi di più e alla fine promuovere tutti. Successo formativo garantito.
Ma, risponderà l’esperto, non è questo che volevo dire. Intendevo che la vecchia scuola è troppo legata alla «trasmissione di conoscenze astratte». Così ci si vuol far credere che siano stati loro a scoprire che non basta ingurgitare passivamente nozioni, che bisogna assimilarle e saperle usare attivamente. In realtà, questa idea risale a Socrate ed è stata largamente applicata. Nel Regio Decreto istitutivo dei licei moderni in Italia, risalente addirittura al 1913, si poteva leggere:
«L’insegnante non trascurerà di sottoporre a osservazione o a esperimento la previsione, cui sarà pervenuto col ragionamento, per constatare se essa corrisponda alla realtà […] Gli alunni siano sempre attivi, trovino da sé, sotto la guida del professore, e non ricevano da lui solo direttamente il sapere bello e formato. Essi, entro certi limiti, devono ripetere per proprio conto e per vie abbreviate, il lavoro compiuto dalle passate generazioni nella conquista del sapere scientifico. […] non si dimentichi mai che si sa bene solo quello che si sa fare o applicare. […]».
Queste cose, chiare a qualsiasi buon insegnante, questi signori le propagandano come la scoperta dell’ombrello, sotto la voce della distinzione tra “conoscenze” e “competenze”. La scuola delle “conoscenze” sarebbe quella vecchia e “trasmissiva”, la loro scuola è quella delle “competenze”. Poi se chiedi come definirebbero le competenze, farfugliano centinaia di definizioni. Nella loro confusione mentale non riescono più neppure a mantenere la distinzione di cui sopra: competenze sono «conoscenze, capacità di applicarle in diversi contesti, attitudini e atteggiamenti mentali che favoriscono l’iniziativa autonoma e la capacità di apprendere e lavorare insieme agli altri». Bella novità. È soltanto cambiato il nome. In un’ottica minimamente corretta di cosa sia la scuola, queste capacità sono sempre rientrate nell’idea di conoscenza. Anzi, senza la capacità di dominare autonomamente i concetti appresi, non esiste alcuna conoscenza.
E allora perché questi vaneggiamenti nominalisti? Ma è chiaro. Perché, al fine di assoggettare la scuola al dominio di “esperti” che hanno come unica risorsa le loro teorie gestionali autoreferenziali e che, richiesti di spiegare come si dovrebbe far apprendere la matematica o la storia, non saprebbero produrre altro che i balbettamenti  dell’ignoranza, bisogna distruggere contenuti, discipline, conoscenze specifiche e ridurre tutto a metodologia. Occorre fare degli insegnanti i meri esecutori dei precetti degli “esperti”, automi deprivati dell’unico strumento autonomo che possiedono: la conoscenza disciplinare.
E allora, per salvare la scuola bisogna proprio confidare negli insegnanti, quelli bravi e capaci, s’intende. Quelli che uno di questi “esperti” ha vergognosamente definito “sacca di resistenza”.
(Il Giornale, 9 aprile 2010)

lunedì 5 aprile 2010

Intervento al Convegno “Sistema universitario: criticità e prospettive” promosso dall’Intergruppo Parlamentare per la Sussidiarietà Camera dei Deputati, 18 marzo 2010

POLEMICHE SU PEDOFILIA E ANTISEMITISMO

Intervista a "Il Riformista"

 Di norma non rilascio mai interviste se non chiedendo una rilettura del testo. Difatti, la sintesi da parte di un cronista di una conversazione a voce può modificare in modo sensibile quel che si intende dire. Anche questa volta ho fatto così. Ma il giornale non ha tenuto conto, malgrado le promesse, della mia richiesta e ha pubblicato la sua sintesi che non corrisponde bene al mio pensiero. Per giunta, ha intitolato l'intervista in modo assurdo: «Una moratoria sull'uso della parola Shoah». Ora, non sono così imbecille da pensare che sia il caso di interdire l'uso della parola Shoah... Piuttosto ho proposto di smettere di ABUSARE della parola Shoah. E tra una moratoria dell'abuso di una parola e del suo uso corre un abisso. Non a caso subito c'è chi se ne è approfittato per fare ironie fuori luogo.
Questo è il testo "autentico".

“Sono convinto che il paragone con la Shoah per indicare ogni situazione efferata e odiosa sia molto pericoloso. E propongo una vera moratoria dell’abuso di un simile riferimento, perché tutte le menti si raffreddino e si ragioni seriamente”. 
Professore, quale è la sua opinione sull’intervento del padre cappuccino?
Conosco personalmente padre Cantalamessa, e sono certo delle sue migliori intenzioni. Penso che questa vicenda costituisca l’ennesima prova di quanto sia sbagliato usare l’Olocausto come sinonimo di ogni efferatezza. Proprio la rappresentazione della Shoah come crimine senza paragoni incita a strumentalizzarlo come riferimento per qualsiasi cosa si voglia condannare, fino a strumentalizzazioni odiose. Penso a quel corteo di insegnanti che sfilarono per protestare contro la riforma Gelmini indossando sul petto una stella di David. Su questa strada si rischiano infortuni e si rischia di offendere pur senza cattivi intenti. Il nostro dovere ora è di raffreddare le menti – anche il mio primo istinto ripensando a tanta parte della mia famiglia sterminata nei lager è stato di sdegno - e di ragionare rigorosamente: pertanto propongo una moratoria sull’abuso della parola Shoah e del riferimento allo sterminio del popolo ebraico quando si vuole denunciare qualcosa che non aggrada.
Il rabbino capo di Roma, Riccardo Di Segni, si dice “incredulo da un paragone ripugnante e offensivo verso le vittime degli abusi e verso le vittime dell’Olocausto”. E, parafrasando la preghiera cattolica sulla conversione degli ebrei, “prega Dio affinché illumini i loro cuori”.
Guardi, non ritengo che si debbano accendere altre polemiche su temi su cui ve ne sono state abbastanza. Dopo quelle polemiche vi è stata la visita del Papa in cui non è stata riaperta né mi pare il caso di riaprirla. Piuttosto, il tema che solleverei è un altro: il silenzio sul diritto di Israele e del popolo ebraico al suo legame storico e spirituale con Gerusalemme. Vi è pieno diritto a criticare la politica israeliana, ma ciò non autorizza il mondo islamico a proclamare che Gerusalemme è la “pupilla del suo occhio” e che l’ebraismo non ha alcun diritto su di essa. Il silenzio generale, incluso quello della Chiesa, su questo scandalo è ciò che ha reso amara questa Pasqua ebraica.
L’Osservatore Romano denuncia “una propaganda grossolana contro il Papa e i fedeli, bersaglio di un’ignobile operazione diffamatoria e di un’offensiva mediatica destabilizzante”.
Su questo giudizio mi asterrei da giudizi affrettati e andrei coi piedi di piombo. Ovviamente nulla deve essere taciuto in merito alla vicenda degli abusi sui minori da parte di appartenenti al clero cattolico: ricordo sempre che le responsabilità sono individuali, e che è sempre necessaria un’estrema cautela. Mi colpisce il fatto che non si sia vista una campagna altrettanto aggressiva e indignata verso la pedofilia non “religiosa”, verso le lobbies che la sostengono apertamente come se fosse un diritto. Vedo invece che si inizia a parlare anche della pedofilia nelle scuole rabbiniche ortodosse. Mi auguro che non vi sia chi sta pensando di scatenare una propaganda contro la religione colpevole in quanto tale della pedofilia, magari coprendo quella che dilaga ovunque.



mercoledì 24 marzo 2010

A PROPOSITO DELLE NUOVE INDICAZIONI NAZIONALI PER I LICEI



Rileggendo le varie Indicazioni nazionali per l’istruzione che si sono succedute in questi anni viene alla mente quella bibbia della composizione letteraria classica che è stata l’“Arte poetica” di Nicolas Boileau. Malgrado il discredito in cui avevano cercato di gettarla i romantici, ancora nel 1946 André Gide scriveva: «Quei saggi precetti di Boileau, che ci facevano imparare a memoria, in cui la tradizione classica veniva cristallizzata in versi alessandrini, sarebbe interessante riprenderli uno dopo l’altro». In particolare, vengono alla mente i versi: «Prima di scrivere apprendete a pensare. Secondo che la nostra idea sia più o meno oscura, l’espressione la segue, o meno netta, o più pura. Quel è ben concepito si enuncia chiaramente e le parole per dirlo vengono facilmente».
Proprio quel che non accade con le Indicazioni nazionali fin qui propinate, in cui abbondano, per dirla con Boileau, «pensieri oscuri avvolti da una nube spessa» che «la luce della ragione non saprebbe penetrare». Ora si prescriveva di sviluppare l’«approccio senso-percettivo all’ambiente circostante» e di «costruire le proprie geografie». Ora si sentenziava nientedimeno che «la costruzione del pensiero matematico è un processo lungo e progressivo nel quale concetti, abilità, competenze e atteggiamenti [sic] vengono ritrovati, intrecciati, consolidati e sviluppati a più riprese». Si indicavano obbiettivi tanto generali da essere vuoti e lapalissiani: «usare le conoscenze e le abilità per orientarsi nella complessità del presente», «esercitare la riflessione critica sulle diverse forme del sapere».
Pochi leggono questi testi e invece è istruttivo farlo. Essi dicono come la scuola si sia allontanata dal senso comune e dal buon senso, ma anche dal linguaggio della cultura, che tale è solo se è libero e corrispondente a un significato realmente pensato. La scuola si è isolata in un gergo autoreferenziale, fatto di formule tronfie e vacue («accesso critico agli ambiti culturali»), intrise di una terminologia didattico-burocratica in cui è vietato scrivere più di una riga senza pronunziare alcune parole sacre (“abilità”, “apprendimenti”, “competenze”, “attitudini”, ecc.), come la recita meccanica di una preghiera. È quasi superfluo dire che questo gergo riflette un intento: porre al centro la metodologia a totale scapito dei contenuti. «Non pensi mai a quello che dovrà insegnare, che è del tutto secondario» – ho sentito predicare a una futura insegnante – «pensi soltanto a come dovrà insegnare».
Le nuove indicazioni nazionali per i licei, da pochi giorni rese pubbliche, rovesciano questa tendenza e rimettono al centro i contenuti dell’insegnamento, proponendo semplici prescrizioni in un linguaggio chiaro e alieno da schemi preformati (com’è caratteristico di ogni testo che sia frutto di un pensiero autentico). Lo studio della lingua e della letteratura italiana non è più un pretesto per “qualcos’altro”, magari per inseguire obbiettivi reboanti come l’“esercizio pieno della cittadinanza” o il “rispetto dell’altro”. Il contributo della scuola alla formazione del cittadino sta nella formazione culturale in base al principio che la conoscenza è libertà. Lo studio della lingua ha come principale scopo il padroneggiare la lingua stessa per esprimersi correttamente e organizzare i ragionamenti, e per comprendere a fondo la cultura italiana. Lo studio della letteratura significa in primo luogo acquisire il piacere e l’arte della lettura, sviluppare la curiosità intellettuale, ancora una volta per entrare nello spirito della nostra cultura. Rimettere al centro la Commedia di Dante Alighieri va in questa direzione. Non meno significativo è l’accento posto sull’importanza della filosofia, con l’innovazione di dedicare l’ultimo anno del liceo alle filosofie posthegeliane, con una marcata attenzione per la problematica scientifica e la teoria della conoscenza.
Questo porta a dire qualcosa circa le indicazioni concernenti le scienze e, in particolare, la matematica. Si tratta, com’è noto, di una questione strategica per la riqualificazione della nostra scuola. Come rendere interessante lo studio delle materie scientifiche e soprattutto della “bestia nera”, la matematica? La corretta risposta sta nel presentare la matematica non come un insieme di tecniche autoreferenziali, ripetitive, meccaniche e di cui è incomprensibile il significato e la portata in un contesto più generale; bensì nel metterne in luce il ruolo centrale non soltanto nella scienza (in particolare nella fisica) ma nel processo generale della conoscenza. Queste nuove indicazioni nazionali riescono a realizzare questo obbiettivo perché mirano a mettere in luce le relazioni profonde tra le discipline, pur declinate nella loro inevitabile specificità, senza indulgere a fumose e inconsistenti visioni totalizzanti e “olistiche”. Perciò la chiave è mettere in luce le connessioni tra filosofia, storia e scienze, e tra le discipline scientifiche fra di loro, il che permette di portare in primo piano il valore culturale di queste ultime.
È quindi una grande innovazione che, sia per la fisica che per la matematica, si indichi come obbiettivo l’acquisizione da parte dello studente della «consapevolezza critica del nesso tra lo sviluppo» di quei saperi e «il contesto storico e filosofico» in cui essi si sono sviluppati. Non meno importante è che si indichi la necessità che lo studente si avvicini allo spirito sperimentale della fisica senza confonderlo con un cieco empirismo e senza dimenticare che la disciplina poggia su solidi fondamenti concettuali e teorici. Si enuncia con poche e chiare parole – poche e chiare perché ben pensate, avrebbe detto Boileau – il senso profondo del metodo sperimentale, «dove l’esperimento è inteso come interrogazione ragionata dei fenomeni naturali e strumento di controllo di ipotesi interpretative, scelta delle variabili significative, raccolta e analisi critica dei dati e dell’affidabilità di un processo di misura, costruzione di modelli».
Per quanto riguarda poi la scelta dei contenuti specifici dell’insegnamento della matematica, essa viene giustificata in termini storici, facendo riferimento ai «tre principali momenti che caratterizzano la formazione del pensiero matematico»: «la matematica nel pensiero greco, la matematica infinitesimale che nasce con la rivoluzione scientifica del Seicento, la svolta a partire dal razionalismo illuministico che conduce alla formazione della matematica moderna e a un nuovo processo di matematizzazione che ha cambiato il volto della conoscenza scientifica». Di qui deriva in modo naturale l’individuazione dei tre principali gruppi di concetti e metodi che lo studente dovrà padroneggiare: geometria euclidea; algebra, geometria analitica ed elementi del calcolo infinitesimale; elementi del calcolo delle probabilità e della statistica. Nessun astratto chiacchiericcio sulla “matematica del cittadino” e altre amenità, ma una chiara e solida riconduzione dei contenuti portanti della matematica ai grandi temi della cultura, della conoscenza, della tecnologia. Questa è la cornice per proporre agli studenti esempi di matematizzazione nelle scienze naturali e sociali. Chi abbia sperimentato questo approccio didattico sa che è quello giusto per stimolare l’interesse dello studente e dissolvere l’immagine della matematica come un oggetto alieno.


È davvero da sperare che questa svolta nella formulazione delle indicazioni nazionali dia un contributo decisivo alla riqualificazione della scuola italiana. Essa dovrà estendersi al primo ciclo dell’insegnamento, con una visione d’insieme che permetta anche un riassetto equilibrato e organico di materie strategiche come la storia e la geografia. Le numerose reazioni favorevoli a questi documenti permettono di nutrire fiducia che sia stata imboccata la via giusta.

(Il Messaggero, 20 marzo 2010)

martedì 23 marzo 2010

BESTIARIO MATEMATICO n. 5

Problema proposto in una classe di quinta elementare:


Dato un triangolo qualsiasi, è nota la lunghezza della base (4 metri) e dell'altezza (8 metri).
Determinare il perimetro.


Chi ci riesce guadagna un premio di 1000 euro.
Il maestro la soluzione l'ha data... ma il premio non glielo do...

domenica 21 marzo 2010

BESTIARIO MATEMATICO n. 4

Quasi tutti conoscono la proprietà commutativa dell'addizione e della moltiplicazione.
In altri termini, la proprietà (dei numeri ordinari, interi, razionali, ecc.) per cui:
a + b = b + a  (per l'addizione)
a x b = b x a (per la moltiplicazione).


Ebbene, sapete come la presentano alcuni libri e i maestri che adottano questi libri?
Non come una proprietà dei numeri interi, razionali, ecc. No, per carità. Bensì:
Come un metodo per verificare se il risultato dell'operazione è giusto!......


Ovvero, fate a + b. Il risultato è c.
Ora calcolate b + a. Se il risultato è ancora c vuol dire che avete fatto il calcolo giusto.


No comment


(E se per caso vi viene ugualmente sbagliato in entrambi i casi?......)
Qui di cappelli d'asino ce ne vuole una serie infinita.


P.S. Sapete la storia (assolutamente autentica) di quello studente che, abituato all'"ortografia" dei cellulari ha letto il nome del "generale Nino Bixio" (il luogotenente di Garibaldi) come il "generale Nino Biperio"?...
Bene, qui mi manca il simbolo del "punto" per il prodotto.
Nel caso che quel giovane legga questo post vorrei precisare che a x b = b x a non vuol dire "aperbi = bipera".

giovedì 18 marzo 2010

Un appello per abolire Dante con surreale dibattito allegato



Appena l’amico Dino Cofrancesco ha fatto pubblicare su L’Occidentale un appello per la cancellazione dell’insegnamento della Divina Commedia di Dante dalle scuole italiane, l’ho subito avvertito che avrebbe toccato con mano una realtà spiacevolmente sorprendente. Così è stato, ma lui giustamente sostiene che è meglio guardare la realtà in faccia.
Ricordiamo rapidamente di che si è trattato. Cofrancesco si è autonominato Segretario organizzativo dell’ARRE, Associazione per il rispetto di tutte le religioni e la convivenza pacifica delle etnie culturali – presieduta dal Prof. Franco Romano e avente come Presidente onorario Sergio Cardini – e, in tale veste, ha rivolto al Ministro Gelmini una petizione per la cancellazione dell’insegnamento di Dante dalle scuole. La motivazione era dettagliatissima, con riferimento a brani della Divina Commedia («a torto ritenuto capolavoro della lingua italiana») che testimoniano le ripetute offese rivolte dal «cosiddetto divin poeta» alle religioni non cristiane e persino a quella cristiana, le sue visioni reazionarie, oscurantiste, antiscientifiche, antifemministe, antisemite e, più in generale, l’assenza del più elementare “politicamente corretto”. Facendosi portavoce delle proteste di numerosi cittadini di religione islamica, dell’Associazione tosco-emiliana per la difesa delle tradizioni cittadine e della Federazione Gruppi Gay Riuniti, l’ARRE proclamava di voler sostenere la propria richiesta fondando un movimento antidantesco con sezioni in ogni città della penisola.
A distanza di pochi giorni è stato possibile trarre un bilancio dalla provocazione, un bilancio che chiunque può fare esplorando le reazioni che si trovano ancora in rete. Un numero consistente di persone si è infuriata contro l’ARRE, gli extracomunitari e gli islamici. Ma la maggior parte ha reagito in modo civile e ragionato, difendendo sì i valori della nostra cultura e opponendosi alla prospettiva di cancellare il “divin poeta” dalle scuole di ogni ordine e grado, ma proponendo un approccio tollerante, insomma chiedendosi cosa si potrebbe fare per non offendere troppo i “diversi”. Giustamente Cofrancesco ha trovato questo atteggiamento il più deprimente, «la prova del nove dello spappolamento irrimediabile dell’intelligenza e dell’etica sociale del paese»: «tutto può venir messo in discussione, su tutto si può argomentare pro o contro, l’essenziale è comunicare, scambiare idee, ascoltare quanto hanno da dire gli altri». È un atteggiamento che non esclude come via d’uscita che si continui pure a leggere Dante nelle scuole, ma censurando tutti i passi “offensivi” e “politicamente scorretti”, il che sarebbe anche un’ottima occasione per ridimensionare ulteriormente la lettura di un testo tanto lungo e prolisso…
Vorrei sottolineare un altro aspetto profondamente avvilente. Salvo pochissimi, nessuno si è dato la briga di controllare se l’appello fosse attendibile. Eppure quei “Sergio Cardini e Franco Romano” dovevano mettere sull’avviso e sarebbe bastata una rapida esplorazione della rete per rendersi conto che l’ARRE non esiste. Siti del tutto rispettabili, persino parecchi siti di associazioni di insegnanti hanno riportato la petizione senza controllare, hanno citato l’ARRE come se sapessero da tempo della sua esistenza. Lo so che un simile atteggiamento credulone era implicito nel fatto di discutere sul serio i contenuti della petizione. Ma mi chiedo: a quale livello siamo scesi, a quale forma di “wikipedizzazione” che spinge a bere qualsiasi cosa circoli in rete? C’è da stupirsi allora se i nostri giovani stanno cadendo in una condizione di abbrutimento culturale crescente?

(Tempi, 17 marzo 2010)

venerdì 12 marzo 2010

Sulla riforma dell'università

La riforma dell’università è un tassello fondamentale della riforma del sistema dell’istruzione nazionale. Attorno al disegno di legge in discussione in Parlamento si sta sviluppando un dibattito che, da un lato ha dimostrato un’ampia convergenza sulle linee fondamentali del testo, d’altro lato ha messo in luce gli aspetti su cui possono essere apportate utili revisioni.
In termini generali, ogni intervento dovrebbe ispirarsi al principio di non stressare un sistema che da decenni non conosce requie. Alla lunga, trasformare l’università in un perpetuo cantiere può avere effetti devastanti. Se l’attività prevalente dei docenti non è più insegnare e far ricerca bensì implementare nuove leggi e decreti, ciò non è soltanto negativo in sé, ma favorisce coloro che sono più abili a “gestire” che non a compiere le funzioni per cui sono stati assunti. Occorre quindi pensare a interventi che ricorrano al bisturi di precisione piuttosto che allo scalpello, limitando al massimo i provvedimenti attuativi.
Da questo punto di vista, il disegno di legge in discussione è convincente nello spirito generale – soprattutto per quanto riguarda il meccanismo di reclutamento e di carriera dei docenti – ma, da un lato, lascia aperti aspetti che andrebbero precisati subito, per evitare il rischio del “cantiere perpetuo” e, dall’altro, contiene troppe regole e meccanismi complicati di taglio dirigistico.
Il provvedimento articola il sistema di governo dell’università in modo convincente, secondo un modello largamente diffuso a livello internazionale, ma non definisce chiaramente le funzioni del Senato accademico rispetto a quelle del Consiglio di amministrazione, col rischio di conflitti di competenza. Inoltre tende a sottrarre al corpo docente la gestione della didattica e della ricerca (il Senato accademico si limita a formulare “proposte” in materia) e mostra una propensione aziendalistica evidente nella struttura del Consiglio di amministrazione, composto di «personalità italiane o straniere di comprovata competenza in campo gestionale e di un’esperienza professionale di alto livello» (per almeno il 40% non universitari). Di questo organo non sono chiarite le modalità di selezione, come se la competenza gestionale o professionale fosse evidente di per sé e al di sopra di ogni valutazione. È noto che il corpo docente non ha buona stampa, ma alla fin fine l’università è pur sempre un’istituzione di cultura, insegnamento e ricerca e non è introducendo una logica aziendale senza verifiche che si può sperare di sanare i mali creati da qualche decennio di assunzioni ope legis e di provvedimenti malamente accatastati e spesso improvvidi come il sistema localistico di reclutamento e il percorso laurea triennale–laurea specialistica. Un confronto con gli statuti di alcune università americane evidenzia in quest’ultime un sistema che attribuisce maggior peso al corpo accademico e che non fa concessioni demagogiche a organi docenti-studenti a composizione addirittura paritetica.
Il disegno di legge sceglie una via giusta quando mira ad attribuire maggiore importanza ai dipartimenti, conferendo loro funzioni didattiche e non soltanto di ricerca e riduce al minimo le funzioni delle facoltà. Ma bisogna fare i conti con le caratteristiche del sistema italiano. Se si volesse davvero fondare tutto il sistema universitario sui dipartimenti occorrerebbe abolire la strutturazione in settori scientifico-disciplinari. Pare evidente a molti che sarebbe un’ottima scelta perché questa strutturazione introduce rigidità grottesche: un docente che voglia cambiare di settore, magari perché ha cambiato attività di ricerca – per esempio da un settore di matematica a uno di fisica – si trova di fronte a ostacoli enormi. Ma abolire il sistema dei settori scientifico-disciplinari sarebbe una rivoluzione da bulldozer, altro che scalpello. E allora, non potendola fare, occorre tenersi le facoltà, altrimenti nessuno potrebbe gestire i tantissimi corsi di laurea interdisciplinari. Quale dipartimento potrebbe mai gestire un corso di laurea di formazione di un insegnante delle scuole secondarie di primo grado? Occorre pensare a facoltà “leggere”, che tengano sedute plenarie solo in casi eccezionali, che si strutturino per commissioni, e il cui preside sia una figura meramente “presidenziale”. Tutto questo dovrebbe essere precisato in dettaglio fin d’ora per rendere il processo di transizione rapido e agile.
È evidente che, per risanare l’università, è necessario un efficace sistema di valutazione. Ma anche qui è necessario alleggerire al massimo le regole e pensare a controlli a valle piuttosto che a tante prescrizioni a monte. Per esempio, per quanto riguarda il reclutamento, l’esperienza suggerisce che non esiste sistema, per quanto stringente, che non possa essere aggirato. È assai meglio concedere molta libertà nel reclutamento e poi valutare ex post i risultati ottenuti. Un esempio tipico di inutili controlli a monte è la norma della quantificazione dell’impegno dei docenti in 1500 ore annue. Può forse avere senso per un’équipe di laboratorio. Ma chi debba fare una ricerca in una biblioteca come sarà controllato? Con una cimice appesa alla giacca o con attestati dei bibliotecari che garantiscano anche che non abbia passato il tempo a fare videogiochi sul computer? Si dice che simili norme sono suggerite dall’Europa: ma non ogni stupidaggine deve essere accolta soltanto perché porta un timbro comunitario.
La scelta del sistema di valutazione non può essere lasciata nel vago in attesa che la costituenda agenzia di valutazione la costruisca chissà come e chissà quando. Per esempio, bisogna dire con chiarezza se il sistema di valutazione deve fondarsi tutto su procedure di valutazione numerica oppure su ispezioni incrociate capillari, ovvero su un severo sistema di autovalutazione di contenuto fatto dalle persone e non basato su procedure automatiche. Sarebbe bene non chiudere gli occhi di fronte alla crescente consapevolezza che certe tecniche di valutazione cosiddette “oggettive” – come l’indice delle citazioni (“citation index”) – funzionano bene soltanto in certi settori come la medicina, mentre danno risultati inattendibili o addirittura disastrosi nei settori delle scienze di base, per non dire delle scienze umane. Andrebbe evitato l’ennesimo errore di importare in ritardo un sistema in vigore all’estero, proprio mentre iniziano a evidenziarsi i suoi limiti. C’è qualcosa di puerile nell’idea – cara agli “esperti” di valutazione, per lo più esperti di tecniche aziendali che non hanno mai insegnato o fatto ricerca un’ora in vita loro – secondo cui la valutazione sarebbe una sorta di novità dei nostri giorni. La valutazione dei risultati della ricerca è inerente allo sviluppo stesso della scienza come attività organizzata e professionalizzata fin dall’Ottocento – inerente in quanto esprime il confronto culturale all’interno della comunità scientifica, un confronto che ha senso soltanto se si manifesta in modo aperto, rigoroso, non anonimo e mirante ai contenuti e non a parametri meramente formali. Un buon sistema di valutazione è soltanto quello che restaura un confronto culturale all’interno della comunità universitaria sui contenuti e sulla qualità della ricerca e della didattica. Ogni approccio che si affidi a meccanismi automatici è una concessione alla pigrizia mentale, penalizza la ricerca di base e stimola alle promozioni facili pur di mostrare che l’università laurea tutti in tempo.
(Il Messaggero, 10 marzo 2010)

mercoledì 10 marzo 2010

BESTIARIO MATEMATICO n. 3


La teoria degli insiemi ha visto la luce nella seconda metà dell’Ottocento ad opera di Georg Cantor. In più di duemila anni di matematica, da Euclide a Poincaré, nessuno ne ha avuto bisogno. Ciò detto, oggi, soprattutto in branche come la topologia, la combinatoria, calcolo delle probabilità, ecc. ecc. è un ottimo e vantaggioso linguaggio sintetico. Un linguaggio, niente più.
Ma non bisogna dimenticare che Cantor l’ha introdotta essenzialmente per costruire una teoria dei numeri infiniti” o “transfiniti”. Il punto di partenza è l’osservazione che la numerazione di un gruppo di oggetti si fa mettendolo in corrispondenza biunivoca con un altro insieme più semplice: p. es. le dita di una mano, una manciata di sassolini, ecc. Il fatto che due insiemi finiti siano in corrispondenza biunivoca equivale al fatto che abbiano lo stesso numero di elementi.
Nel campo dell’infinito non è così: un sottoinsieme strettamente contenuto in un altro (e quindi intuitivamente più “piccolo”) può essere posto in corrispondenza biunivoca con il secondo. Il classico esempio (illustrato anche da Galileo) è l’insieme dei numeri pari che è in corrispondenza biunivoca con l’insieme di tutti i numeri naturali (ad ogni numero n corrisponde il numero pari 2n, e viceversa), ma è strettamente contenuto in esso (più “piccolo”). Persino i numeri razionali (frazioni) possono essere posti in corrispondenza biunivoca con i numeri interi e con i pari… Perciò potremmo dire che hanno lo stesso tipo di infinità, hanno lo stesso “numero infinito” o “cardinalità”, “potenza”, o “numero transfinito”, pur essendo contenuti strettamente l’uno nell’altro.
Ovviamente qui non entriamo nella teoria cantoriana dei numeri transfiniti e nei paradossi cui ha condotto. Ma l’essenziale è questo: questa teoria è stata inventata assieme alla teoria degli insiemi per manipolare matematicamente l’infinito – obbiettivo riuscito soltanto a metà.

Conseguenza: nel caso finito, la teoria della cardinalità o potenza degli insiemi non serve assolutamente a niente, perché in questo caso il concetto di “cardinalità” o “potenza” coincide con quello di “numero” di elementi dell’insieme.

E questo spiega anche perché insistere sulla teoria degli insiemi è fuori luogo, poiché essa è davvero utile, anche nel caso finito, soltanto come linguaggio che abbrevia una serie di lunghi discorsi in contesti tecnici più avanzati.

Ebbene, nelle primarie è invalso il malcostume di introdurre il concetto di potenza di un insieme. D’altra parte gli insiemi considerati sono sempre finiti: sarebbe semplicemente irresponsabile e idiota pensare di introdurre un bambino al difficile e astratto concetto di potenza di un insieme infinito invece di insegnargli le tabelline. Pertanto questa nozione è assolutamente inutile, superflua, un aggravio di definizioni, una violazione del sano principio del rasoio di Ockham.

E invece…. Non soltanto questa nozione viene introdotta ma si dà luogo a un linguaggio non si sa se più idiota o osceno, insegnando al bambino che un insieme di 8 mele è “più potente” (sic!) di un insieme di 6 arance e l’insieme di 6 arance è “meno potente” (sic!) dell’insieme di 8 mele.

Basterebbe dire che il primo è più numeroso del secondo. No, bisogna dire che è “più potente”, termine ridicolo, mai usato da nessun matematico.

E così invece di manipolare numeri e apprendere a contare, i bambini vengono addestrati a una casistica ridicola con un linguaggio ancor più ridicolo.

martedì 9 marzo 2010