È un paradosso del nostro originale paese che un certo mondo imprenditoriale si sia innamorato delle teorie filosofico-pedagogiche di Edgar Morin, secondo cui la mente umana è "ologrammatica", le discipline vanno dissolte in un calderone "sistemistico" e l'istruzione deve curarsi del metodo (formare "teste ben fatte") e non delle conoscenze. È un paradosso perché Morin e il coetaneo novantenne Stéphane Hessel, con il libello Il cammino della speranza, si sono messi alla testa degli "indignati" di tutto il mondo; tornando ai loro anni verdi, propongono l'insurrezione delle coscienze e quattro medicine contro il neoliberismo: libertarismo, socialismo, comunismo ed ecologismo. La pedagogia ologrammatica e anticoncettuale risponde al disegno rivoluzionario di sfasciare l'assetto tradizionale dell'istruzione.
In un articolo pubblicato giorni fa sul Sole 24 Ore, Pier Luigi Celli riprende la tematica moriniana della "testa ben fatta" e si scaglia contro l'accademia, le sue rigidità disciplinari, la sua astrattezza. Per uscire dall'empasse (sic) propone una visione concreta e volta alle applicazioni industriali. E propone per i professori universitari ogni cinque anni un semestre di stage in azienda che «non abbia semplicemente una valenza di studio e di ricerca», ma serva a «capire come cambia il mondo del lavoro», a «rendere l'insegnamento all'altezza delle sfide che attendono i loro allievi».
A prima vista molto ragionevole. Nicola Porro, giorni fa criticava i professori-funzionari del governo «che non hanno passato un giorno in azienda». A ragione, perché si tratta di chi deve risolvere i problemi dell'economia che poggia su un mondo che occorre conoscere. Il problema è che quando si passa dai discorsi concreti – come quello di Porro – alle enunciazioni generali e alle "norme" universali si rischia di cadere nella peggiore astrattezza. L'università non è fatta solo di economisti o ingegneri (o medici, che hanno le loro aziende di addestramento, gli ospedali). Che faremo dei professori di filologia classica, di storia medioevale o di meccanica quantistica? Li spediremo in una fabbrica di piastrelle del Triveneto o in un mobilificio? Come in un lapsus freudiano emerge l'orizzonte mentale della proposta: tutto quello che non si "applica" direttamente, non soltanto le scienze umanistiche ma anche quelle naturali teoriche, semplicemente non esiste. L'istruzione anticoncettuale e antidisciplinare piace a chi vede ciò che non è immediatamente finalizzato a scopi pratici come ciarpame, e ridurrebbe l'università a una scuola di formazione di addetti per le aziende, oltretutto a spese dello stato.
Ed ecco l'altro paradosso. Nessuno si sognerebbe di fare una proposta simile in un sistema privatistico in cui ogni università agisce secondo un progetto, teorico o applicativo che sia, il cui successo è valutato dalla qualità dei soggetti formati, senza che sia possibile legiferare norme di stato sugli stage. Una simile idea (del genere campi di rieducazione da Repubblica popolare cinese) può germinare solo in un contesto come quello italiano in cui avanza l'ibrido di un sistema statale dell'istruzione governato da un'industria che persegue interessi privati usando risorse e leggi statali.
Un ibrido mostruoso perché il sistema dell'istruzione risponde a interessi molto più vasti di quelli aziendali e deve restare autonomo, privato o statale che sia. Pensando a certi accademici americani viene da ridere al pensiero di vederli fare stage in azienda. Negli USA accade per lo più il contrario: le aziende mandano nei centri di ricerca esperti a captare idee utili all'innovazione tecnologica. Invece, la proposta nostrana è unidirezionale: le teste da rifare sono quelle universitarie; quelle industriali sono a posto e anzi in grado di ammaestrare. Non si sa se ridere o piangere che si pensi così in un paese che ha demolito la sua grande industria; come quella chimica, che era di livello mondiale, per merito di un accademico come Giulio Natta. Ma prendiamola in modo costruttivo. Facciamo gli stage, ma in due direzioni, prevedendo anche per gli imprenditori stage universitari. Avendo sperimentato coaching di storia della scienza per ingegneri aziendali culturalmente sensibili – ce ne sono, eccome – sarei felice di ricevere imprenditori disposti a sentirsi spiegare, con dovizia di prove storiche, che i più grandi sviluppi della tecnologia (nessuno escluso) sono stati ispirati da elaborazioni teoriche; senza le quali non si sarebbe stata, né vi sarà, innovazione. Un paese senza scienza di base – teorica, disciplinare, concettuale – e, più in generale, senza cultura – anche umanistica – è destinato a finire in coda, capace solo di produrre modesto bricolage tecnico e brevetti di risulta. Di questo non si curano pedagogisti alla Morin interessati solo a rinverdire progetti rivoluzionari in corpore vili. Ma dal mondo imprenditoriale ci si dovrebbe attendere più modestia e sensibilità per il valore della conoscenza, che è una realtà concreta. Ecco il guaio della tecnocrazia: bearsi delle proprie formule, finendo nell'astrattezza, avulsa sia dalla realtà economico-sociale che dalla realtà della cultura e della scienza.(Il Giornale, 7 gennaio 2012)
15 commenti:
Io però non la chiamerei "tecnocrazia", ma "marketing-crazia".
Infatti il problema, secondo me, è che in alcune nazioni la conoscenza è stata sostituita dal marketing, e il saper fare dal saper vendere. E dato che il "saper vendere" a scuola ancora non si insegna, ecco che emerge la necessità di riadattare la scuola in questa direzione.
Le nazioni dove questo fenomeno si è reso più evidente sono Italia, Francia e Inghilterra. In Italia e Francia il cosiddetto manager non si vuole più "sporcare le mani" con le cose concrete ma solo fare "consulenza generalista" che si traduce con uno sparare chiacchiere per abindolare il cliente.
In Inghilterra si sono affermati i cosiddetti manager "generalisti" e cioè lo stesso manager che viene mandato a dirigere una fabbrica chimica, una società di software o un'azienda medica. E anche qui i "communication skills" contano più delle conoscenze concrete.
Ebbene, a me pare che tutte e tre queste nazioni abbiano un'economia in fase discendente. E questa pedagogia atta a formare individui che sanno tutto in quanto non sanno niente mi sembra perfettamente in linea con tale approccio. Infatti, non è un caso, secondo me, che sia proprio in Italia, Francia e Inghilterra che il sistema scolastico sia in assoluta decadenza.
Questo ha effetti anche a livello di psicologia individuale, e sempre più vedo tanti colleghi che invece che cercare di imparare, cercano solo il metodo per "sapersi vendere" meglio. Con tutto quello che consegue in termini di arroganza, cialtroneria e finanche bullismo.
Cordialmente.
Luigi Sammartino.
Per avere risultati dalla ricerca di base, parlo ad esempio dell'ambito biologico, possono essere necessari molti anni e il risultato è spesso non garantito ecco perchè in italia non si investe. Inizialmente si trattava solo di soldi. Tagli appunto a progetti a lunga scadenza poi si è cominciato ad agire sulle persone insinuando che la preparazione professionale per essere spendibile e di valore doveva basarsi sull'immediatezza, al massimo progetti di qualche anno.
Con scopi e risultati chiari scadenzati ben definibili. A questo punto i giovani hanno recepito il messaggio adeguandosi. Le faccio un esempio: sono rimasta stupita dalla frequenza dei ragazzi attualmente all'università. Non sono minimamente interessati alle lezioni dei docenti che, a parte rari casi, salvo obblighi di frequenza, non frequentano. Si limitano ad arrangiarsi per fare prima possibile ed arrivare alla laurea con mezzucci di vario genere. Studiare da riassunti slides. Se il docente consiglia testi, letture, articoli, non li considerano. Hanno un unico scopo, buttarsi rapidamente nel mondo del lavoro.
Anche questo e sintomo di ciò che lei scrive.
Saluti
Salve, mi permetto di linkarle questo mio articolo, che rimanda ad altri due articoli, ove ho denunciato quella che potrebbe essere una sorta di fiatizzazione della scuola pubblica,
http://baronemarco.blogspot.com/2012/01/linvalsi-e-privatizzato.html
premetto che io da anni lotto contro il sistema Invalsi ...cordialmente, m.b
negli anni 70 o forse anche prima, Ivan Illic aveva scritto un libro (che allora mi parve strano, ma forse sarebbe da rileggere ora) "Descolarizzare la società".
Oggi mi sembra urgente De-Aziendalizzare la società".
Penso che la proposta di Pier Luigi Celli sia una semplice provocazione che la stessa Confindustria non accetterebbe mai. Sarebbe ben difficile trovare aziende disponibili ad ospitare docenti! Anche perché si porrebbe il problema di che cosa dovrebbero fare. Forse qualche azienda accetterebbe se il docente si adattasse a lavori umili. Di certo sarebbe utile se qualche docente andasse, che so, IN MINIERA…
Volgare e sciocca provocazione. Se vuol dire che i docenti meritano di andare in miniera, lei merita di andare alle scuole elementari per farsi rispiegare come si riflette prima di aprir bocca. E come agli argomenti non si risponde con l'insulto. In questo blog non cestino quasi mai niente, e anzi niente da quando ho avvertito che non avrei dato spazio alle volgarità. Ma al prossimo messaggio di questo stile il cestino si riapre. E ripeto che pubblicando e rispondendo ho dato mostra della massima disponibilità. Ma ho anche avvertito che non è con le raffiche che si può sperare di aver ragione.
Secondo me non si tratta di quali teste siano da rifare, né di chi le abbia così ben fatte da volere bonificare quelle degli altri.
Una cosa è certa: viviamo in un mondo globalizzato dominato da sistemi di informazione estremamente rapidi e da sistemi di trasporto e di comunicazione alla portata di tutti. Tanto che, in alcune regioni di questo mondo, vediamo svilupparsi e crescere culture localistiche e di retroguardia. Anche noi ne sappiamo qualcosa.
Però nella scuola quanti insegnanti hanno una conoscenza diretta di come l’agricultura e l’industria si siano evolute? Non parlo di una conoscenza profonda – che sarebbe impensabile −, ma tale almeno da produrre un immagine reale e verace della realtà che in cui viviamo.
Certo che il discorso dovrebbe estendersi anche ad altre categorie di persone – vedi per esempio politici e magistrati
Rilegga il mio post e non troverà nulla di volgare tranne una battuta dal tono bonario sulla incompetenza di alcuni insegnanti che farebbero meglio se lavorassero altrove. La sua risposta è invece offensiva e minacciosa. Io scrivo quello che penso e non tollero l’insulto. Nemmeno sul suo blog. Bel modo di trattare gli ospiti!!! Se vuole solo applausi scriva: “IN QUESTO BLOG POSSONO SCRIVERE SOLO QUELLI CHE MI DANNO SEMPRE RAGIONE”
Lei non trova spiacevole, e diciamo pure volgare, dire che sarebbe utile che qualche docente andasse in miniera? E allora non trovi offensivo se le dico che lei dovrebbe andare alla scuola elementare. Minaccioso? Quale minacce le avrei rivolto? In questo blog scrivono le persone educate che vogliono discutere, anche in dissenso, eccome, come potrà vedere leggendo i tanti commenti. Ma non ho piacere a discutere con questo tono eccitato. Trovo peraltro veramente eccessivo questo diluvio di commenti. Evidentemente quel che qui legge la mette molto in agitazione. Stia tranquillo. Purtroppo il mondo non gira tutto come vorrebbe lei.
Da docente mi sono resa conto che non sono tanto importanti le nozioni, certo i saperi contano, ma è soprattutto il metodo. I ragazzi devono imparare a studiare. Devono essere educati allo studio, soprattutto all'inizio della loro carriera intellettuale, direi almeno sino alle superiori. Poi certo devono cominciare ad apprendere la sostanza della materia, ancora comunque ad un livello teorico. Si parla tanto di pratica e per carità ha una sua funzione, ma non come la si fa a scuola, senza approfondire, con strumenti minimi.
Lavorare sui testi, approfondire, riflettere, trovare un metodo. A noi docenti il compito di offrire metodi. Di impostare di dare una guida metodologica sulle diverse discipline, facendo soprattutto capire che non si studia per l'interrogazione. Oggi i ragazzi infilano nozioni a memoria per avere il voto. Dopo una settimana niente è rimasto di quanto appreso. Che senso ha? Anche noi docenti(alcuni) e il sistema scuola in questo hanno delle colpe.
Sono davvero tanti gli stimoli che questo suo intervento dà, talmente tanti che ci vorrebbero molte pagine per commentare. Mi limito a citare due testi che mi sono venuti in mente leggendo. Il primo è "La chiusura della mente americana" di Allan Bloom, che io trovo bellissimo oltre che incredibilmente profetico: nel descrivere nel 1987 i problemi della scuola e dell'università d'oltreoceano, presentava dei problemi che appaiono oggi attualissimi per noi, in Europa. Tra le varie cose descriveva una situazione purtroppo sempre più vera, e cioè il fatto che nella cultura e nell'università attuale le facoltà umanistiche stiano perdendo sempre più consenso sulle ragioni stesse del loro esistere e, al di là di un generico rispetto di facciata che si tributa alla "cultura classica", devono in realtà lottare per sopravvivere perché la loro "utilità" non è realmente più percepita dal contesto nel quale operano. In modo uguale e contrario, le facoltà scientifiche godono di un sempre maggiore rispetto e di autonomia, ma solo nella misura in cui si attribuisce ad esse la capacità di dare soluzioni concrete, di favorire l'ideazione di tecnologie utili, svincolando sempre più il sapere scentifico dalle sue fondamentali basi filosofiche. Le cosiddette "scienze umane" stanno in mezzo e non sanno bene che pesci prendere per avere una completa legittimazione sociale, cercandola soprattutto nel fatto di volersi definire come "scienze". Tutto questo veniva detto nell'America del 1987 e sembra uscito da un saggio contemporaneo sulla realtà italiana.
Il secondo libro che mi ha fatto venire in mente è il bellissimo "Segmenti e Bastoncini" del matematico Lucio Russo, pamphlet scritto ai tempi della riforma Berlinguer e ripubblicato nel 2005, in cui si rifletteva sul processo di degenerazione in atto nella scuola italiana. In essa i "segmenti" non sono più delle entità astratte, ma divengono dei "bastoncini", entità concrete: l'insegnamento portato avanti secondo i programmi riformati, cioè, non è più in grado di promuovere la crescita intellettuale degli studenti, che passa attraverso la costruzione di un pensiero astratto. (segue)
(continua)
A un certo punto Russo osservava: "Le funzioni tradizionali degli insegnanti tendono ad essere svuotate da tecnologie didattiche centralizzate e impersonali, grazie a lezioni televisive, videocassette, 'ipertesti interattivi' e altri prodotti “multimediali”. Le attuali tecnologie,permettendo sia una percezione più ricca e piacevole di “fatti”, sia una maggiore autorevolezza nell’impartire
insegnamenti prescrittivi, sono in effetti insuperabili nella comunicazione unidirezionale
e acritica caratteristica della
nuova scuola per consumatori […] Alla nuova scuola non occorrono esperti di fisica, letteratura, filosofia o storia dell’arte.
Una volta completata la trasformazione,basteranno dei generici “operatori scolastici”, con una preparazione essenzialmente socio-pedagogica, che svolgano la funzione di intrattenitori e animatori, accogliendo gli studenti nelle
strutture scolastiche, stimolandone la socializzazione e accompagnandoli e guidandoli nella fruizione dei media.”
Cito infine un passaggio di un interessante articolo di Giorgio Ieranò apparso sull'ultimo "Panorama": "Il nostro sistema educativo è basato su un pregiudizio uguale e contrario al pregiudizio umanistico-classicistico che vigeva una volta. Un tempo era ovvio riservare responsabilità di un certo rilievo a chi aveva una solida formazione umanistica: l'impero britannico, per esempio, era in mano a gente che aveva studiato il greco a Oxford. Mica affidavano una cosa complicata come le colonie a un ingegnere, a un commercialista o a un notaio. Ci voleva una persona che avesse letto Tucidide e Tacito. Negli ultimi decenni, invece, si è dato per scontato che, per esempio, un laureato in ingegneria fosse più adatto di un laureato in filosofia a ricoprire ruoli manageriali e direttivi. Ma si tratta di una credenza superstiziosa basata su una riduzione a feticcio del sapere tecnico-scientifico e su una parallela svalutazione del sapere umanistico". Concludo e aggiungo soltanto: sarà forse per questa generale perdita di cultura a livello di classe dirigente che oggi molte cose vanno storte anche dove non sarebbero poi così difficili? Sarà per questo che anche nelle circolari del Ministero dell'Istruzione ci sono macroscopici errori di punteggiatura (e fosse soltanto quella...)? Sarà per questo che gli investigatori non sanno più fare il loro mestiere, cioè investigare, e che ogni caso di cronaca si trasformi puntualmente in un "giallo", mentre loro stanno ad aspettare gli esiti dei test del dna e delle perizie dei Ris? Ma le analisi di laboratorio sono analisi: forniscono dati, non interpretazioni. Per l'interpretazione dei dati occorre sempre che ci siano cervelli ben funzionanti e in grado di fare un ragionamento. Sarà per questo che la sanità funziona male da quando hanno mandato dei "tecnici" a decidere su questioni di medicina? E che le scuole vanno a rotoli da quando a fare i dirigenti scolastici non ci sono più dei vecchi professori esperti ma dei soloni tronfi con la testa piene di pseudo-teorie pedagogiche e delle maestre indottrinate e ignoranti pericolosamente in carriera? Non sarà che questa e altre disgrazie ci siano piovute dalla testa perché ci siamo "innamorati di pratica sanza scienza"?
Sono completamente d'accordo su tutto e non caso, perché ho letto attentamente Bloom e conosco Segmenti e bastoncini, e l'ostilità furibonda cui cui fu accolto dai pedagogisti e negli ambienti delle SSIS. Se l'articolo riflette questi temi è perché da anni rifletto su queste cose. Prima del libro "Chi sono i nemici della scienza?", ne avevo scritto uno nel 1998, "Il giardino dei noci. Incubi postmoderni e tirannia della tecnoscienza", che uscì con una piccolissima casa editrice, perché fu rifiutato da qualsiasi altro editore, tacciato di ostilità alla scienza e misticismo. È praticamente andato perso. Spero proprio di riuscire a ripresentarlo aggiornato, confidando che ci sia qualche editore meno clandestino. Anche Bloom è stato pubblicato soltanto da Lindau, forse uno dei pochissimi editori aperti a punti di vista del genere.
E che ci sia tanta difficoltà a far circolare certe idee, evidentemente molto sgradite nelle cosiddette "stanze dei bottoni", è cosa quasi più grave e preoccupante degli stessi problemi che si cerca di denunciare. Direi quasi che è una cosa che indigna, perché riflette una mancanza di effettiva libertà democratica, una limitazione - di fatto - della libertà di espressione che è tipica, purtroppo, del nostro paese. Una cosa che per esempio non potremmo mai rimproverare all'America. Ci tenga aggiornati, professore.
Tanto per parlar chiaro con un esempio, sto scrivendo un libro dal titolo "La qualità non si misura". Uscirà con Lindau. È stato rifiutato da altre quattro case editrici, e non con motivazioni di merito, ma di pura opportunità, di non far la figura di chi è contro la valutazione e la misura delle competenze, ecc.
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