Nella Monadologia Leibniz propone una confutazione della tesi che il pensiero sia generato dal cervello con la seguente metafora. Si immagini di essere ridotti alle dimensioni di un insetto piccolissimo rispetto al cervello o, equivalentemente, che il cervello sia un grandissimo locale rispetto al quale la nostra persona risulti molto piccola. Potremmo allora entrare nel cervello come in un gigantesco mulino meccanico. Potremmo esaminarne in dettaglio il funzionamento, studiarne gli ingranaggi, le ruote dentate, i movimenti. È evidente, osserva Leibniz, che per quanti sforzi si facciano non potremmo mai “vedere” un’idea, un pensiero, una sensazione. Insomma, il cervello, in quanto oggetto fisico, apparirebbe come una macchina, quanto si vuole complessa, ma i cui elementi costitutivi sono oggetti materiali e non pensieri o idee, che appartengono a una diversa sfera del reale.
Questo genere di obiezioni è stato riproposto molte volte nel pensiero filosofico. Facendo riferimento a immagini tecnologiche più avanzate rispetto a quella che vede come prototipo della macchina l’orologio, Henri Bergson ha parlato del cervello come una sorta di “ufficio telefonico centrale” che di per sé non aggiunge nulla a quel che riceve e che non ha nulla di un apparato atto a fabbricare rappresentazioni. Nel suo L’uomo neuronale, il neurobiologo Jean-Pierre Changeux ha confutato Bergson menzionando esperienze che dimostrano il parallelismo tra il movimento di un oggetto e la sua percezione mentale. Egli cita un’esperienza in cui un soggetto è posto di fronte a due oggetti che si ottengono l’uno dall’altro per rotazione e deve segnalare il momento in cui percepisce trattarsi dello stesso oggetto: si constata che il tempo necessario a tale percezione è proporzionale al tempo della rotazione. Ma questo - come analoghi esperimenti - dimostrano soltanto che nel cervello accade qualcosa che è materialmente correlato al processo percettivo, e questo nessuno si sognerebbe di negarlo. In realtà, la confutazione di Changeux, basata sul parallelismo di processi di movimento, avvalora la tesi di Bergson che il cervello sia un centro di azione motoria, che ha per funzione principale il ricevere stimoli e trasmetterli mediante processi motori. Bergson avrebbe potuto rispondere a Changeux alla maniera con cui Galileo replicò a Simplicio: «Vedete adunque quale sia la forza del vero, che mentre voi cercate di atterrarlo, i vostri medesimi assalti lo sollevano e l’avvalorano». E oltretutto qui si parla di rappresentazioni di oggetti materiali e non di idee astratte - dell’idea di sfera o dell’idea di bellezza o di Dio. L’osservazione che le rappresentazioni visive mobilitano soprattutto i neuroni dell’emisfero destro mentre le idee più astratte quelle dell’emisfero sinistro, così come le correlazioni tra attività mentali e irrorazione sanguigna stabilite dagli esperimenti di risonanza magnetica, non soltanto sono molto generiche, ma non dicono nulla circa l’origine e le modalità di fabbricazione dei pensieri.
Per quanto ci si affanni a confutare la metafora di Leibniz e quelle analoghe, il risultato è un insuccesso. Per lo più ad essa si oppone che, se fossimo ridotti alle proporzioni di minuscoli insetti, non vedremmo il cervello come un mulino meccanico ma come un sistema biologico neuronale e i pensieri apparirebbero come ciò che viene prodotto e trasmesso da neuroni e sinapsi. Insomma, vedremmo la vera sostanza fisica del mentale e la mente sparirebbe nel cervello. Ma questa non è una confutazione, bensì l’affermazione di una credenza, una professione di fede in un’ontologia materialista.
Proviamo noi a sviluppare e rafforzare questa “confutazione” con riferimento a macchine più moderne, per convincerci meglio della sua inconsistenza. A prima vista, l’informatica contemporanea fornisce un’immagine vivida di come le idee si producano e si trasmettano mediante processi fisici. Scrivo questo articolo su un computer che codifica i miei pensieri e li incide su un oggetto materiale. Lo spedisco alla redazione del giornale. Le idee corrono come impulsi elettrici su cavi e addirittura nell’aria. È affascinante pensare che le onde elettromagnetiche trasportino nello spazio concetti astratti. Questi pervengono a un altro computer che li decodifica traducendo il “materiale” inviato in un insieme di lettere e parole che la redazione potrà leggere. Non è forse questa una rappresentazione efficace e trasparente dei processi neuronali? Certamente sì, anche se questi ultimi si svolgono con modalità diverse da quelle informatiche, perché la maggiore complessità del processo non toglie nulla al fatto che esso ha una natura strettamente materiale, fisico-chimica. Ma è possibile dire che tale processo “produce” e “trasporta” concetti? Qui dobbiamo fermarci. Forse può apparire evidente che li trasporti, ma la questione è più complessa, perché il trasporto richiede un’operazione decisiva: la traduzione delle parole in un codice che consenta la trasmissione materiale e che dovrà essere in possesso di chi le riceve affinché siano per lui intellegibili. Questo codice è disponibile sia per chi invia sia per chi riceve il messaggio, perché è così che nei fatti è stato progettato il processo informatico. Ma qual è il codice con cui tradurre i processi neuronali? Nessuno ha la minima idea di come si possa tradurre una reazione fisico-chimica o una trasmissione elettrica in un linguaggio che esprima l’“idea”. In fin dei conti, non esiste neppure una vaga idea di come ciò possa farsi. Se davvero fossimo in presenza di pensieri in codice bisognerebbe interpellare “chi” - Dio o il caso? - ha creato il sistema di traduzione delle idee astratte in processi neuronali, così come ha fatto l’uomo per i processi informatici; o scoprirne il segreto. Sarebbe un compito impossibile perché presupporrebbe quello che neppure in fisica si sa fare, e cioè descrivere in modo esatto il comportamento di ogni singola particella del cervello.
Ma ancora qui siamo agli aspetti meramente esteriori della questione, al processo di “trasmissione”. Se si passa alla questione della “produzione” dei concetti la faccenda si complica. Qui entra in gioco l’esistenza della persona che ha scritto l’articolo (e di chi lo legge). Senza l’autore dell’articolo e le “idee” che egli ha “pensato” non c’è assolutamente nulla. Ma tali idee e il loro senso sono assolutamente indipendenti e antecedenti al processo della loro trasmissione ed elaborazione materiale nello spazio. Nel modello informatico considerato non c’è produzione di alcuna idea. Esattamente come nel mulino di Leibniz, è impossibile scorgervi alcuna idea, a meno che non ci si collochi “fuori” e cioè nel mondo di chi quelle idee ha prodotto.
Insomma, siamo ridotti all’antica teoria dell’homunculus. Per concepire un cervello che pensa occorre immaginare un altro soggetto ad esso interno che sia l’autore dei pensieri che il cervello si limita a manipolare e trasmettere. Se si mira a una spiegazione puramente materiale il processo regredisce all’infinito. Ecco perché, come ebbe a dire Paul Ricoeur - nel libro-dialogo con Changeux La natura e la regola - la formula «il cervello pensa» è insostenibile e assomiglia a un ossimoro. Changeux, per quanto materialista, fu costretto ad ammettere: «Evito di impiegare simili formule».
Ma allora siamo costretti ad ammettere che, per quanti progressi si siano fatti nella conoscenza di ciò che accade nel cervello quando pensiamo - e sono progressi grandi, importanti e benvenuti - quanto alla dimostrazione della tesi metafisica circa il carattere materiale del pensiero siamo al punto di partenza. E vi è ogni motivo per ritenere che vi si resti per sempre. Difatti, è irragionevole pretendere che dalla scienza si possano ricavare teoremi metafisici, nella fattispecie la verità del materialismo. È meglio accettare la realtà come si offre nella sua evidenza. E l’evidenza della mente non è minore di quella della materia. Per dirla con Bergson: «L’esistenza di cui siamo più certi e che conosciamo meglio è incontestabilmente la nostra, perché di tutti gli altri oggetti abbiamo nozioni esteriori e superficiali, mentre percepiamo noi stessi interiormente, profondamente». Meglio sarebbe quindi accettare e sviluppare, nella loro ricchezza, le riflessioni delle scienze umane, rispetto a ciò che di modestissimo offrono i tentativi di dissolverle in capitoli delle neuroscienze, aggiungendo il prefisso “neuro”: neuro-filosofia, neuro-etica, neuro-economia, neuro-estetica, neuro-teologia.
Occorrerebbe essere consapevoli che qui si gioca una delle poste più cruciali nel confronto con il relativismo e il nichilismo dilaganti. Difatti, cosa resta del valore oggettivo e universale della morale in una neuro-morale che la riduce a una particolare conformazione cerebrale? Nulla. I principi morali o etici sarebbero mero prodotto dell’evoluzione e, come tali, soggetti al processo evolutivo, o addirittura manipolabili dall’uomo nelle forme che egli stesso riterrà più opportune. Se l’idea di un Dio trascendente fosse prodotto di conformazioni neuronali, essa sarebbe un evento casuale e addirittura sopprimibile, come peraltro sostengono alcuni neuroscienziati. Naturalmente se ciò fosse vero, e dimostrato come tale, vi sarebbe poco da dire. Ma non lo è, lungi da ciò, si tratta di tesi inconsistenti. Pertanto accettarle è soltanto la manifestazione di una dannosa soggezione nei confronti di uno scientismo che agisce come cavallo di Troia del nichilismo. Tantomeno bisogna farsi intimidire dalle veementi accuse di un certo pensiero postmoderno nei confronti dell’“essenzialismo” della cultura occidentale, accusata di avere introdotto, con la difesa dei valori “assoluti”, forme di “razzismo” e di discriminazione. Anche questa soggezione è da dismettere, perché nessun errore può cancellare il fatto che la cultura cosiddetta “essenzialista” ha posto le basi morali di una società basata sul rispetto della persona.
(L’Osservatore Romano, 3 febbraio 2011)