mercoledì 19 dicembre 2012

La letterina E' STATA pubblicata

Inviata al Corriere della Sera:
e (faccio ammenda) dopo alcuni giorni è stata pubblicata, del che ringrazio il Corriere e ringrazio Di Paolo per il commento che ha voluto aggiungere:

Dell’ottimo articolo Di Paolo di Paolo sui test del concorsone scolastico (Corriere della Sera, 17.12.12), condivido tutto, dal titolo “Facili o surreali. I quesiti logici per tipi di sudoku”, al contenuto, eccetto l’affermazione che «i test del governo tecnico… spostano l’asse un po’ a favore di menti matematiche, allenate dai sudoku». Se vogliamo vincere l’analfabetismo matematico – questo non viene sempre proposto come un obbiettivo vitale? – occorre superare per sempre il luogo comune che la matematica sia enigmistica, roba da “brain trainer” e neppure logica. La matematica è parte della cultura come la storia o la filosofia e un vero matematico prova la stessa ripulsa di Di Paolo nei confronti di questi test. La matematica usa un complesso di ragionamenti molto più vasti e complessi delle deduzioni logico-formali. Il vizio dei test è che, da un lato, appiattiscono tutto su una visione miserrima della logica e, dall’altro, esaltano le capacità enigmistiche e nozionistiche dei concorrenti. Ma un buon insegnante, anche di matematica, può essere un cattivo enigmista e il nozionismo è una cosa pessima. Perciò quando il ministro dice che con questi test ha selezionato chi ha capacità di sintesi e di logica commette un errore di ragionamento e persino di logica: potrebbe aver eliminato i candidati migliori a favore dei giocatori di sudoku e dei campioni di quiz-show.
Giorgio Israel

L'uso improprio che ho fatto del termine matematica dimostra quanto il professor Israel abbia ragione nel difendere questa vasta branca del sapere da accostamenti indebiti, da semplificazioni e da gerarchie "culturali" in Italia fin troppo, pericolosamente consolidate.
Paolo Di Paolo

martedì 18 dicembre 2012

"Una lavagna non seleziona un docente" - "Ma il merito non è un quiz"

Articolo pubblicato su Il Messaggero e su Il Mattino (18 dicembre 2012)


In queste ore 320.000 candidati affrontano le prove preselettive per il mega-concorso da 11.500 cattedre per la scuola. Solo un candidato su 28 otterrà l’agognata cattedra dopo aver superato tre prove: un test di 50 domande atte ad accertare le capacità logiche, di comprensione del testo, le competenze digitali e linguistiche; un esame scritto; un esame orale. Cosa pensare di questo concorso, il primo dopo tredici anni? Da un lato, come negare l’opportunità di premiare il merito, di legare l’immissione in ruolo a un accertamento serio delle capacità di chi occuperà quei posti? D’altra parte, deve trattarsi di un accertamento “serio”. Qui nascono perplessità per il carattere di questa prova che assomiglia a un esame di guida automobilistica dove il comportamento del conducente deve essere standard, a differenza di quello di un buon insegnante. Di fronte a un numero imponente di candidati e inevitabile una selezione di base, ma è poco credibile che si possano accertare con dei quiz le capacità logiche e di comprensione dei testi dei candidati, e stupiscono certe domande in tema di competenze linguistiche e digitali che rischiano di premiare personaggi adatti a trionfare nei “quiz-show” televisivi. Perché mai un requisito per essere un buon insegnante dovrebbe essere sapere a quale linguaggio appartiene il termine “godet” (un taglio di gonna a forma di campana), sapere che il “nome logico LPT1” indica la porta parallela di un computer o conoscere la definizione di “home banking”? Mentre si parla tanto di combattere il nozionismo il ministero dell’istruzione ne propone la peggiore versione, secondo una visione dei test praticata da tempo con esiti pessimi.
Un altro genere di perplessità riguarda le politiche di reclutamento del ministero, visto che questo concorso viene dopo varie immissioni in ruolo ope legis. Assisteremo al miracolo che tra due anni, e ogni due anni, venga bandito un concorso? Il mondo dell’istruzione è abituato a sentirsi fare promesse del genere, poi sistematicamente disattese. In ambito universitario fu decretata addirittura trent’anni fa la cadenza biennale dei concorsi. Non se ne fece nulla e in cambio si ebbe una sequenza di provvedimenti disorganici che culminano oggi in una prova di abilitazione nazionale dagli aspetti sconcertanti. Non è strano che un concorso per la scuola dopo 13 anni veda un numero enorme di candidati. Sarebbe un miracolo che il suo espletamento avvenga con un’efficienza tale da rendere possibile il bando di un altro concorso tra due anni. Ma se il miracolo non avverrà, allora questo concorsone verrà ricordato come l’ennesima scelta sbagliata.
D’altra parte, anche la questione dei “diritti acquisiti” e del precariato va affrontata con ragionevolezza e buon senso. Nel vuoto di concorsi e immissioni in ruolo ordinate e fondate su verifiche di merito, si è creato un groviglio di situazioni ambigue in cui si intrecciano aspettative legittime e pretese corporative. C’è chi giustamente, dopo aver insegnato validamente per anni, non accetta di essere messo alla porta, e chi pretende l’assunzione in ruolo su basi inconsistenti e rifiutando ogni verifica di merito. In questo groviglio, il buon senso dice che, da un lato, le immissioni ope legis debbono diventare un ricordo del passato ma, dall’altro, che il meccanismo dei mega-concorsi non è forse il più adatto a venirne fuori.
Quando si prospettò la necessità di delineare un nuovo percorso di formazione degli insegnanti, la scelta della commissione da me coordinata fu di distinguere nettamente tra il problema della formazione – proiettato nel futuro – e quello del reclutamento, intriso di un passato che, per i troppi errori commessi, richiede inevitabili compromessi. A un simile approccio di buon senso doveva accompagnarsi la soluzione di assegnare i posti a cattedra disponibili per metà ai giovani che uscivano dal nuovo percorso del TFA (Tirocinio Formativo Attivo) e delle Lauree magistrali per l’insegnamento, e per l’altra metà a sanare il precariato con verifiche di merito. Era una linea di compromesso che contemperava due esigenze: il riconoscimento di diritti pregressi, purché fossero basati su meriti effettivi; e l’apertura di uno spazio ai giovani insegnanti, fra cui gli abilitati nella formazione primaria. Non è giusto mortificare chi ha lavorato seriamente e ha tenuto in piedi la baracca della scuola malgrado gli errori di politici e sindacati; ma una scuola che non immetta forze nuove è destinata a morire. Occorreva ragionevolezza, chiamare tutti a qualche sacrificio, senza che i sacrifici fossero da una parte sola. Invece, le Lauree magistrali sono state affossate e il progetto del TFA è stato snaturato e mortificato. È apparso evidente lo scarsissimo interesse per l’immissione di giovani leve e la volontà di introdurre varianti e deroghe che, rispondendo a problematiche di reclutamento pregresse, hanno creato disparità tra gruppi di candidati. Inoltre – e questo è l’aspetto più grave – lo spirito “leggero” e decentrato del progetto è stato eliminato rimettendo al centro il solito dirigismo accentratore del ministero. È una propensione assai poco liberale che si è vista ripetutamente all’opera in più occasioni e che costituisce il vero problema del sistema  italiano dell’istruzione.
Il problema della formazione e del reclutamento degli insegnanti nella scuola italiana è talmente complicato da richiedere una poderosa miscela di competenze e di buon senso. Pertanto, non può essere sciolto né con colpi di testa né affidandosi a una burocrazia che crede che gli insegnanti vadano scelti tra chi sa che cos’è un “carter” o un “top level domain”, che coltiva una visione dirigista e “amministrativa” poco interessata agli insegnanti e alla loro formazione e che pensa di poter risolvere tutto dall’alto con la tecnologia, a suon di lavagne interattive multimediali, di tablet e di editoria digitale.

Tuttavia, secondo il Ministro (intervistato dal Messaggero) «con i test misuriamo la capacità di pensare»... No comment...

lunedì 10 dicembre 2012

L'orologio del cosmo secondo Keplero (a proposito di un libro di J.P. Luminet)


«Al centro di tutti i corpi celesti sta immobile il Sole. Chi infatti in questo bellissimo tempio potrebbe porre questa lampada in un altro e miglior posto che quello dal quale può illuminare ogni cosa nello stesso tempo? Non è invero sconveniente che qualcuno l’abbia chiamato la luce del mondo; altri, la sua mente, e altri ancora, il suo sovrano. Trismegisto lo chiama il Dio visibile; l’Elettra di Sofocle, colui che tutto vede. Così, come se effettivamente sedesse su un trono regale, il Sole governa la famiglia delle stelle che lo circondano».
Questa è la giustificazione dell’eliocentrismo data da Copernico, intrisa di un misticismo che si richiama all’“autorità” di Ermete Trismegisto leggendario fondatore del Corpus Hermeticum. Egli non fornisce dimostrazioni dell’eliocentrismo basate su osservazioni empiriche. Più che altro, si adopera a demolire le antiche obiezioni contro il moto della terra; per esempio, osservando che non ha senso dire che, se la terra ruotasse, andrebbe in pezzi, perché in tal caso dovrebbe andare in pezzi l’intera sfera celeste, che ruota di moto uniforme. Copernico ha messo il Sole al posto della Terra in un cosmo ancora tolemaico, finito, formato da sfere rotanti l’una attorno all’altra e racchiuse dalla sfera delle stelle fisse. I metodi che usa per descriverne il moto non differiscono di molto da quelli di Tolomeo.
A ben vedere, la motivazione dell’eliocentrismo è metafisica. Perché la Terra dovrebbe comportarsi diversamente dagli altri corpi celesti, producendo una disarmonia nel cosmo? Certo, il privilegio della centralità è trasferito al Sole, ma v’è una buona ragione per farlo: è la natura speciale di questo pianeta, lanterna del mondo. E cos’è la luce se non l’estrinsecarsi della gloria divina? Mettere al centro la luce è ricostituire la vera armonia del cosmo attorno a Dio. L’umanità è un po’ sminuita dalla perdita della sua posizione centrale, ma quella centralità, nella concezione medioevale, non era solo un privilegio: la Terra era anche il “fondo” del cosmo, la sua sentina, raccolta di ogni bruttura, unico luogo dei processi di generazione e corruzione, a differenza del resto, fatto di sostanza perfetta e incorruttibile.
Alla visione positivista e neopositivista della scienza dispiace ammettere che le teorie eliocentriche non si sono affermate attraverso l’osservazione empirica e che hanno faticato assai per conquistare una superiorità descrittiva rispetto al modello tolemaico, tanto complicato quanto efficace. Gli storici della scienza sanno tutto questo, ma la visione dominante della scienza che ha origine nel positivismo ottocentesco, predica che l’impresa scientifica è l’unica forma di ragionamento oggettivo, basato sui fatti, alieno da qualsiasi concessione ai miti, alle credenze, alla metafisica, alla teologia. Questa visione è difesa accanitamente, altrimenti – si dice – prevarrà l’irrazionalismo e il discredito della scienza. Com’è sbagliato credere che la scienza sia un’impresa “pura”, unico dominio della razionalità incontaminata dai “pregiudizi”, lo è ancor di più credere che un’immagine siffatta la renda più simpatica e interessante e serva a combattere l’analfabetismo scientifico. Al contrario, isolare la scienza dal resto del pensiero umano ne offre un’immagine intimidatoria e persino repellente. È la via ideale per rendere la scienza antipatica a chi non fa parte del consesso dei suoi sacerdoti.
La storia della scienza può agire fino a un certo punto per correggere questa immagine positivistica, perché è una disciplina specialistica che trova difficoltà nel rivolgersi a un pubblico largo. Può giovare molto la presentazione dell’impresa scientifica nel contesto della vita autentica, degli scienziati. È la via intrapresa da tempo da Jean-Pierre Luminet, astrofisico e romanziere, proponendo brillanti romanzi biografici sui protagonisti della rivoluzione scientifica. Lo ha fatto con La parrucca di Newton, una biografia dello scienziato di cui parlammo su queste pagine; e ora proponendo il romanzo L’occhio di Galileo (La Lepre, 2012, € 22,00) che è multibiografico perché Galileo ne è uno dei protagonisti con Keplero, e neppure il più importante.
Non ci troviamo davanti alle figure austere e disincarnate dell’agiografia positivistica, ma a personaggi umani, che ricercano appassionatamente il vero intrecciando l’osservazione empirica con filosofie, teologie, credenze, misticismi e pregiudizi. E lo fanno in un contesto paradossale: difatti, mentre l’Europa è attraversata da un fervore frenetico di nuove idee e dalla spinta verso un pensiero libero dai vincoli del passato, un’ondata di intolleranza opprime il continente. La Riforma protestante suscita la reazione della Chiesa cattolica che si chiude nella riaffermazione dei suoi principi, cui segue un irrigidimento degli altri mondi religiosi. Tutti i grandi protagonisti della Rivoluzione scientifica sono stati vittime dell’intolleranza. Descartes fuggì dall’Olanda per l’accusa di ateismo. Newton se la cavò nascondendo di essere anti-trinitario. Se Galileo è l’emblema di queste forme d’intolleranza, Copernico non ebbe sorte molto migliore nel mondo protestante. Nel 1540, il suo allievo Georg Joachim Rhäticus ottenne a fatica il permesso di pubblicare i manoscritti del maestro ma, per l’opposizione di Lutero fu costretto a passare il compito al teologo luterano Andreas Osiander. Il manoscritto, nella versione oggi nota, fu pubblicato nel 1543 – pochi mesi prima della morte di Copernico – con una prefazione di Osiander che ne limitava il valore rivoluzionario presentando l’eliocentrismo come un’ipotesi matematica utile tutt’al più a fini di calcolo.
La linea scelta da Osiander s’inquadrava in un classico tentativo di “addomesticare” le nuove teorie, seguendo la soluzione proposta da Tommaso d’Aquino. Difatti, già nel passato si era dovuto far fronte all’inconciliabilità tra il sistema aristotelico, che faceva coincidere il centro del cosmo con il centro della Terra, e il sistema tolemaico che, per far tornare i conti, supponeva che fossero distinti. Era un problema grave per la teologia, che aderiva al sistema aristotelico e si trovava di fronte a un primo scardinamento del geocentrismo. Tommaso d’Aquino, nel commento al De caelo di Aristotele, propose una fine distinzione concettuale tra il punto di vista della teoria fisica – il cui compito è dedurre la struttura del cielo da principi indubitabili e quindi comprenderne l’essenza – e quello della matematica – che mira a proporre una descrizione coerente con le osservazioni. La teoria matematica era data dal sistema tolemaico che offriva rappresentazioni efficaci e concordanti con i fatti, ma inaccettabili sul piano fisico. La circolarità dei moti e la centralità della Terra nel cosmo erano verità di ragione evidenti; ma la mente non riusciva a farle combaciare con le osservazioni suggerite dai sensi imperfetti dell’uomo. I successi del metodo matematico non dovevano indurre nell’errore di ritenere che esso conduca alla verità, che soltanto la fisica (ovvero la teologia e la filosofia) può conseguire. Questa distinzione stabilì una precaria convivenza fra il sistema tolemaico e il sistema aristotelico: il secondo esprimeva la verità circa la realtà fisica del cosmo mentre il primo offriva un metodo pratico per il calcolo del moto dei corpi celesti.
È una visione che presenta sorprendenti aspetti di modernità. Difatti, per la scienza di oggi, un modello matematico non è altro che un’immagine di un aspetto della realtà il cui valore dipende solo dalla sua efficacia pratica e non dalla sua “verità”. Ma, nello spirito contemporaneo, dominato dal relativismo, non esiste un’altra sfera che si occupi della ricerca del vero.
Non era infondato sperare che l’antica strategia dell’Aquinate potesse funzionare anche nei confronti delle nuove ipotesi eliocentriche, derubricandole a ipotesi matematiche accettabili, purché si rivelassero più efficaci del collaudato sistema tolemaico. Non era infondato anche perché le ipotesi eliocentriche erano argomentate in modo debole, mostravano falle e contraddizioni. In fondo, tanto più si aderiva ai fatti, tanto più era necessario andare con i piedi di piombo nell’accettare l’eliocentrismo, a meno di non essere una “testa calda” sensibile a visioni filosofiche e persino mistiche. Così, il più grande astronomo pratico del tardo Rinascimento, Tycho Brahe, il maestro di Keplero – famoso per la vista potente e i nuovi strumenti di misurazione che aveva installato nel castello di Uraniborg – escogitò un bizzarro compromesso tra il sistema geocentrico e il sistema eliocentrico: la Terra restava al centro del cosmo e il Sole gli ruotava attorno trascinandosi però attorno gli altri pianeti. «Credo fermamente e senza riserve – proclamava Tycho – che la Terra immobile debba essere posta al centro del Mondo, in accordo con le credenze degli astronomi e dei fisici antichi e le testimonianze delle Scritture». D’altra parte, la credenza totalmente geocentrica degli Antichi era insostenibile: «Piuttosto credo che i moti celesti siano stabiliti in modo tale che soltanto la Luna e il Sole e l'Ottava Sfera — la più distante di tutte — hanno i loro centri nella terra. Gli altri pianeti girano attorno al Sole come attorno al loro Sovrano e Re, e il Sole si trova sempre al centro delle loro sfere ed è accompagnato da loro nel suo moto annuale. Quindi il Sole sarà la legge e la fine di tutte queste rivoluzioni e, come Apollo fra le Muse, egli soltanto determinerà l'armonia celeste dei moti che lo circondano». Questa bizzarra miscela di geocentrismo e di eliocentrismo è proposta dal più grande osservatore di fatti astronomici della modernità, la cui immane raccolta di dati fu la base per le ricerche di Keplero: altro che evidenza dei fatti…
Del resto, Keplero non fu da meno, anzi superò il maestro nel creare una bizzarra miscela tra credenze e precise osservazioni empiriche; solo che al posto del richiamo alle credenze antiche egli mise una mistica eliocentrica e la nuova religione dell’epoca: l’essenza del mondo è matematica, il mondo è stato scritto da Dio nel linguaggio della matematica e spetta all’uomo decrittare questa segreta stenografia.
Nella sua prima opera, il Mysterium Cosmographicum (1595) Keplero costruì un’immagine del cosmo a dir poco stupefacente. La geometria greca aveva scoperto un fatto strano. Nel piano esistono poligoni regolari –poligoni che hanno tutti i lati e gli angoli uguali – con un numero qualsiasi di lati. Ma nello spazio, le figure equivalenti, i poliedri regolari (le cui facce sono tutti poligoni regolari e i cui angoli solidi sono uguali) sono soltanto cinque! Ne derivò la credenza che questi cinque solidi “platonici” esprimessero qualcosa di molto speciale. Keplero fu colpito da questa coincidenza mistica: 6 erano i pianeti (allora noti), 5 erano le loro distanze dal Sole, come il numero dei poliedri regolari. Ecco la chiave mistico-matematica dell’universo! Egli immaginò di inscrivere un esaedro nella sfera del pianeta più lontano, Saturno. La sfera iscritta nell’esaedro era allora quella su cui ruota Giove. In questa iscrisse un tetraedro e pensò che Marte si muovesse sulla sfera in esso inscritta. E così, di seguito per il dodecaedro, l’icosaedro e l’ottaedro, ottenendo le sfere della Terra, di Venere e Mercurio. In tal modo era possibile determinare le loro distanze, non appena noto il raggio dell’universo.




                                             


Da una tavola del Misterium Cosmographicum di Keplero.

Nel romanzo di Luminet, Galileo definisce il Mysterium di Keplero un «confuso andirivieni tra geometria e fisica» e aggiunge: «Cosa importa a me se un cerchio è più perfetto di un quadrato?». Non la raccontava giusta neppure lui. Di certo, Galileo era più vicino di Keplero all’idea moderna di razionalismo e la sua più grande “colpa” – origine di tutte le sue disgrazie – fu di rigettare il “lodo” di Tommaso d’Aquino. Per lui, l’osservazione col cannocchiale e, soprattutto, le deduzioni matematiche erano verità e non modelli e questo fu il vero scandalo. Ma anche lui era ancora con un piede nel vecchio cosmo, chiuso, finito, circolare. Al dogma del primato del cerchio non rinunciò, tanto che la sua formulazione del principio d’inerzia è ambigua e suona come l’affermazione che un corpo non soggetto ad azioni esterne si muove di moto circolare uniforme, più che rettilineo. Ed è completamente falsa l’immagine di Galileo che ricava le leggi dall’osservazione empirica: la legge di caduta dei gravi (“matematica purissima”) fu dedotta col ragionamento e poi verificata con complicati esperimenti sui piani inclinati, mai col lancio di palle dalla torre di Pisa, come pretende una buffa leggenda. Galileo scavò a fondo la meccanica terrestre, ma in meccanica celeste fu meno audace di Keplero, forse proprio perché questi era più mistico e spregiudicato.
Certo, il Mysterium era un’opera giovanile, ma egli non la rinnegò mai, anche quando, sulla scorta dei dati di Tycho e di lunghissimi calcoli, arrivò alla conclusione scandalosa che le orbite planetarie attorno al sole non erano circolari ma ellittiche. Difatti, nella sua opera – sommo rompicapo per gli interpreti – ellitticità e circolarità convivono. Nel cercare una spiegazione del meccanismo del mondo proclamò un intento rivoluzionario: considerare il sistema planetario non come un essere animato da Dio (instar divini animalis) ma come un orologio (instar orologii) fabbricato dal divino orologiaio sulla base di principi matematici. Cosa muoveva questo meccanismo? Non “forze” come le intendiamo noi: il concetto di forza non c’è nella fisica prima di Newton. Keplero s’ispirò al De magnete del medico inglese William Gilbert: i corpi celesti sono come magneti che interagiscono e tutto è governato dal grande magnete, il Sole, che emette il suo influsso lungo filamenti circolari, imprimendo un moto rotatorio a una sostanza immateriale, una species che, ruotando, trasporta i pianeti lungo cerchi di diametri crescenti. La species diminuisce di densità e così l’influsso del magnete Sole s’indebolisce alla distanza. Ne segue che la velocità del pianeta è inversamente proporzionale alla distanza dal Sole. È una curiosa miscela di dinamica aristotelica e di copernicanesimo che ripropone il carattere circolare del moto dei pianeti.
Questi pochi spunti bastano a dare un’immagine ben diversa da quella convenzionale della complessa transizione dalla scienza antica alla scienza classica nel periodo della rivoluzione scientifica. La visione geocentrica è rotta in modo irrimediabile, ma la rottura è avvenuta, per così dire, a pezzi spesso incoerenti. Galileo demolisce la concezione aristotelica dei corpi terrestri, aderisce al copernicanesimo, propala notizie “scandalose”, come la constatazione che la Luna è rugosa e irregolare e la Via Lattea non è continua, ma non esce del tutto dal mondo chiuso e circolare dell’aristotelismo. Keplero perviene alla formulazione di leggi rivoluzionarie sul moto dei corpi celesti (come l’ellitticità delle orbite) ricavate dall’osservazione ed espresse in termini matematici, ma le inquadra in ipotesi mistiche della struttura del cosmo. Le nuove teorie convivono in modo difficile e talora contraddittorio con alcuni capisaldi del pensiero aristotelico e scolastico. I protagonisti di questa epoca straordinaria sono uomini che vivono all’incrocio dei venti: tra il razionalismo antico, la cui coerenza sistematica si è imposta per secoli; le intuizioni fantastiche, audaci e mistico-magiche del pensiero rinascimentale; la credenza che occorre risalire indietro, fino alla “prisca sapientia” che fiorì tra Atene e Gerusalemme; e il nuovo razionalismo basato sull’idea che l’alfabeto del mondo è la matematica e che l’uomo possiede nuovi mezzi, come il cannocchiale, per moltiplicare a dismisura la sua capacità di osservare il mondo. È in questo crocevia entusiasmante e fervido di intuizioni avventate e di passioni umane che nasce la scienza moderna.

sabato 1 dicembre 2012

martedì 27 novembre 2012

UNA BREVE REPLICA AL PREMIER MONTI CHE DICE CHE GLI INSEGNANTI SONO CONSERVATORI

«il vero problema dell’educazione sta nell’estrema difficoltà […] di realizzare anche quel minimo di conservazione, quella situazione conservatrice assolutamente indispensabile per “educare” i giovani. […] L’educazione è il momento che decide se noi amiamo abbastanza il mondo da assumercene la responsabilità e salvarlo così dalla rovina, che è inevitabile senza il rinnovamento, senza l’arrivo dei giovani. Nell’educazione si decide anche se noi amiamo tanto i nostri figli da non estrometterli dal nostro mondo lasciandoli in balia di se stessi, se li amiamo tanto da non strappargli di mano la loro occasione d’intraprendere qualcosa di nuovo, qualcosa d’imprevedibile per noi: e prepararli invece al compito di rinnovare un mondo che sarà comune a tutti».
Hannah Arendt
("La crisi dell'istruzione" in Tra passato e futuro, Milano, Garzanti, 2001)