mercoledì 28 maggio 2014

IN MEMORIA DI LUCIANO TAS

Ci ha lasciato un grande esponente dell'ebraismo italiano ed europeo




In un periodo difficile per l’ebraismo europeo è ancor più dolorosa la scomparsa di un suo esponente storico come Luciano Tas. La sua vita avventurosa iniziò quando sedicenne sfuggì per le montagne in Svizzera dalle persecuzioni razziali. Dopo la guerra tornò alla città natale di Genova e poi si trasferì a Roma dal 1953 dove sviluppò un’intensa attività politica e giornalistica, anche come principale redattore del mensile Shalom diretto dalla moglie Lia Levi. Fu memorabile il suo impegno ventennale nella lotta per i diritti degli ebrei sovietici, iniziato con un grande convegno proprio in quella Bruxelles in cui è avvenuto il recente attentato antisemita.

Il suo percorso politico era iniziato a sinistra ma egli era approdato a una posizione sempre più critica del diffondersi in quell’area politica dell’incomprensione nei confronti dei diritti dello stato d’Israele fino a inquietanti manifestazioni di antisionismo. Nel condurre per tutta la vita la lotta contro l’antisemitismo Luciano Tas non aveva mai assunto un atteggiamento difensivo e chiuso: egli era profondamente consapevole del fatto che, per rivendicare il carattere insostituibile della presenza dell’ebraismo nella realtà europea, occorreva rifuggirne da ogni visione unilaterale. Era profondamente legato alle tradizioni del popolo ebraico e sensibile all’istanza religiosa, ma era animato da una visione laica che lo spinse, e sempre più energicamente, a rigettare ogni forma di chiusura troppo ortodossa capace di emarginare aspetti cruciali dell’apporto culturale ebraico. Poiché valorizzare la ricchezza di questo apporto è l’unica risposta possibile al drammatico tentativo di sradicare la presenza ebraica dalla realtà europea, la scomparsa di una figura come la sua apre un vuoto doloroso, particolarmente per chi ha collaborato per più di trent’anni con lui nel contesto di un’amicizia che soltanto una profonda umanità come la sua poteva rendere tanto insostituibile.

(Il Messaggero, 28 maggio 2014)

Una buona educazione individua e valorizza le disposizioni personali

Sempre natura, se fortuna trova
discorde a sè, com'ogni altra semente
fuor di sua regïon, fa mala prova.
E se 'l mondo là giù ponesse mente
al fondamento che natura pone,
seguendo lui, avrìa buona la gente.
Ma voi torcete alla religïone
tal che fia nato a cignersi la spada,
e fate re di tal ch'è da sermone:
onde la traccia vostra è fuor di strada

(Dante Alighieri, Divina Commedia, Paradiso VIII, 139-148.

venerdì 23 maggio 2014

Al virtuoso dell’odio


Da "Il Foglio quotidiano":

Al virtuoso dell’odio: vaffanculo

Siamo tutti sconfitti, e molti sono tentati di mandare al diavolo le conseguenze delle loro azioni. Tabula rasa, tutti in galera, gogna online: in questo gioco Grillo non ha rivali. Ma è solo un furbastro

Dicono che colui che di recente si è modestamente definito “oltre Hitler”, il comico Beppe Grillo, guidi i sondaggi segreti sulle elezioni europee di domenica. “Quello? E’ solo un fascista”, sbotta la signora novantenne che si ricorda del Duce e dei bombardamenti americani su Roma (“uno, su Trastevere, durò tre ore e mezza. La contraerea era a poche centinaia di metri da casa nostra, in via Luigi Santini. E io e mia madre, abbracciate e rannicchiate nell’androne del palazzo, sentivamo le esplosioni a un passo, senza nemmeno poter raggiungere il rifugio. Convinte, per tutto il tempo, che saremmo morte”).
La vecchia signora – che è mia madre – quando Beppe Grillo compare sullo schermo cambia subito canale, con fastidio e con tutta la forza delle sue incerte mani di novantenne. Quel tipo è una caricatura di gerarca, dice, che le “mette angoscia, con quel modo sbracato di gesticolare, di urlare…”. Non se ne fa una ragione, “tanto dolore e tanti lutti per arrivare alla democrazia, perché noi ci abbiamo creduto, eccome. E il risultato è uno sbruffone che minaccia e insulta tutti”. E non ha nemmeno visto il plastico del castello (Kafka, dove sei?) con celle e segrete che Grillo promette di adibire virtualmente a sede di futuri “processi popolari in Rete”. Cito, dal sito beppegrillo.it, uno dei più recenti post del capo: “Il processo durerà il tempo necessario, almeno un anno, le liste saranno rese pubbliche quanto prima e l’ordine in cui saranno processati gli inquilini del castello sarà deciso in Rete. La prima categoria sarà quella dei giornalisti che hanno occultato la verità agli italiani nell’ultimo ventennio. I pennivendoli di Regime. In alto i cuori!”.

Ecco servito il videogioco grillino dei “processi popolari”, e tanto dovrebbe bastare a chi è ancora in grado di intendere e di volere per capire chi è il signore dato per vincente alle europee, domenica prossima.

Eppure… “Grillo? Meglio lui di tutti gli altri”, diceva l’anno scorso (chissà se lo direbbe ancora, dopo la promessa dei “processi popolari in Rete”) l’amico sessantaduenne, ora giornalista disoccupato dopo una vita passata nelle formazioni e nella stampa della sinistra più dura e più pura. Quando Giorgio  – nome di fantasia – nel gennaio del 2013 annunciò a un gruppetto di amici riuniti a cena che  avrebbe votato i Cinque stelle alle politiche, qualcuno (io, per esempio) non voleva crederci. Che cosa poteva far incontrare nella cabina elettorale una persona con l’esperienza di Giorgio, abituato ai distinguo estenuanti sulle correnti del sindacalismo italiano, alle buone letture (Kafka c’è), al cinema d’autore, e il furbastro ululante, ricettacolo di tutti i luoghi comuni definiti – nel suo caso, benevolmente – populisti? Uno che si fa assistere dal mestocrinito Gianroberto Casaleggio, evocatore di complotti demo-pluto-pippo-paperino-giudaico-massonici, macchietta New Age fuori tempo massimo, rimasticatore impacciato di latouchiane “decrescite felici”?

“A Gio’, aripijate” (tradotto: “Giorgio, torna in te”) gridammo romanamente in coro al nostro amico, grillino immaginario, in quella sera di gennaio del 2013. Ma lui Grillo lo votò, e magari lo voterà di nuovo domenica. Lo votò e lo voterà con lo stesso spirito con cui un bambino minaccia “mi butto per terra e mi sporco tutto”. Lo votò e lo voterà pensando seriamente che “tutta la classe politica che ha governato l’Italia negli ultimi trent’anni, di destra, di centro e di sinistra, deve mo-ri-re”.
O magari Giorgio si è pentito, messo a contatto quotidiano con le dichiarazioni della Lombardi, prima, e poi di Di Maio e della “poetessa” Paola Taverna, autrice di sonetti come il seguente, contro i dissidenti del suo stesso movimento: “Che meraviglia sei diventato senatore / E mo’ te senti er più gran signore / Lasci interviste e fai er politico sapiente / Pe’ me e’ pe’ troppi ancora sei poco più de gnente (…) Proponi accordi strani e vedi prospettive / Mentre io guardo ste merde e genero invettive”. Rime zoppicanti ma contenuti sublimi.

Certo è che, mentre Giorgio ha rivendicato a viso aperto quella scelta, altri, senza dichiararlo, l’hanno imitato nel proverbiale segreto dell’urna. Tutti convinti che chi ha fatto politica in questo paese negli ultimi decenni deve soltanto “mo-ri-re”. Deve togliersi di mezzo, sparire, sprofondare per sempre. E’ grazie a questa singolare ma diffusa, e perfino comprensibile, epidemia di cupio dissolvi, che colui che è “oltre Hitler” dovrebbe riuscire a mettere nel sacco tutti gli altri contendenti, domenica. Se si gioca al pericoloso gioco della “tabula rasa”, il più efficace è senz’altro Grillo, non Renzi. Se si gioca al gioco gaglioffo del “Tutti in galera!”,  il più convincente è lui, mica Ingroia, la Spinelli, Stella&Rizzo o Flores d’Arcais. Se si gioca al tetro gioco della gogna online, il più disinibito è ancora lui, con i suoi “processi popolari in Rete” e il suo plastico della fortezza virtuale, in attesa di quella reale.

Se si gioca al furbo gioco dell’“adesso tocca a te decidere, basta con i professionisti della politica”, nessuno può tenergli testa, tantomeno il fantasma di Berlusconi. L’Europa? Ma chi se ne frega dell’Europa, se c’è l’occasione di far “mo-ri-re” i politicanti, di castigare la “casta”, di far sentire la voce dei “cittadini” dotati di profilo Facebook (gli altri, è chiaro, non contano).

Se tutti dicono che arriva la bufera, e la bufera ha lo sguardo corrucciato e i boccoloni da battaglia di un (non troppo ex) comico genovese, è perché il risentimento e l’odio sono gli umori dominanti del tempo e nessuno è capace di mettere in scena l’odio e il risentimento come lui, che ovviamente li chiama “rabbia” (“Sono arrabbiato. Ma la mia rabbia è il sogno di dieci milioni di italiani”, ha detto da Bruno Vespa). Votare Grillo, insomma, è l’alternativa meno onerosa (almeno nell’immediato, perché non si rischia la denuncia) al rigare con le chiavi la carrozzeria della macchina parcheggiata male del vicino antipatico, al prendere a pugni l’impiegato arrogante allo sportello o a insulti l’autista dell’autobus che arriva dopo un’ora che aspettiamo. Chi non ha provato, una volta o più volte nella vita o nella stessa giornata, la voglia di farlo? La differenza, alla fine, è solo tra chi lo fa sul serio e chi no.

La fai facile, mi dicono. Ma non lo vedi che la gente è stanca, sfiduciata, impaurita dal futuro, disgustata dalla politica, avvilita dall’immobilismo? Come no, ho ben presente. Ma l’idea che a portarci fuori dalla palude possa essere un virtuoso dell’odio è ridicola. L’odio deve almeno rendere produttivi, diceva Karl Kraus, altrimenti è più intelligente amare. La ricetta  del confezionatore di gogne – unica idea grillina chiara tra molte altre confuse, imponderabili, risibili, inesistenti, balorde e inesorabilmente non produttive, se non di altro odio e di nuovo risentimento – non la bevo e mi piacerebbe che non la bevesse nessuno.  A colui che è “oltre Hitler” trovo si addicano le parole che Arthur Koestler – uno che certamente di “processi popolari” se ne intendeva – riservava all’originale (nel senso del Führer): “La sua voce stridula diventò ancora più stridula, un incantesimo che mandava in trance, mentre gli slogan che trasmetteva erano semplici, nella loro monotona ripetitività, come il suono del tam-tam nella boscaglia… tutto ciò avveniva nei giorni che seguirono alla sconfitta del suo paese, quando certi poteri erano in cerca di  idee folli, buone a sviare le energie della plebe esacerbata, e scoprirono che egli poteva essere un folle molto utile. Soltanto più tardi gli effetti sarebbero stati visibili, ma fu un avvenimento storico: la chiave aveva trovato la sua serratura”.

L’Italia del 2014 è un paese di sconfitti dove nessuno è vincitore, e dove non è affatto facile immaginare – almeno per me – una via concreta di riscatto, una chiave efficace e decente per aprire la serratura. L’unica cosa che so, però, è che i tam-tam nella boscaglia li abbiamo sentiti altre volte, e tutte le volte erano i cannibali.

giovedì 22 maggio 2014

LA SCUOLA A CINQUE ANNI, UNA BUONA IDEA

La dichiarazione del ministro Giannini relativamente alla possibilità di anticipare l’ingresso dei bambini alle scuole primarie a cinque anni, sebbene abbia il carattere di una risposta occasionale a una domanda, deve aprire una riflessione. Difatti, come lo stesso ministro ha osservato, quest’idea è connessa all’ipotesi di abbreviare la durata del liceo a quattro anni; perché – ha aggiunto – se l’obbiettivo è di far uscire i ragazzi dalla scuola a 18 anni, allora è meglio puntare su questa soluzione, piuttosto che gettarsi a capofitto sul liceo quadriennale che dovrebbe essere pensato nella cornice di una riforma complessiva dei cicli.
C’è molto buon senso in questo approccio e proviamo a dire per quali ragioni, almeno secondo il nostro punto di vista. Siamo realisti: è evidente che siamo di fronte a una pressione fortissima volta ad accorciare il percorso scolastico di un anno. Rivestire questa pressione di motivazioni didattiche, pedagogiche o culturali è una colossale ipocrisia: è chiaro che le motivazioni sono di risparmio e di tagli, ed è altrettanto chiaro che la pressione è tale che al ministro, qualsiasi cosa ne pensi, risulta difficile resistere. Noi siamo convinti che sarebbe meglio resistere alla spinta, ma ove essa divenisse incontenibile l’unico atteggiamento saggio è di evitare scelte o “soluzioni” che scassino definitivamente quel poco di buono che resta della nostra scuola.
Iniziamo con l’accantonare la tentazione perversa di mettere in campo una riforma complessiva dei cicli. Dopo anni di sperimentazioni e riforme parziali che hanno fatto della scuola un colabrodo, è bene non farsi prendere da questa tentazione: non esistono le condizioni culturali, politiche, istituzionali (anche in presenza di un ministero inguaribilmente dirigista) per costruire in tempi ragionevoli una soluzione che metta d’accordo le innumerevoli teorie pedagogico-didattiche che si affollano attorno al capezzale del malato, ciascuna con il suo arsenale di bisturi e di progetti di sutura. Ricomincerebbe la diatriba sulla saldatura tra l’ultimo anno delle primarie e il primo delle medie, o tra l’ultimo delle medie e il primo dei licei, con la necessità correlata di ripensare da cima a fondo tutte le Indicazioni nazionali. Non meno devastante – per usare un termine moderato – sarebbe l’idea del liceo quadriennale che porterebbe a distruggere i licei classici e scientifici, rendendo una burletta l’insegnamento della storia, della filosofia e della matematica, per non dire altro: la vicenda della “geostoria” indica con quale spregiudicatezza si può essere capaci di inventare materie-centauro. Allora, se proprio si deve fare qualcosa, meglio agire sul ciclo comprendente i tre anni della scuola dell’infanzia e i cinque della scuola primaria, riducendo a due i primi tre e inserendo i bambini nella scuola primaria a cinque anni. Va osservato, al riguardo, che la scuola dell’infanzia è il settore più in affanno e insufficiente a coprire la domanda, per cui la sua riduzione a due anni permetterebbe un impiego più razionale di insegnanti e di aule e quindi di presentare un’offerta di gran lunga migliore, senza tagli. Inoltre, una maggiore interconnessione tra i due percorsi scolastici va nel senso della riforma basata sul progetto formulato anni fa da una commissione ministeriale presieduta da chi scrive, che ha unificato in un’unica laurea quinquennale la formazione degli insegnanti della scuola dell’infanzia e della scuola primaria, restituendo dignità ai primi e creando le condizioni per un’osmosi tra due percorsi che sono strettamente correlati. Possiamo ora constatare che si trattò di una scelta preveggente che, non a caso, è l’unica parte di quella riforma che ha retto e funziona, a fronte dello sfacelo cui è stato ridotto il progetto dei TFA (Tirocini Formativi Attivi). Essa può essere la base per una soluzione agevole nel senso prospettato dal ministro.
V’è però un punto importante su cui occorre essere estremamente chiari. I bambini di cinque anni sono maturi per entrare nelle scuole primarie. Parecchi anni fa, vecchie teorie pedagogiche diffusero la tesi che un bambino, prima dell’età di sette/otto anni, non è capace di ragionamenti logici e non è capace di assimilare concetti matematici. Si tratta di tesi ampiamente confutate, screditate e dannose, che hanno legittimato una didattica rinunciataria e mediocre, una “didattica della paura” che ha avuto punte estreme nella tesi secondo cui in prima elementare non si debbono insegnare i numeri oltre al 20. Malauguratamente questi tesi vengono ancora sostenute da chi fa orecchie da mercante alle confutazioni che ne sono state fatte. Purtroppo, esse hanno influenzato sia la prassi di molti maestri, sia molti aspetti delle mediocri Indicazioni nazionali per le primarie varate un paio di anni fa. Se l’anticipazione dell’ingresso dei bambini alle primarie a cinque anni dovesse costituire un pretesto per abbassare ancora il livello e per trasformare l’intero ciclo primario in un gigantesco asilo, in un percorso di giochi, per giunta afflitto dalla tendenza a trasformare ogni minima difficoltà didattica in un “disturbo di apprendimento”, allora sarebbe meglio non farne nulla. Ogni intervento sulla struttura scolastica deve mirare ad elevare la qualità degli apprendimenti, e non a degradarli ulteriormente. Questo rischio è particolarmente presente nella scuola primaria che è il segmento scolastico più colpito negativamente dalle avventate sperimentazioni di cui si diceva prima, anche se già sentiamo gli alti lai di chi nega questo stato di cose avendo collaborato a crearlo.


(Il Mattino e Il Messaggero, 22 maggio 2014)

Le responsabilità europee nella crescita dell'antisemitismo

Cresce in Europa un’ondata di movimenti di vario orientamento – che si tende a identificare tutti con l’etichetta di “populismo” – che hanno, tra le varie caratteristiche, quella di alimentare un crescente sentimento antisemita. Molti di questi sono di estrema destra. In Ungheria il partito Jobbik, che si proclama esplicitamente antisemita ha ottenuto il consenso di un quinto dei votanti. È pure di estrema destra la matrice del movimento greco Alba Dorata. E, sebbene Marine Le Pen si sforzi di cancellare l’immagine negazionista che suo padre ha impresso al Front National francese, i legami con l’ispirazione originaria sono difficili da cancellare. Il movimento italiano Cinque Stelle si tiene lontano dalle etichette di destra e di sinistra e respinge l’accusa di alimentare sentimenti antisemiti: sta di fatto che dalle dichiarazioni dei suoi esponenti, da quello che circola nei siti web del movimento, fino alle strumentalizzazioni della Shoah da parte di Beppe Grillo, è di là che, in Italia, è venuto il peggio in materia negli ultimi tempi. Ma vi sono vecchie e collaudate pulsioni antisioniste con connotati a dir poco ambigui in movimenti di ben altra natura, di sinistra o di estrema sinistra, che è discutibile mettere nello stesso mazzo con gli altri, a riprova che l’etichetta di “populismo” è quanto mai inappropriata e serve solo a indicare tutto ciò che “non piace” agli europeisti ortodossi.
Occorre chiedersi se per contrastare la deriva antisemita che contagia l’Europa la scelta giusta sia sedersi su uno dei due lati di questa faglia artificiosa e credere che serva a qualcosa alzare la bandiera dell’europeismo ortodosso contro i “populismi”, presentandola come lo stendardo della democrazia che resiste contro il riemergere dei fantasmi del passato.
Che i movimenti che abbiamo appena citato siano qualcosa di detestabile cui opporsi a tutti i costi è ovvio, talmente ovvio che non vi dovrebbe essere bisogno di sprecare parole in merito. Il vero problema è se per prosciugare il terreno che alimenta le male piante la strada giusta sia allinearsi acriticamente con certa Europa ufficiale, con l’eurocrazia che ci ha condotto in questa situazione, e ignorarne le responsabilità. Schierarsi in quel modo sulla faglia è come chiudere gli occhi di fronte al fatto che da anni politiche irresponsabili hanno alimentato gli esiti che stiamo scontando. Dobbiamo dimenticare in che modo la politica estera europea ha coltivato, e coltiva, un atteggiamento talora apertamente ostile nei confronti di Israele, dando spazio all’antisionismo? L’antisemitismo ha raggiunto in paesi come la Francia livelli di allarme rosso senza che questo venga considerato come un problema di tutto il continente. Vi sono università parigine dove i rettori sopprimono i corsi di ebraico. Vi sono zone della Svezia e dell’Olanda dove si consiglia agli ebrei di andarsene: abbiamo mai sentito parlare di questo da parte dell’eurocrazia o nel Parlamento europeo? In generale, si diffonde una generale acquiescenza nei confronti dell’integralismo islamico: l’ultimo episodio clamoroso in ordine di tempo è stata la nomina di Tariq Ramadan a consigliere religioso del premier britannico.
La storia europea ci ha insegnato a diffidare dei giustificazionismi “oggettivi”, ovvero a dire che certe reazioni sono giustificate da condizioni di sofferenza materiale o morale: le responsabilità sono sempre soggettive e non esistono deroghe ai principi morali. È però indubbio che, se è inammissibile giustificare chi aderisca consapevolmente a un movimento estremista, occorre capire che cosa può alimentare certe reazioni per evitare che questo accada. Per esempio, se lo stato lascia che la criminalità organizzata faccia il bello e il cattivo tempo in un territorio, è difficile immaginare che questo possa alimentare comportamenti corretti da parte della popolazione.

Alla fine della Prima guerra mondiale, il trattato di Versailles impose alla Germania pesanti limitazioni sugli armamenti nonché pesantissime imposizioni economiche e di risarcimenti. La storiografia è unanime nel riconoscere che questo secondo aspetto, con la conseguente drammatica crisi economica, fu benzina per il movimento hitleriano. Alla fine della Seconda Guerra mondiale certe restrizioni furono ancor più pesanti, fino alla spartizione in due della Germania e della sua capitale, ma il secondo errore non fu commesso: il Piano Marshall fu una risposta intelligente al rischio che paesi come la Germania e l’Italia piombassero in una crisi economica capace di alimentare risentimenti e mantenere in piedi i movimenti di estrema destra. Dobbiamo chiederci se oggi il paese leader dell’Europa, la Germania, con la sua insistenza monomaniaca sulle politiche di austerità e di bilancio non sia praticando una sorta di Versailles a rovescio. Non c’è dubbio che molti paesi europei – a cominciare dall’Italia – si sono comportati per anni come cicale e debbono cambiare registro. Ma i problemi si risolvono mobilitando risorse e intelligenza, non picchiando duro e alla cieca. Dalle punizioni collettive di intere popolazioni non esce nulla di buono, se non forme di ribellismo esasperate e irrazionali. E, purtroppo, la storia insegna con monotona ripetitività, che queste rivolte si incanalano nella direzione più collaudata e facile di tutte: l’antisemitismo.
(Shalom, maggio 2014)

lunedì 19 maggio 2014

L'indottrinamento ideologico protetto dalla mentalità di regime

Questo episodio è un buon esempio di come il “politicamente corretto” sia in realtà un’ideologia oppressiva che soffoca la libertà di espressione.
I lettori di questo blog conoscono, o possono leggere senza difficoltà, il mio intervento a proposito dell’indottrinamento ideologico, stimolato dalla vicenda della lettura di brani di un libro di Melania Mazzucco in un liceo romano.
Ricevo una telefonata da parte di una rivista femminile molto nota – molto nota e pubblicata da un editore molto importante – che mi chiede un intervento sul tema: la mia opinione contrapposta a un’altra di orientamento diverso. Perché non faccio il nome della rivista? Per evitare – dato il modo in cui è finita la vicenda – contese, magari inventandosi che la richiesta di intervista fosse un’iniziativa della giornalista che mi ha telefonato, magari mettendola in difficoltà. Ma  conservo tutti i mail scambiati.
Parliamo una ventina di minuti e dopo qualche giorno ricevo questo testo che sintetizza il mio punto di vista:

«Oggi c’è la tendenza a scaricare sui professori ogni problema che riguardi la formazione, dagli aspetti psicologici a quelli sessuali. Ma così trasformiamo la scuola in un enorme baraccone dimenticando che il suo compito fondamentale è l’istruzione. I docenti devono insegnare la tolleranza verso chi è diverso da sé, far crescere il senso critico degli alunni, ma non occuparsi di educazione sentimentale. Tra l'altro come si destreggerebbero fra i vari modelli di coppia dei nostri giorni? Metterebbero sullo stesso piano la famiglia naturale tra uomo e donna e quella sociale tra persone dello stesso sesso? Sono temi sensibili su cui ognuno dev’essere libero di giudicare da sé. I ragazzi si informano continuamente su Internet, sui libri o sui giornali. Non può esserci per così dire un insegnamento di Stato. E credo che la famiglia, sia essa cattolica, di destra o di sinistra, più di ogni altro abbia il diritto di trasmettere al figlio il proprio punto di vista. L’iniziativa di far leggere agli studenti del Liceo Giulio Cesare il Libro di Melania Mazzucco, “Sei come sei”, è sconvolgente. Una forma di violenza. E’ un testo con pagine spinte che racconta una famiglia formata da due uomini. Sarebbe molto meglio per combattere certa aridità sentimentale dei ragazzi far leggere loro delle belle poesie d’amore senza crude descrizioni anatomiche». 

Vengo pregato di apportare tutti i cambiamenti che voglio, purché non di tono violento e senza modificare la lunghezza. Apporto alcune piccole modifiche che ritengo riflettano meglio il mio pensiero, in tono pacato, e anzi togliendo un aggettivo forte, “sconvolgente”. Questo è il testo da me corretto:

«Oggi c’è la tendenza a scaricare sui professori ogni problema che riguardi la formazione, dagli aspetti psicologici a quelli sessuali. Ma così la scuola si trasforma in un enorme centro sociale dimenticando che il suo compito fondamentale è l’istruzione. I docenti devono soprattutto far crescere il senso critico degli alunni, insegnare la tolleranza reciproca, ma non occuparsi di educazione sentimentale. Nessuno ha il diritto di predicare e imporre d’autorità teorie come quella secondo cui il genere è un fatto puramente sociale. La scuola deve contribuire a formare lo spirito critico, soggetti liberi in condizione di scegliere in modo autonomo, e beninteso tollerante. L’insegnamento di una morale o di un’etica di Stato è inammissibile. Ritengo che la famiglia, sia essa cattolica, di destra o di sinistra, più di ogni altro soggetto abbia il diritto di proporre al figlio il proprio punto di vista. L’iniziativa di far leggere agli studenti del Liceo Giulio Cesare il libro di Melania Mazzucco, “Sei come sei”, è profondamente sbagliata, è una forma di violenza. È un testo che descrive con pagine spinte le relazioni sessuali di una coppia gay. Sarebbe molto meglio, per combattere certa aridità sentimentale dei ragazzi, far leggere loro belle poesie d’amore, invece di ridurlo a crudi atti fisici descritti come un capitolo di anatomia».

Pronta risposta: l’espressione “teorie come quella secondo cui il genere è un fatto puramente sociale” non si capisce. Propongo di rovesciare la frase: «Nessuno ha il diritto di predicare e imporre d’autorità teorie come quella secondo cui il genere non è un fatto naturale». Ritengo essenziale la frase per spiegare che a scuola nessuno deve porre come obbiettivo di insegnare che il sesso è una convenzione sociale e non un fatto di natura: si tratta delle cosiddette “teorie del gender”. Non sto inventando nulla: sono stati preparati addirittura opuscoli gabellati come sponsorizzati dalla Presidenza del consiglio e distribuiti nelle scuole per diffondere queste teorie… Non ho neppure detto che bisogna insegnare che il sesso è un fatto naturale, ma soltanto che non si deve insegnare il contrario. Più moderato di così… Lo spiego per iscritto e a voce.

A questo punto salta fuori la “vera” difficoltà: secondo la direzione della rivista, la frase è “violenta”. Non solo. Parlare di “etica di stato” è “violento”. Non solo: mi si imputa falsamente di non avere attenzione per la diversità dei gay. Il caporedattore manda a dire che se insisto l’intervista non uscirà mai.
Rispondo che il peggio è per loro, che dimostrano soltanto di non tollerare la diversità di opinioni, ma io non ho alcuna intenzione di recedere. Aggiungo per iscritto:
«Ho scritto che bisogna rispettare i punti di vista diversi. Ho insistito sull’insegnamento alla tolleranza. Quanto all’etica di stato, rigettarla non è affatto violento. Violenta è l’etica di stato. Questa è la mia opinione, espressa senza insulti, parole forti e anatemi. Se non si possono esprimere in tal modo le opinioni, siamo al regime».

Risposta? Brutalmente, nessuna.

domenica 18 maggio 2014

Invalsomania

 Ma il ministro caparbiamente ripropone l'idea pessima di valutare gli insegnanti con le prove Invalsi che farebbero capire «se l'insegnante insegna bene»...
L'altro elemento di giudizio sarebbe il dirigente scolastico.
Ha scelto il peggio...
Stiamo freschi...

martedì 13 maggio 2014

I TEST A SCUOLA CHE UCCIDONO LA GIOIA DI APPRENDERE

È primavera e a scuola sbocciano i test Invalsi. Con essi torna il monito a non muovere critiche che non siano costruttive. Pur attenendosi al precetto si constata, anche quest’anno, una miscela di test ragionevoli e di altri che suscitano dubbi circa le competenze di chi l’ha pensati. La via del miglioramento è lunga, soprattutto se le critiche saranno ancora ignorate. Ma resta aperta la domanda: per andare dove? Cosa può dare l’analisi dello stato dell’istruzione mediante test, pur al massimo delle sue possibilità?
La domanda è resa impellente dal torrente polemico che si rovescia sul più famoso sistema internazionale di valutazione mediante test, OCSE-Pisa, noto in Italia per averci sempre posto al fondo delle classifiche. Nelle ultime rilevazioni aveva suscitato stupore la schiacciante superiorità della Cina, poi spiegata dal fatto che ai test avevano partecipato le migliori scuole del distretto di Shangai. Aveva destato sorpresa l’inatteso crollo della Finlandia, da sempre ai primi posti. Qualche anno fa avevamo indicato che, per ammissione di autorevoli personalità di quel paese, l’insegnamento della matematica era stato stravolto in funzione del successo nei test OCSE-Pisa, il che lasciava prevedere che fluttuazioni nelle modalità dei test avrebbero potuto cambiare i risultati. Ora si viene a sapere qualcosa di molto più grave: solo il 10% degli studenti dei vari paesi sostiene effettivamente i test di lettura Pisa, mentre gli altri entrano nelle statistiche simulando le risposte mancanti con numeri casuali… Ne è nata una polemica furiosa in cui la difesa ha opposto che questa è una prassi usuale in statistica, mentre uno statistico di fama come David Spiegelhalter ha sostenuto che i metodi usati sono sbagliati e che «ricavare lezioni da Pisa è difficile quanto prevedere chi vincerà una partita di calcio».
Ora, una lettera firmata da un stuolo di autorevoli personalità a livello internazionale (pubblicata sul Guardian col titolo “I test OCSE-Pisa stanno danneggiando l’educazione in tutto il mondo”) contesta il metodo dei test al di là delle questioni tecniche. Difatti, gli articoli di critica tecnica pullulano, ma gli enti di valutazione fanno orecchie da mercante. Per esempio, il nostro Invalsi considera come Verbo un modello matematico largamente criticato e di cui recenti ricerche indicano l’inapplicabilità proprio ai test usati nel 2009 per le scuole medie. L’appello internazionale considera inammissibile alla radice l’idea di costruire un intero sistema di valutazione sui test e mette in luce i guasti che sta producendo questa prassi.
La lettera critica la credenza feticistica nei numeri che fa trascurare qualità fondamentali, come quelle morali, civiche o artistiche (e aggiungiamo noi, anche le competenze scientifiche e letterarie, che non sono riducibili a numeri). Denuncia lo spostamento d’attenzione sul breve termine, mentre solidi miglioramenti nella qualità dell’istruzione e dell’insegnamento richiedono decenni. Denuncia una visione angustamente economicista che cancella il fatto che l’istruzione non forma solo forza-lavoro ma soggetti capaci di partecipare a una società democratica, all’azione morale e a una vita di crescita personale; per cui, per molti versi, inclusa la disastrosa tendenza a bandire la conoscenza dall’istruzione, compromette il futuro della democrazia. Questa tendenza tecnocratica è manifestata dal fatto che l’istruzione sta diventando terreno riservato a economisti, statistici e psicometrici, escludendo soggetti che non hanno minori diritti a “sedersi al tavolo”: insegnanti, educatori, studiosi disciplinari di ogni sorta, famiglie, studenti, amministratori. Infine, il ciclo continuo di testing produce un clima nevrotico nelle scuole e, sostituendo l’insegnamento con l’addestramento, «uccide la gioia di apprendere». Tra le molte altre osservazioni ne ricordiamo una fondamentale: «misurare grandi diversità di tradizioni educative con un criterio unico, ristretto e parziale, può danneggiare irreparabilmente i nostri studenti e le nostre scuole».
Siamo di fronte a un documento che ha un valore cruciale, particolarmente importante per un paese come l’Italia che sta costruendo il suo sistema di valutazione. E va respinto il solito ammonimento, che già si sente avanzare: chi critica non vuole la valutazione. Anche il ministro Giannini, nel corso di recenti dichiarazioni, su altri aspetti condivisibili, ha ricondotto le critiche alla tendenza a dire: “bene la valutazione, ma non nel mio cortile”. Che vi sia chi ragiona così è indubbio. Ma riprovarlo non implica chiudere la bocca a chi non difende cortili, vuole la valutazione, propone altri modelli – per esempio, basati su metodi ispettivi – ma non accetta qualsiasi cosa a scatola chiusa, tantomeno il feticcio dei test, ancor meno se si prospetta di usare i test Invalsi anche per valutare gli insegnanti.
Nelle sue dichiarazioni, il ministro ha osservato che, come un buon medico si valuta se i suoi malati guariscono o restano in buona salute, così l’insegnante si valuta dal risultato del processo di apprendimento. Ma già qui non ci siamo. Perché quel che fa la differenza è l’oggetto: altrimenti, i peggiori medici sarebbero gli oncologi e i migliori quelli che curano i raffreddori. Inoltre, i concetti di salute e malattie sono tutt’altro che univoci. Un medico molto meccanicista può ritenere che lo stato di salute corrisponda al rigoroso rientro in certi parametri, mentre un altro può ritenere che talora la “guarigione” consista nell’assestarsi su stati “anomali” ma corrispondenti a una nuova norma avente caratteristiche di stabilità. Ciò è materia di dibattito scientifico e valutare un medico è cosa molto più complessa che non fare test sull’evoluzione dello stato dei suoi pazienti. Lo stesso dicasi per gli insegnanti: la bravura di un insegnante può essere offuscata da un contesto difficile mentre può rifulgere la mediocre qualità di un insegnante che opera in un contesto facile. Né la qualità degli apprendimenti è riflessa, se non a livelli minimali, dalle prestazioni nei test. Del resto, se il ministro ha accolto l’idea di sostituire i test d’ingresso a medicina con un modello di tipo francese, in cui la selezione viene fatta con esami di merito dopo un anno, non può ritenere che i testi possano servire a valutare il sistema dell’istruzione, gli studenti e addirittura gli insegnanti. Qualche forma di testing elementare può servire, purché a dosi omeopatiche, impedendo qualsiasi sostituzione dell’insegnamento ordinario con l’addestramento ai test, e combattendo l’affarismo sui manuali di addestramento. Ma ridurre la complessità della problematica dell’istruzione alle crocette è inaccettabile. Curiosi tempi i nostri, in cui si straparla di “complessità” e poi si pretende di ridurre tutto a schemini semplici; in cui chi non è relativista è un arnese del passato, e poi si pretende di raggiungere l’oggettività assoluta nella valutazione. Un sistema di valutazione efficace deve valorizzare pienamente l’aspetto umano e culturale, e quindi non può basarsi altro che su metodi di ispezione incrociata interni al sistema (lontani dal vecchio sistema ispettivo ministeriale) di cui esistono molti modelli che possono essere studiati e articolati nei dettagli. L’appello internazionale chiama ad affrontare con coraggio e senza conformismi questa tematica, offrendo al nostro paese l’opportunità di evitare vie schematiche che hanno prodotto altrove pessimi risultati. Non a caso, l’appello è nato nel mondo anglosassone, dove il feticcio del “testing” e dell’‘accountability” quantitativa ha prodotto dissesti tali da spaccare in modo drammatico il mondo dell’educazione.


(Il Messaggero, 13 maggio 2014)