Padroneggiare il concetto di infinito e di infinitamente piccolo è una delle grandi ambizioni su cui è nata la scienza moderna. La matematica atta a trattare questi concetti nacque nel Seicento come strumento per descrivere i fenomeni del moto e quindi come fondamento della nuova meccanica.
Da dove nacque l’interesse per l’infinito? Non dispiaccia a chi nega che scienza e religione abbiano qualcosa a che spartire: esso ha una matrice teologica ed è legato all’idea di una divinità trascendente.
Questa tematica era stata già compresa circa un secolo fa da un singolare pensatore russo Pavel A. Florenskij. Nato nel 1882, si laureò in matematica a Mosca nel 1904, l’anno in cui scrisse un saggio su “I simboli dell’infinito”. Personaggio geniale ed eclettico, Florenskij studiò filosofia, psicologia, teoria dell’arte e del linguaggio, e divenne uno specialista in ingegneria elettrotecnica; ma soprattutto sviluppò un interesse intenso per la teologia che lo portò, nel 1908, a diventare sacerdote ortodosso. Quando scoppiò la rivoluzione bolscevica era già celebre. Non volle lasciare il paese, malgrado fosse contrario al nuovo regime che alternò nei suoi confronti atteggiamenti di apertura, cercando di usarne le straordinarie competenze, e di controllo stretto. Florenskij restò per difendere la comunità ecclesiale e combattere il dogmatismo ideologico. Divenne ingombrante, fu imprigionato e poi fucilato nel 1937. Solo da pochi anni la sua opera sterminata è stata riscoperta e studiata. Nel saggio che ci interessa egli si occupa dell’opera, a lui contemporanea, del grande matematico tedesco Georg Cantor, creatore di una teoria degli insiemi infiniti che era il culmine dello sforzo secolare di dominare concettualmente l’infinito. Vogliamo qui illustrare la geniale intuizione con cui Florenskij comprese la natura teologica delle speculazioni matematiche di Cantor, ma per farlo dovremo fare una digressione introduttiva.
Vale anche per l’infinito la frase di Alfred North Whitehead secondo cui la filosofia europea «consiste di una serie di note a piè di pagina di Platone» e, in generale, del pensiero greco. Certo, il pensiero filosofico-scientifico moderno si è discostato dalle conclusioni dominanti nel pensiero greco, ma ha dovuto solo “scegliere” in un inventario in cui le varie definizioni di infinito e le aporie connesse a tali definizioni erano state esplorate a fondo. Le difficoltà legate alla considerazione dell’infinito – espresse nei celebri paradossi di Zenone – indussero i Greci a un atteggiamento di diffidenza, soprattutto nei confronti dell’“infinito attuale”, l’infinito dato una volta per tutte, pensato con un atto unico. Aristotele privilegiò l’“infinito potenziale”, inteso non come una quantità data ma come un processo di crescita senza limiti. In generale, i Greci propesero per una visione finitista, che era coerente con quella del cosmo, visto come una sfera chiusa, limitata, dal raggio finito.
Il monoteismo ebraico ruppe l’armonia greca tra uomo, cosmo e divinità introducendo un abisso tra l’uomo, creatura finita, e il suo mondo finito, da un lato, e un Dio concepito come Essere assoluto, trascendente, infinito. Era un abisso che soltanto la “voce” poteva superare: la voce di Dio che si rivela e quella dell’uomo che prega. Il teatro principale era spostato dalla natura alla sfera morale e religiosa della comunità umana. La teologia medioevale, sia ebraica che cristiana, recuperò lo spirito greco soltanto per quel che riguardava la sfera naturale: Aristotele divenne il praecursor Christi in naturalibus e, secondo Maimonide, la Torah conteneva forse una spiegazione dei segreti della natura, ma essa si era persa ed era ormai rimpiazzata dalla fisica di Aristotele. Ma la giustapposizione del trascendentalismo religioso col finitismo naturalistico conteneva una contraddizione interna insanabile. Già nel Medioevo si levarono molte voci a identificarla e criticarla. Tale fu il caso del filosofo ebreo Hasdaï Crescas le cui originalissime speculazioni sull’infinito aprirono la strada all’abbandono del finitismo aristotelico e dell’idea che il mondo è un plenum di oggetti e all’affermarsi di una visione geometrica dello spazio come contenitore vuoto in cui “galleggiano” i corpi. Sono i primi segni dello sbocciare del pensiero rinascimentale, del passaggio «dal mondo chiuso all’universo infinito» (Koyré) e che fu segnato dall’abbandono di Aristotele a favore di Platone.
Edmund Husserl ha descritto magistralmente la visione che è alla base del ripensamento moderno dei compiti ereditati dalla filosofia antica, che «non arrivava a riconoscere la possibilità di un compito infinito», e ha spiegato come l’apertura verso il tema dell’infinito sia la fonte di un’idea della conoscenza come processo indefinito di approssimazione verso la “verità”. La novità è l’«idea di una totalità infinita dell’essere e di una scienza razionale che lo domina razionalmente».
Qui si realizza pienamente la sintesi tra la razionalità greca e l’aspirazione ebraico-cristiana alla trascendenza. La razionalità greca viene proiettata verso un compito che supera i confini ristretti della concezione antica e insegue l’infinito come termine praticamente irraggiungibile ma perfettamente definito in un processo illimitato di avvicinamento. In questo quadro la matematica ha una funzione centrale, in quanto terreno su cui si realizza una conoscenza oggettiva.
Certo, le resistenze all’abbandono del punto di vista antico furono grandi, persino da parte di pensatori rivoluzionari come Descartes, che esclude che l’uomo possa attingere all’infinito. «Sarebbe ridicolo – egli dice – che noi, che siamo finiti, intraprendessimo di determinare qualcosa dell’infinito e, in tal modo, supporlo finito cercando di capirlo». Secondo Descartes noi possiamo solo constatare cose in cui non vediamo limiti e quindi non diremo che sono infinite, ma che sono indefinite, «riservando a Dio soltanto il nome di infinito». Quindi sebbene l’universo sia, in quanto immagine di Dio, infinito – e qui Descartes rompe con l’aristotelismo – nella mente dell’uomo appare come un “interminatum”. Dio è l’infinito attuale, alla mente dell’uomo è riservato solo l’infinito potenziale.
Ma proprio l’impossibilità di costruire una rappresentazione complessiva e definitiva dell’universo è il fondamento dell’oggettività della conoscenza! Se conoscenza umana e realtà fossero fuse, la seconda sarebbe finita e imperfetta come la prima e non sapremmo come accertare la verità delle nostre deduzioni. Ma noi sappiamo che esiste una realtà infinita, perfetta e oggettiva distinta dal nostro pensiero e irraggiungibile, in termini assoluti. Un processo di approssimazione indefinita verso di essa ci renderà certi che le nostre deduzioni partecipano, in modo sempre più perfezionato, della verità. Questa visione è il fondamento dell’oggettivismo scientifico, e Descartes la riprende dalla dottrina della docta ignorantia di Nicola Cusano. Per Cusano, «l’intelletto si comporta con la verità come il poligono con il cerchio: il poligono iscritto, quanti più lati ha, tanto più si avvicina al cerchio, senza diventar mai uguale a quello, anche se i suoi angoli vengono moltiplicati all'infinito, né giungere mai a coincidere col cerchio». Cusano è più audace di Descartes perché non arretra di fronte al concetto di infinito attuale: benché il processo di approssimazione della conoscenza sia “indefinito”, per avere senso esso deve avere come riferimento un infinito attuale, l’essenza oggettiva della realtà che è il riflesso delle leggi con cui Dio ha strutturato la natura.
Questo è il nodo che viene colto brillantemente da Florenskij nel trattare della teoria degli insiemi transfiniti di Cantor. Egli si sofferma sulla «distinzione fondamentale e del tutto elementare tra infinito attuale e infinito potenziale» e afferma – riallacciandosi a Cantor – che il secondo non è un’idea ma un concetto ausiliario, un “cattivo infinito”. A suo parere, tale concetto fu generato dalle riflessioni di Anassimandro, «secondo il quale la potenza inesauribile, inestinguibile dell’essere, l’apeiron indefinito, riempie lo spazio e dalle sue viscere genera ogni cosa». Ma la parola apeiron non significa contrariamente a quanto riteneva Aristotele, l’infinito della materia prima, «ma solo una fusione e una combinazione di potenze, la possibilità di generare continuamente esseri».
Il limite della nozione di infinito potenziale risulta dal fatto che esso non è pensabile senza l’infinito attuale: una crescita senza limiti non è pensabile se non in relazione a un contesto, che è proprio quello dato da un infinito attuale. Come potremmo pensare ad un numero sempre più grande di un altro se non in un ambiente, per esempio quello dei numeri interi? «Di conseguenza – afferma Florenskij – ogni infinito potenziale presuppone l’esistenza di un infinito attuale quale proprio limite sovrafinito, qualunque progresso infinito presuppone l’esistenza di uno scopo infinito nel progresso, ogni perfezionamento infinito necessita che sia ammessa l’infinita perfezione. Chi nega l’infinito attuale in qualunque accezione nega con ciò stesso anche l’infinito potenziale in quella stessa accezione, e il positivismo ha in sé gli elementi della propria corruzione. Come dire che nel positivismo ha luogo un autoavvelenamento tramite quanto prodotto dalla sua stessa attività».
Oggi, di fronte al tentativo di presentare il relativismo come essenza della conoscenza scientifica, appare davvero attuale la penetrante critica del Florenskij della contraddizione del positivismo, che da un lato afferma il valore universale della conoscenza scientifica e, dall’altro, gli toglie fondamento concependo il processo conoscitivo come un avanzare a caso senza un termine di riferimento. La necessità di un termine di riferimento assoluto – il cerchio limite di Cusano – mostra la centralità del discorso teologico nella fondazione dell’epistemologia scientifica moderna. Senza il riferimento all’infinito, la scienza intesa come costruzione che mira alla crescita della conoscenza non può essere neppure pensata. Florenskij cita il teologo e filosofo tedesco Constantin Gutberlet per denunciare un modo sbagliato di riferirsi a Tommaso d’Aquino: «C’è una seria incoerenza nel fatto che nell’Evo moderno si sia provato di utilizzare con pedante meticolosità tutte le opinioni scientifiche – ovviamente obsolete – di Tommaso d’Aquino, dal quale invece si prendevano le distanze quanto a una questione speculativa importantissima quale è l’eternità del mondo. C’è incoerenza anche nel fatto che nella Conoscenza di Dio si consenta un insieme attuale infinito di possibili cose, di cui però si nega la possibilità. […] Se un insieme attualmente infinito è una contraddizione in sé, esso non può esistere nemmeno nella Mente di Dio se non in quanto assurdo, qualcosa tipo la quadratura del cerchio».
Un altro tema di grande interesse del saggio di Florenskij è l’identificazione della radice della visione del mondo di Cantor nelle sue radici ebraiche. In realtà, oggi si ritiene che Cantor, certamente di origini ebraiche, fosse convertito al cristianesimo. Ma questo non è rilevante rispetto alle riflessioni di Florenskij. Egli identifica nello spirito ebraico ciò che fa dell’impresa scientifica di Cantor la manifestazione di «una grande fede» che mira a dimostrare la necessità dell’idea del transfinito. E osserva:
«Se come persona, Cantor appare quale modello vivissimo di ebreo, la sua visione del mondo ne è altrettanto – se non più – tipica. L’idea dell’infinità perfetta (infinito finito) della persona assoluta – Dio – così come della persona umana è una prerogativa dell’ebraismo, e questa idea pare essere il fondamento più sostanziale di Cantor. […] alla sua anima l’idea dell’impossibilità dell’infinito attuale appare mostruosa. […] Persino l’infinito potenziale, per lui, è importante solo a condizione di una crescita non indefinita, non il-limitata nel senso primo del termine, ma a condizione tendere verso quello stesso confine, verso l’infinito attuale quale suo scopo ideale».
Florenskij coglie nella spinta al ricongiungimento con il Dio trascendente il motore dell’aspirazione all’infinito che ha un ruolo centrale nella scienza moderna. Egli illustra questa tensione con un sorprendente riferimento a un’invocazione che ha un ruolo centrale nella festività di Pesach (la Pasqua ebraica) e che è contenuta nel testo che viene letto durante la notte della cena pasquale – la Hagaddah. Florenskij la riporta a conclusione del saggio come espressione della tensione al ricongiungimento con l’infinità divina (analoga alla richiesta di Giacobbe all’angelo con cui aveva lottato tutta la notte di non lasciarlo prima di averlo benedetto):
«È probabile che tutti conoscano il “cantico pasquale degli ebrei. Ricorderete certamente l’insistenza decisa, la petulanza – per dirla in modo rozzo – delle preghiere a Dio. Tale incalzante richiesta, tale lotta con Dio, “non ti lascio finché non mi benedici”, sono quanto mai tipiche dell’opera di Georg Cantor, e penso di non poter spiegare meglio il senso del suo operato se non riportando il testo di tale cantico. Eccolo:
Egli Che è possente ricostruirà la Sua dimora presto, prestissimo, durante la nostra vita. O Dio, ricostruisci, ricostruisci presto la tua dimora!
Egli Che è prescelto ricostruirà la Sua dimora presto, prestissimo, durante la nostra vita. O Dio, ricostruisci, ricostruisci presto la tua dimora!
Egli Che è grande ricostruirà la Sua dimora presto, prestissimo, durante la nostra vita. O Dio, ricostruisci, ricostruisci presto la tua dimora! Egli Che è onorato, fedele, giusto, pio ricostruirà la Sua dimora presto, prestissimo, durante la nostra vita. O Dio, ricostruisci, ricostruisci presto la tua dimora! Egli Che è puro, unico, possente, saggio, re, dotto, forte, prode, liberatore, giusto ricostruirà la Sua dimora presto, prestissimo, durante la nostra vita. O Dio, ricostruisci, ricostruisci presto la tua dimora!
Egli Che è santo, pietoso, onnipotente, forte ricostruirà la Sua dimora presto, prestissimo, durante la nostra vita. O Dio, ricostruisci, ricostruisci presto la tua dimora!»
Un secolo fa non si parlava di «radici giudaico-cristiane», ma il cristiano Florenskij aveva capito con profondità ineguagliabile ciò che la religiosità ebraica aveva dato al pensiero europeo moderno.
(Il Foglio, 31 ottobre 2009)
«Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza» (Dante Alighieri)
31 commenti:
Caro Professore,
ho letto ieri questo articolo su Il Foglio e, al di là di Florenskij e Cantor, mi è venuto in testa che la tesi che lei propone e cioè - se capisco bene e scusi l'approssimazione - che alle radici della scienza moderna ci sono problemi di natura teologica, è la stessa che Funkenstein sostiene nel suo "Teologia e immaginazione scientifica nel Medioevo".
Mi sbaglio?
Saluti cordiali
Gennaro Lubrano Di Diego
Sì, è così, anche se non proprio coincidente.
Spero vivamente che questo testo diventi, se non lo è già, l'introduzione ad una nuova divulgazione del professore.
La figura di Pavel Florenskij era stata recentemete ricordata da Vito Mancuso in un programma radiofonico.
L'escursus storico/filosofico in cui le argomentazioni del grande monaco russo sono inserite e sviluppate è estremamente avvincente anche per chi, come me, non è addentro alle problematiche epistemologiche. Probabilmente ciò che queste grandi menti faticosamente cercano di razionalizzare è, in una forma confusa, alla portata delle intuizione di quelle persone più limitate che, nella loro esperienza quotidiana, cercano una ragione del loro testardo affannarsi.
Spero di non essere troppo fuori tema, ma è stato curioso, in contrasto all'articolo del professore, leggere il giorno opo questa riflessione di Eugenio SDcalfari su Repubblica: "(..) Io sento da tempo che noi, come tutte le specie e gli individui viventi che le compongono, siamo forme che la natura incessantemente crea e disfa per far posto ad altre. Senza alcun disegno che non sia la vita.(..) Il senso sta in questo, sta in un eterno divenire. Ogni forma ha la propria legge e diviene secondo quella legge. Noi, nella nostra forma umana, siamo animati dal sentimento dell’amore, dal desiderio del potere e dalla coscienza morale.".
La mia anziana e cara collaboratrice domestica si domanderebbe: "dice che ogni forma ha la sua legge e che siamo animati? e Chi è che detta le leggi e ci anima, secondo lui?"
Suggerisco la lettura del numero 4/2009 della rivista "La Nuova Europa", in cui viene illustrata punto per punto la vita di Pavel Florenskij, prendendo le mosse dalla mostra che l'Editore della rivista suddetta ha presentato al Meeting di Rimini. Va anche richiamato (e nell'ambito citato lo si fa a più riprese) il legame che unì Florenskij al filosofo Vladimir Solov'ev.
In aggiunta a quanto citato, vanno anche ricordati gli studi di idraulica di Florenskij, studi fatti durante la detenzione nel GuLag. Tali studi sono ancora di estrema attualità.
La teologia...ricordo un aneddoto raccontato proprio da Papa Ratzinger ricordando i tempi dell’Università di Bonn che aveva due facoltà teologiche:”...uno dei colleghi aveva detto che nella nostra università c’era una stranezza: due facoltà che si occupavano di una cosa che non esisteva-di Dio”.
Infatti, quel che trovo sconcertante della teologia è proprio questo: vi si sono applicate menti profonde e poderose (come il Florenskij) e menti altrettanto profonde e poderose non l'hanno presa neanche in considerazione. Ora questa è davvero una stranezza: di tutte le attività a cui la mente umana si è seriamente applicata, solo a questa, mi pare, è negato ogni valore da un vastissimo numero di studiosi. Eppure vi si sono dedicati uomini di grande ingegno...ma quel che rimane forse, per un non credente, è l’impressione di un grande sforzo intellettuale, di ingegnosità e sottigliezza infinite, per rispondere in qualche modo a domande, che per degli esseri senza importanza nello schema dell’universo quali noi siamo, sono senza risposta.
Mi viene in mente Giordano Bruno quando per sostenere l’esistenza di un universo senza limiti parlò in questo modo delle “sfere celesti”, fin’allora messe lì dalla Provvidenza divina:”quel bell’ordine e scala di natura è un gentil sogno ed una baia da vecchie rimbambite” Però finì al rogo, forse a quei tempi l’infinito non era così popolare.
Quanto a Scalfari, mi pare prenda solo atto che l’universo (in mancanza di un Dio) ha solo il senso che gli conferisce il suo stesso funzionamento. Che poi questa “macchina” per alcuni debba aver avuto per forza un creatore e un animatore (che mi sembra la ricerca del “finito”), a me solleva sempre la vecchia domanda: e Lui, chi l’ha creato?
x Nautilus
Guarda che lo "sforzo intellettuale" a cui si riferisce il testo su Floreskij non è quello del teologo ma quello dello scienziato. La tesi "scandalosa" che si sostiene è che si può parlare di "oggettività della conoscenza" solo se si ammette l'esistenza "di una realtà infinita, perfetta e oggettiva distinta dal nostro pensiero e irraggiungibile, in termini assoluti". E' quella realtà inesauribile che ci consente di verificare che ogni nostra nuova intuizione o scoperta è "vera" o non lo è. E' proprio la conferma che siamo degli esseri "finiti" ai quali si riconosce però la straordinaria capacità di approssimarsi a quell'assoluto senza mai raggiungerlo (si può chiamare "libertà"?). E' una immagine straordinaria bellezza e semplicità sintetizzabile nella figura geometrica del poligono iscritto nel cerchio. Non è un avanzare a caso e neanche un avanzare secondo "leggi" o "funzionamenti" imposti da una "Natura" di cui noi saremo meri esecutori. Mi fermo prima di dire altri spropositi e per non andare fuori tema.
Dico solo che mi dispiace constatare che si continua a non riconoscere la teologia come forma di conoscenza e a rivangare ossessivamente sugli errori passati della Chiesa. Come si può dialogare?
Buonasera Nautilus.
Se mi permette, la sua è la classica domanda da "Aleph zero" euri (poiché nel post si parla di Georg Cantor e dell’infinito attuale, menziono il più piccolo numero cardinale transfinito: il "numero" [infinito] dei numeri naturali, indicato nella letteratura matematica con la prima lettera dell’alfabeto ebraico, con indice 0).
Secondo il mio punto di vista, alla sua domanda, paradossalmente, potrebbe "rispondere" con più sicurezza un non-credente che un credente.
Un non-credente, infatti, risponderebbe senza esitazione che l’idea di Dio è stata creata dall’uomo (Ludwig Feuerbach docet), e che l’universo (all’interno del quale è comparso, ad un certo momento, l’uomo) si è originato casualmente, per una fluttuazione del vuoto quantistico.
Se la sua domanda (presupponendo che lei voglia riferirsi al Dio biblico) è dettata da una sincera ricerca di una risposta da parte di un credente, ed equivale a chiedersi come potrebbe essersi "originato" Dio, io (che sono un credente cristiano) preferisco risponderle che la ragione umana non riesce a fornire una risposta adeguata a questa domanda, e affermo ciò nonostante sia a conoscenza del fatto che vari filosofi cristiani (mi limito a questi, per non allungare troppo il discorso) abbiano tentato di fornire una risposta razionalmente plausibile ad essa, ipotizzando ad esempio (con San Tommaso d’Aquino) che, poiché per il Dio biblico l’Essenza coincide con l’Esistenza – pensiamo alla rivelazione fatta a Mosè [Esodo 3, 14] –, Dio non abbia avuto un’origine, o (con René Descartes) che Dio debba essere causa di Sé Stesso [preferisco accentare il "Sé" anche in questo caso, alla maniera di Benedetto Croce].
Se la sua domanda, invece, vuole essere, provocatoriamente, un tentativo di ridurre all’assurdo l’ipotesi di esistenza di Dio, pena un irresolubile regresso all’infinito, io le rispondo che, se qualche altro Ente avesse creato Dio, Dio non sarebbe più Dio… In altre parole: la sua domanda-affermazione, lungi dal ridurre all’assurdo l’ipotesi di esistenza di Dio, non farebbe altro che ridurre all’assurdo sé stessa.
“Lo spirito umano, infatti, nella ricerca intorno a tali verità [quelle che concernono Dio], viene a trovarsi in difficoltà sotto l’influsso dei sensi e della immaginazione ed anche a causa delle tendenze malsane nate dal peccato originale. Da ciò consegue che gli uomini facilmente si persuadono, in tali argomenti, che è falso o quantomeno dubbio ciò che essi non vorrebbero che fosse vero”. [Pio XII, Lettera enciclica “Humani generis” (1950)]
Giorgio Della Rocca
(Buonasera professor Israel; ultimamente, sono andato da un medico senese…)
Ottimo articolo, anche se complesso per una menta ignorante come la mia.
Riccardo
Caro Attento, guarda che il dialogo c'è: ho apprezzato molto il tuo intervento 10/28/2009 05:17:00 PM sull'ora di religione, mi ha dato da riflettere e scosso qualche certezza. Volevo scriverlo poi ho rinunciato per non ingombrare inutilmente il blog.
Gentile Giorgio, la prima che ha detto, sono un non-credente PROPRIO perchè penso che Dio l'abbia creato l'uomo.
Lei poi scrive:” ... la ragione umana non riesce a fornire una risposta adeguata a questa domanda...(dell’esistenza)”
Io cambierei questo discorso così:”La ragione umana è non è adeguata (cioè non è uno strumento utilizzabile) per rispondere a questa domanda..”.
Ora, se la ragione umana è inadeguata, perchè volerla utilizzare per analizzare le questioni religiose? Non è meglio “crederci” e basta?
Personalmente ho trovato molto interessante il discorso del Papa a Regensburg, che mi pare affronti proprio questo argomento. Il tema centrale era infatti la teologia e il punto che: “non agire secondo ragione è contrario alla natura di Dio.” (Almeno di quello cristiano, infatti vi era esplicita una critica dell’Islam, il cui Dio prevede la violenza (la jihad)).
Il che non significa però che la ragione ci permetta di avvicinarci a Dio, mi pare, in quanto Egli agisce pieno d’amore in nostro favore e “L’amore sorpassa la conoscenza”.
A me sembra che la chiave sia qui, se Dio è amore, a che serve valersi della ragione nei suoi confronti?. Nel discorso viene infatti riportata una frase di Kant (anche se per confutarla):”Per dar spazio alla fede ho dovuto accantonare il pensare”.
Il Papa dice:
“Soltanto il tipo di certezza derivante dalla sinergia di matematica ed empiria ci permette di parlare di scientificità....E così anche le scienze che riguardano le cose umane, come la storia, la psicologia, la sociologia e la filosofia, cercano di avvicinarsi a questo canone della scientificità. Importante ... è ancora il fatto che il metodo come tale esclude il problema Dio, facendolo apparire come problema ascientifico o pre-scientifico. Con questo, però, ci troviamo davanti ad una riduzione del raggio di scienza e ragione che è doveroso mettere in questione.”
Come lo mette in questione? Così:
“Poiché allora gli interrogativi propriamente umani, cioè quelli del "da dove" e del "verso dove", gli interrogativi della religione e dell'ethos, non possono trovare posto nello spazio della comune ragione descritta dalla "scienza" “
Quindi ci risiamo, sempre lì si va a cascare, l’uomo si fa delle domande a cui non può, non potrà mai dare risposta ed è qui che c’è bisogno della religione, infatti:
“la teologia va vista come un interrogativo sulle ragioni della fede”, perchè con le scienze si “accettano le leggi della natura come un dato di fatto ma la domanda sul “perchè” deve essere spostata dalle scienze alla filosofia e alla teologia” e infine che la teologia è scientifica perchè studia: “L’esperienza religiosa che costituisce una fonte di conoscenza...”
Per me sono affermazioni assai discutibili, specie quest’ultima: se è conoscenza dell’umanità d’accordissimo, se è conoscenza del divino no.
Ora, è chiaro che quanto sopra è una mia personale estrapolazione del lungo e articolato discorso papale (il virgolettato però è quasi letterale) in cui dice molte cose giuste e interessanti, e magari non avrò capito niente, ma neanche il Papa ha chiarito il mio dubbio: a che serve la teologia? Non sarà tutto un ingegnosissimo sforzo per spiegare quel che sarebbe meglio accettare, come dice Kant, evitando di pensare?
La ringrazio, Nautilus, per la sua replica.
Pur essendo un appassionato dell’autoreferenzialità, non mi piace particolarmente autocitarmi, ma le faccio presente che a molte delle questioni da lei poste in tale replica io ritengo di aver sostanzialmente già fornito una risposta in alcuni miei precedenti interventi su questo blog (in particolare, nei miei commenti ai post “Un fior di moderato…” [17 gennaio 2008] e “Povertà intellettuale e declino scientifico” [28 dicembre 2007]).
Per sintetizzare, io non ho affermato che la ragione umana sia inadeguata a scandagliare le realtà riguardanti Dio e i suoi rapporti con l’uomo, ma che vi sia necessità di una "sintesi dialettica" (in senso, ebbene sì, hegeliano) tra fede religiosa (cristiana) e conoscenza razionale, volendo intendere che la fede religiosa (cristiana) debba – anselmianamente, pascalianamente, kantianamente, ecc. – intervenire (proprio come dice lei) là dove la conoscenza razionale non può, per sua stessa natura, arrivare.
Ma questa "soluzione" non costituisce un escamotage o una rinuncia a pensare, anche perché, dopotutto, è pur essa un parto della ragione: si tratta solo di riconoscere che la realtà “Dio”, pur potendo essere scandagliata razionalmente, non possa essere catturata razionalisticamente (credo che le frasi di papa Benedetto XVI, da lei citate, riguardanti la funzione della Teologia, vadano interpretate in questo senso).
Giorgio Della Rocca
(Rinnovo saluti, in particolare al prof. Israel)
Caro professore, mi è stato necessario qualche giorno per assimilare (e godere) il suo articolo-saggio sull' infinito di Pavel A. Florenskij, considerando che ho voluto rinfrescarmi Cantor e i suoi "numeri transfiniti". Le mie conoscenze di Storia della matematica si fermano a Nicolas Bourbaki, purtroppo.
La ringrazio vivamente per questi doni che spesso ci presenta sul suo Blog.
Nautilus, mi fa piacere che il tuo ricordo del discorso di Ratisbona non sia fermo all'aneddoto sulla teologia come disciplina che "studia qualcosa che non esiste". Occorre leggere e rileggere quel testo e lasciarsi trascinare dall'esortazione a compiere " un allargamento del nostro concetto di ragione e dell’uso di essa" superando " la limitazione autodecretata della ragione a ciò che è verificabile nell'esperimento". Oppure per sorprendersi leggendo che "tra Dio e noi, tra il suo eterno Spirito creatore e la nostra ragione creata esista una vera analogia" e constatare che "che agire contro la ragione sia in contraddizione con la natura di Dio". E' un invito al superamento della frattura fra pensiero cosiddetto "scientifico" e quello religioso. Al termine della lettura si svela l'esistenza di un terreno comune "un grande logos, a questa vastità della ragione" dove l'intolleranza e il fanatismo lasciano posto al confronto. Comunque, piuttosto che continuare con questo impacciato copia e incolla, sarebbe opportuno leggere e rileggere anche il testo sull'Infinito e Floreskij perché credo dimostri chiaramente che è impossibile parlare di vera conoscenza se si esclude qualsiasi riferimento alla trascendenza.
Da Florenskij alle chiacchiere occidentali sull'esistenza di Dio... tempo perso. Suggerisco di tornare alla base. Gli yurvedji (i "pazzi di Dio", leggere i "Karamazov" per un esempio) non avevano bisogno di certe elucubrazioni.
Caro professore,
complimenti per il suo splendido articolo su Florenskij. Un vero godimento intellettuale e dal quale traspare una spiritualità, a mio giudizio, che, purtroppo, è sempre più rara, in questo nostro tempo, nelle persone di grande cultura. Vorrei sottolineare quanto sia ancora poco conosciuta la figura di questo grande pensatore della Chiesa Ortodossa russa. Infatti, lunedì 2 Novembre, su RAI Storia, è andato in onda un servizio sul gulag delle isole Solovki dove padre Florenskij trascorse gli ultimi tempi della sua detenzione prima di essere fucilato, nei pressi di San Pietroburgo e dove ancora oggi le sue ossa sono disperse. Ebbene, dei tanti intellettuali e religiosi che il regime comunista internò e fece morire nelle isole Solovki, il nome di Florenskij non è mai stato fatto in tutto il servizio.
Nel ringraziarla per tutto quello che fa, la saluto con sincero affetto,
Salvatore Iacono.
Non m'imbarcherei mai in una discussione sull'esistenza di Dio, ne mancano i presupposti razionali...al massimo potrei fare delle ipotesi sul perchè tanta parte dell'umanità ci crede.
Quel che invece trovo discutibile, nel senso che se ne può discutere (forse) è il valore scientifico che si può attribuire alla teologia. In questo senso le osservazioni di Florenskij sul "termine di riferimento assoluto" di cui avrebbe necessità la conoscenza scientifica per tendervi con successive approssimazioni è interessante e plausibile, diciamo così.
Quanto questo abbia attinenza con la teologia e col divino a me, ateo, sfugge, forse perchè mi pare di non avere grandi difficoltà a immaginare la perfezione infinita: l'uomo deve tendere alla norma, dove come "norma" si deve intendere la perfezione assoluta, ad esempio l'onestà o la bontà possono essere considerati altrettanti "cerchi di Cusano" cui tendere infinitamente.
Tali riferimenti può averli anche un ateo, mi pare.
E poi, anche se m’è sembrato chiaro (come al solito), posso pure aver capito poco dell’articolo del professore.
Attento, la frase sull’”analogia” aveva colpito anche me, anche se ne avevo dedotto altre cose.
Della "norma" (quale che essa sia) non so che farmene. Tendervi infinitamente? tempo perso, la vita è troppo corta, ci sono cose più urgenti.
Onestà? "Nessun uomo è mai troppo vicino all'onestà" (C.S. Lewis, "Le lettere di Berlicche").
Bontà? don Abbondio parla di "bontà", nel saluto che rivolge all'Innominato dopo la fuga dal paese. Ma era un termine adeguato, visti i precedenti di quell'uomo?
E così il resto: felicità? "Idolo del mercato" (Siniavskij, "Pensieri Improvvisi").
E si potrebbe continuare: non c'è nessuna categoria di quel tipo che "tenga" realmente.
Il grande Chesterton riguardo ai materialisti (tratto da “Ortodossia”):
“La loro posizione è pienamente ragionevole: in un certo senso-anzi-è infinitamente ragionevole, allo stesso modo che un pezzo da due soldi è infinitamente circolare. Ma c'è una infinità che è gretta, un'eternità che è meschina e servile.(...)
Guardate per esempio un materialista intelligente e sincero come il signor McCabe, e avrete precisamente questa unica impressione. Egli capisce tutto, e niente vale la pena di essere capito. Il suo mondo può essere completo in ogni vite, in ogni rotella, ma è ancora più piccolo del nostro. Il suo schema (...) sembra inconsapevole delle energie ad esso estranee e della larga indifferenza della vita; trascura le più elementari realtà, le lotte dei popoli, l’orgoglio delle madri, il primo amore, la paura del mare. La vita è così grande e il mondo è così piccolo: è quasi il più piccolo foro dove l’uomo possa nascondere la sua testa.”
Anche Stalin e Pol Pot avevano una morale da seguire. In nome di un sistema etico vengono commessi i più atroci delitti.
Non una morale, ma "la bellezza salverà il mondo" afferma il principe Miškin nell'Idiota di Dostoevskij.
E' “la bellezza lo splendore del vero”. (Platone)
Tutto sommato a Chesterton e Dostoevskij (grandi scrittori, d'accordo)nelle materie dello spirito preferisco Ratzinger, mi pare più ferrato, anche perchè arriva un secolo dopo.
Questo McCabe poi più che materialista mi sembra ben poco sveglio...se trascura l'importanza delle emozioni umane.
E che sia da queste che nasce il senso religioso ne sono ben convinto.
In quanto ai delitti degli atei...non mi pare che credere in un Dio abbia mai trattenuto alcuno dal commetterne di altrettanto spaventosi.
Su Florenskij, per chi ne fosse interessato, segnalo
Natalino Valentini, "Pavel A. Florenskij", Ed. Morcelliana, serie Novecento Teologico.
Cordialmente,
Lucio Demeio.
Su Florenskij preferisco le relazioni del professor Aleksej Judin (di cui sono anche amico), o quello (quando uscirà in italiano, il mio russo è ancora troppo povero) dell'igumeno Andronik Trubacev alle robe scritte da un occidentale. E questo per evidenti motivi.
Un'ultima citazione, poi non "rompo" più: "Io non andrò all'inferno per quello che ho fatto, ma per quello che non ho fatto". Lo disse, in un incontro con gli universitari di Comunione e Liberazione, Giovanni Testori. Ero presente, l'ho sentito con le mie orecchie, ed a distanza di tanti anni, mi è rimasto. Per quello che mi riguarda, dico la stessa cosa, anche perché credo non manchi più moltissimo...
Complimenti, Caroli, per l’ottima citazione (e guardi che non sto scherzando), se intendiamo Inferno come Assenza di Dio.
La completerei con la seguente: si va in Paradiso, da intendersi come Presenza di Dio, non per quello che non si è fatto, ma per quello che si è fatto.
Dove “quello” che non si è fatto di cui parlo io è “quello” che si è fatto di cui parla lei, e “quello” che non si è fatto di cui parla lei è “quello” che si è fatto di cui parlo io…
Giorgio Della Rocca
Gentile Barbara,
secondo Lévinas, “l'etica” si sviluppa soltanto come “responsabilità” verso gli altri. Non è l'astratta formulazione di principi e norme di comportamento. Questo ce l'hanno anche le culture arcaiche, ce l'hanno persino i mafiosi, e le ideologie più avvilenti. Prendersela con l'etica è come dire che un'etica vale un'altra: ed è questo che è falso. Sa chi era per Giovanni Paolo II il più profondo filosofo del Novecento? L'ebreo Emmanuel Lévinas. E ne avrebbe avuto di filosofi cristiani da nominare...L'etica come responsabilità verso l'altro. “Totalità e infinito” è un libro che, se si ha la pazienza di attraversare, ci si arricchisce davvero.
Come lei certamente saprà, quando Dostoevskij fa appello alla “bellezza”, come a ciò che “salverà il mondo”, non allude di certo alla dimensione estetica, ma all'immagine spirituale di Cristo. Al di là del contesto di per sé chiaro, a me sembrò di cogliere pienamente il senso della citazione da lei riportata quando lessi la lettera di Dostoevskij a Natalija Dmitrievna Fonvizina (Omsk. Fine Gennaio-20 febbraio 1854). E' la lettera, tutta da leggere, in cui dice che”non c'è nulla di più bello, di più profondo, più simpatico, più ragionevole, più virile e più perfetto di Cristo”. Dove Dostoevskij continua con la nota affermazione secondo cui, se Cristo fosse fuori dalla verità, se ne infischierebbe della verità e starebbe con Cristo.
Della Rocca, avevo deciso di non intervenire più, ma lei mi tira per i capelli... Io non so cosa intendesse Giovanni con quell'affermazione, né posso saperlo ora non essendo lui più tra noi: so che lui avvicinava la sua traiettoria umana a quella dell'Innominato manzoniano. Ed anzi, ad una mia domanda in proposito posta in altra circostanza, rispose che, guardando la sua storia, credeva di essere assai peggio. E con questo, chiudo davvero.
Secondo me, Testori voleva riferirsi a ciò che Gesù ha detto ai suoi discepoli riguardo al Giudizio Finale [Matteo 25, 31-46], ed io ho completato la citazione in tal senso.
Giorgio Della Rocca
Ragazzi, vi state incartando...
A Junco.
Ho apprezzato molti dei suoi interventi, relativi anche ad altri post di questo blog.
Pur conoscendo poco Dostoevskij, a mio modo di vedere, la frase (apparentemente paradossale) dello scrittore, che lei ha citato nel suo commento odierno delle ore 10.45, sta a significare che non dovremmo tanto accettare Cristo Gesù perché incarna la Verità, quanto accettare la Verità perché è incarnata da Gesù Cristo.
Giorgio Della Rocca
(La saluto, professor Israel. Lo so che mi considera un eterno ragazzo…)
No, guardi, io non la considero un "eterno ragazzo", anche perché non so nulla di lei e non mi permetterei. Giudico soltanto il suo modo di intervenire che trovo assolutamente autoreferenziale. Forse lei dovrebbe farsi un suo blog, almeno potrebbe esprimersi in piena libertà. E poi mi permetta anche di dire - e lo dico io che sono accusato e dileggiato per dialogare troppo con i cattolici - che il suo modo di presentare il suo cattolicesimo è anch'essp autoreferenziale, chiuso e per niente dialogante. È uno dei rari casi in cui mi passa la voglia di discutere con un cattolico.
Comunque, non voglio aprire una discussione inutile - appunto... - anche perché, rispetto al tema di Florenskij e l'infinito siamo andati a spasso.
P.S. Mi colpisce assai che il riferimento di Florenskij all'ebraicità della posizione di Cantor sia caduto nel vuoto. Altro esempio di chiusura autoreferenziale?
Stop, la discussione è chiusa
Prof. Israel,
mi permetta di dirle che seguo sempre con diligente passione i suoi articoli. E che sono talmente stimolanti che dopo la loro lettura danno la sensazione di una parvenza di "pensiero" anche ad un "cerebro minus" come il sottoscritto.
Avrei voluto postare alcuni risultati di queste considerazioni sull'infinito o sul recente post su Susskind e la divulgazione scientifica.
Avrei voluto, ma poi me ne passa la voglia quando vedo che la discussione si "incarta" invariabilmente su questo "attrattore" che e' questa povera diatriba apologetica tra Cristiani ed Atei.
Continuo a leggerla in silenzio e
grazie ancora per i suoi bellissimi articoli.
Andrea Cortis
Nel numero 5 (Settembre 2009) de "La Nuova Europa" alle pagg. 16/29 viene riportato un articolo di Sergej Trubacëv a titolo "Judina e Florenskij: storia di un'amicizia".
Sergej Trubacëv (Sergejev Posad' 1919-1995), marito di Ol'ga Florenskaja, direttore d'orchestra ed esperto di musica sacra.
Marija Judina, allieva di Pavel Florenskij, è poi stata un'affermata pianista. Molto bella è in particolare la lettera del 1931, Florenskij era recluso alle Solovki, riportata a pagg. 26-27 dell'articolo citato, e la risposta, di cinque anni dopo, di Florenskij, sempre a pag. 27.
La sua teoria di Cantor sugli insiemi infiniti di diversa cardinalità è eccezionale.
Non sapevo che pure lui fosse di origini ebraiche... Pensavo che fosse un ateo sbattezzato :D :D
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