domenica 29 giugno 2008

EUROFOBIE

Perché l'antropologo Goody non può accettare il fatto che la scienza sia nata in occidente

La tentazione è grande di liquidare un libro quando ci si imbatte subito in affermazioni che urtano la propria sensibilità. Tale è il caso de Il furto della storia di Jack Goody (Feltrinelli, 2008) e della sua ricostruzione delle vicende della formazione dello stato di Israele, ispirata ai più logori e falsi stereotipi, nonché della bizzarra affermazione secondo cui Israele non dovrebbe essere presentato come uno stato democratico poiché possiede un potente esercito: la democrazia e l’esercito sarebbero incompatibili. Ma Goody è uno dei più celebri antropologi viventi – Goody è un uomo d’onore – e un suo libro di quattrocento pagine non merita di essere liquidato per idiosincrasia nei confronti di qualche affermazione isolata. È un libro il cui bersaglio è l’eurocentrismo e il “mito” secondo cui l’Occidente avrebbe diritto a rivendicare una serie di creazioni: la cultura dell’antichità classica, l’umanesimo, il Rinascimento, la scienza, la tecnologia, il capitalismo, la democrazia, in breve i capisaldi della “civiltà” moderna. Si tratterebbe, secondo Goody, di un “furto della storia” compiuto a molteplici livelli e che egli smaschera prendendo di mira l’opera di tre grandi intellettuali “eurocentrici” come Joseph Needham, Norbert Elias e Fernand Braudel.
Compulsando il libro l’occhio corre all’indice analitico e lo storico della scienza non resiste alla tentazione di cercare nomi di scienziati – in fin dei conti, la scienza non è una delle più grandi conquiste vantate dall’Occidente? – e non se ne trova praticamente nessuno: Galileo è citato soltanto tre volte e, incredibilmente, Newton neanche una sola. I nomi dei più grandi filosofi dell’“Occidente” non compaiono neppure: né Cartesio, né Spinoza, Kant e Platone figurano un paio di volte. Altro attacco di idiosincrasia… anche se stavolta assai più fondato, perché riguarda la materia centrale del libro. Ma Goody è un uomo d’onore e bisogna andare fino in fondo.
Certo, le dimensioni del libro di cui è autore un così esimio personaggio vieterebbero una critica contenuta nelle dimensioni di un breve articolo. Eppure, proprio la faccenda della scienza ci mette sulla pista giusta per enucleare la metodologia del libro e la sua profonda fragilità. Di fronte alla tesi secondo cui la scienza si sarebbe sviluppata sul continente europeo, Goody esclama scandalizzato: «Seguendo questo tipo di ragionamento gli scienziati cinesi insigniti in anni recenti del premio Nobel raggiunsero i loro risultati soltanto per una sorta di processo di imitazione!». Ebbene, sì, è proprio così e il punto esclamativo è comico. Ma cosa crede, Goody? Crede forse che in Cina si faccia matematica algoritmica con le bacchette di bambù come un tempo? La scienza che si pratica in Cina è quella occidentale, la quale rappresenta il più straordinario fenomeno di globalizzazione della storia. Che la scienza europea sia debitrice di apporti provenienti dalla civiltà indiana e araba (assai poco dalla Cina), oltre che di quella greca, è fuor di dubbio, ma è la sintesi che conta, quel modo tutto speciale di concepire la conoscenza scientifica e il suo rapporto con la natura. Ma andiamo per gradi. Goody cita lo storico Mark Elvin secondo cui «intorno al 1600 la Cina possedeva in vario grado tutti gli stili di pensiero» individuati comunemente come caratteristici della scienza, a parte il pensiero probabilistico. La rivoluzione avvenuta in quel momento in Europa consistette soltanto in «un’accelerazione del ritmo con cui questi stili si svilupparono». Si tratta di una tesi completamente sballata: chi conosca un minimo la matematica cinese sa che in essa non v’era pensiero geometrico, quantomeno nulla di sia pur lontanamente paragonabile agli Elementi di Euclide. Invece, la matematica europea è nata dalla scoperta di Euclide assieme all’assimilazione dell’algebra araba e del sistema numerico indiano. Il fatto è che la cantonata di Elvin, ripresa acriticamente da Goody, è rafforzata dall’interlocutore che si sono scelto, ovvero lo storico della scienza marxista Needham il quale si è posto il problema (detto da Goody “di Needham”) del perché la scienza sia nata in Occidente (il che Needham dava per scontato) e ha tentato di spiegarlo in termini di strutture sociali. È evidente che in questi termini si perdono gli aspetti più caratteristici e originali della scienza europea. Per coglierli, occorre sviluppare un’analisi in termini di storia delle idee e comprendere che quel che caratterizza la nascita della scienza moderna sono una serie di idee filosofiche e metafisiche assolutamente originali e che non si trovano in nessun’altra civiltà: l’idea di “legge naturale” e l’oggettivismo, da cui discende il principio che ogni fenomeno si ripete immutato a parità di condizioni iniziali, da cui discende a sua volta la possibilità stessa di una tecnologia. È una visione che rivoluziona il concetto di strumento: dalla macchina artigianale, “individuale” e concreta (ottenuta strappando segreti alla natura) si passa allo strumento “concettuale”, basato su leggi scientifiche, come il cannocchiale di Galileo o l’orologio “preciso”.
Tutto questo Goody lo ignora o meglio decide di ignorarlo in quanto discendrebbe da un modo di concettualizzare tipicamente “eurocentrico”… Ma in tal modo, il problema è semplicemente eliminato. Goody ragiona soltanto in termini sociologici, antropologici, di modi di produzione, commerciali, e mai e poi mai in termini di “idee” e di concetti. Questi ultimi, come il concetto stesso di “cultura” impedirebbero l’analisi e la comparazione “razionali” in quanto ricorrono a distinzioni categoriali. Goody propone di ricorrere a un sistema di “griglie”: «si dovrebbe partire da un tratto specifico, poniamo il vincolo di dipendenza dei proprietari terrieri e costruire una griglia delle sue varie tipologie». Inutile dire che nelle griglie di Goody non possono mai trovar posto concetti o idee: sarebbe come “essenzializzare” l’analisi e stabilire a priori l’eurocentrismo. Nelle griglie di Goody il confronto tra scienza europea e altre scienze viene appiattito su questioni in cui il carattere altamente concettuale, diciamo pure deduttivo della scienza europea viene fatto sparire. Tutte le vacche diventano grigie e le differenze si riducono a questioni di intensità o di velocità. Ma, in tal modo, il problema non è risolto, bensì eliminato dichiarandolo inesistente per decreto.
È una visione che rappresenta la quintessenza di quel pensiero postmoderno che fu efficacemente definito “una forma di marxismo debole per le società opulente”. Esso è il paradigma del suicidio della cultura occidentale che nega se stessa con lo strumento di categorie concettuali (perché, alla fin fine, altro non sono le griglie di Goody) le quali sono ironicamente la quintessenza di un approccio “essenzialista”.
(Il Foglio, 27 giugno 2008)

6 commenti:

Andrea Cortis ha detto...

I miei complimenti per l'articolo. Ho trovato come sempre molto interessante il riferimento al "suicidio dell'Occidente", e ne approfitto per fare una domanda allo storico della Matematica.

Dalla Introduzione a "Spazio, Tempo, Materia" di Hermann Weyl, che (in lingua Inglese) recita:

At a later epoch, when the despotism of the Church, which had been maintained through the Middle Ages, had crumbled, and a wave of scepticism threatened to sweep away all that had seemed most fixed, those who believed in Truth clung to Geometry as to a rock, and it was the highest ideal of every scientist to carry on his science, "more geometrico". (circa 1918)

La mia domanda e': Qual'e' quell'humus di coltura che porta Weyl a questa considerazione quanto meno opinabile del ruolo della Chiesa? (quale Chiesa poi? la Cattolica suppongo, Villano per antomasia di queste squallide storie?).

Spigolando qua' e la' mi e' parso di capire che Weyl fosse da giovane un Kantiano puro e duro, e piu' tardi un Husserliano. Ma Weyl non e' di sicuro un caso isolato di questa espressione di pensiero, che secondo me non puo' essere ridotto alla moda del momento ed alla sovraeccitazione dovuta alle scoperte della relativita' e connessa agli studi sulle geometrie non-euclidee.

In altre parole: come si arriva storicamente e filosoficamente al "suicido dell'Occidente" nelle scienze fisiche e matematiche?

La ringrazio in anticipo per tutti gli spunti di riflessione che sono certo sapra' offrirci.

Cari saluti,

Andrea

Heautontimorumenos ha detto...

"Goody è un uomo d'onore"..
Ho molto apprezzato questa indiretta citazione del monologo di Antonio tratto dal Julius Cesar di Shakespeare, perfettamente azzeccata

fordprefect ha detto...

A mio avviso c’è un senso fondamentale in cui l'intenzione di Goody non viene affatto còlta dall'articolo: Goody parte da una prospettiva antropologica, per la quale esistono invero tante culture - mobili, storicamente determinate, sottoposte a incessanti processi di meticciato, a continui prestiti, ibridazioni e così via; ma c'è una sola razza umana (c'è una bella battuta attribuita ad Einstein che sintetizza quest'ultimo punto di vista).
Da questa prospettiva, insistere sull'attribuzione "proprietaria" ad una particolare cultura di un tratto culturale (la scienza post-galileiana, in questo caso), suona imbarazzante, sciocco e irrilevante.
Ed è imbarazzante, sciocco e irrilevante perché "la" cultura in cui hanno preso inizio quelle pratiche (come se fosse rimasta sempre la stessa, tra l'altro) crede di potersi gloriare ancora oggi di una ricchezza che ha semplicemente ereditato, e che le "appartiene" tanto quanto la rivoluzione neolitica "appartiene" ai popoli del Vicino Oriente antico, o "la scrittura" ai Sumeri (per fare un esempio). In realtà ogni acquisizione cognitiva, quale che sia il luogo della terra dove si origina (per ragioni spesso contingenti - cfr. per es. Jared Diamond) "appartiene" immediatamente in potenza all'intera specie umana. Chi oggi insiste sulla "occidentalità" della scienza non si accorge di riprodurre atteggiamenti grotteschi come quelli di qualche (ex-)dittatore irakeno (o iraniano) che presentava a folle entusiaste tutte la acquisizioni intellettuali e tecnologiche degli ultimi millenni come un semplice sviluppo della propria (immaginaria) cultura nazionale.
Forse un esempio può illustrare più chiaramente la posizione di Goody. Si potrebbe parafrasare Goody e dire: "Seguendo questo tipo di ragionamento gli scienziati britannici o tedeschi insigniti in anni recenti del premio Nobel raggiunsero i loro risultati soltanto per una sorta di processo di imitazione!» (imitazione della codificazione scritta sumera, dell'alfabeto fenicio e greco, delle speculazioni geometriche greche, dei numeri indiani, delle scienze arabo-islamiche, delle speculazioni di monaci medievali, alchimisti rinascimentali, dell'elaborazione di concetti teologici tra i puritani del '600 etc.).
Non si tratta invece di "imitazione" ma di legittimo utilizzo, e ricombinazione, di quello che l'ambiente culturale offre (a tutti gli esseri umani).
Una delle accuse più stupide dell'antisemitismo centroeuropeo dei secoli scorsi era l'insistenza sul presunto "parassitismo" degli scienziati di origine ebraica, la cui cultura (etnico-religiosa) non avrebbe mai avuto la incomparabile creatività "faustiana" dell'"Occidente" (maiuscolo, naturalmente), la sua incessante capacità di produrre idee (la pervasività di queste sciocchezze è tale che se ne trovano echi persino in un filosofo come Wittgenstein - cfr. Pensieri diversi, Milano 1980, p. 45).
Ecco, io credo che impostare la lettura critica del libro di Goody nei termini dell'articolo, contribuisca a mantenere in vita proprio queste concezioni fuorvianti, "proprietarie", "identitarie" di questioni che non hanno nulla a che fare con l'"identità" o con qualche diritto di primogenitura. Credo al contrario che liberarsi dell’idea dell’”Occidente” (faustiano, magari) sia un gesto emancipatorio e chiarificatore.
Il sociologo della scienza R. K. Merton sottolineava in modo illuminante le caratteristiche che definiva dell'"universalismo", anzi del "comunismo" propri della natura della scienza, nella quale i diritti alla proprietà intellettuale sono ridotti a un minimo. E citava una lucida osservazione di Pasteur: “Le savant a une patrie, la science n’en a pas”. Il fatto che le prime accurate ricerche astronomiche siano state compiute dalla civiltà babilonese dipenderà forse anche da “una serie di idee filosofiche e metafisiche assolutamente originali e che non si trovano in nessun’altra civiltà”, ma questo non rende affatto l’astronomia un dominio proprietario dei babilonesi.

Giorgio Israel ha detto...

Non avrei dovuto mettere in rete questo messaggio conformemente alla regola che qui non si pubblicano commenti con epiteti insultanti. Ma lo metto in rete perché è illustrativo di come, non avendo capito nulla - ma chi ha mai parlato di domini "proprietari"... - ammassa una serie di osservazioni presuntamente colte prive di qualsiasi contenuto, salvo per l'appunto l'epiteto.

fordprefect ha detto...

1) Non capisco a quale epiteto si faccia riferimento. Se sono stato involontariamente scortese, me ne scuso ...

2) Non vedo in che senso non avrei capito. Certo, nell'articolo non si usa il concetto di "proprietà" (se è per questo, non campare nemmeno il concetto di"Occidente" - maiuscolo e "faustiano" ...). Mi sembra tuttavia che non sia errato far notare le implicazioni appunto identitarie e "proprietarie" di critiche come quelle contenute nell'articolo. Cito: "È un libro il cui bersaglio è l’eurocentrismo e il “mito” secondo cui l’Occidente avrebbe diritto a rivendicare una serie di creazioni: la cultura dell’antichità classica, l’umanesimo, il Rinascimento, la scienza, la tecnologia, il capitalismo, la democrazia, in breve i capisaldi della “civiltà” moderna. Si tratterebbe, secondo Goody, di un “furto della storia” compiuto a molteplici livelli [...] Compulsando il libro l’occhio corre all’indice analitico e lo storico della scienza non resiste alla tentazione di cercare nomi di scienziati – in fin dei conti, la scienza non è una delle più grandi conquiste vantate dall’Occidente? – e non se ne trova praticamente nessuno [...]. Altro attacco di idiosincrasia… anche se stavolta assai più fondato, perché riguarda la materia centrale del libro."

Io cercavo di enucleare l'intento di fondo dell'operazione antropologica (intento magari non perfettamente sviluppato dall'autore, è possibile). L'antropologo inglese contesta appunto che qualcuno (in particolare qui quel concetto del tutto generico che è l'"Occidente") abbia qualche "diritto di rivendicare" nulla. La scienza NON è appunto "una delle più grandi conquiste vantate dall’Occidente". La scienza è, se proprio si vogliono usare queste categorie, "una delle più grandi conquiste vantate dall’umanità". Proprio come la rivoluzione neolitica, la scrittura, l'uso del fuoco e delle tecnologie, i sistemi di numerazione, l'algebra, le osservazioni astronomiche, le speculazioni sul nulla o sulla morte, sulle sefirot o sull'arché: del tutto indipendentemente da dove siano state originate, si tratta di prodotti UMANI (non "occidentali", "islamici", "greci" o "asiatici").
La prospettiva di Goody (e di molti antropologi culturali) è appunto questa - ed è una prospettiva che mi sembra non soltanto eticamente legittima, ma scientificamente più produttiva di una compartimentazione dell'umanità in unità fittizie, immaginarie come "Occidente", "Europa", "America", "Asia" etc. Forse considerare lo sforzo di Goody da questa prospettiva, il suo tentativo di critica di queste divisioni arbitrarie suonerà anche per lei meno inconsistente. O no?

Buona serata, comunque, e grazie per l'attenzione.

Giorgio Israel ha detto...

Che un prodotto intellettuale diventi di tutti dopo essere venuto alla luce e sia umano in quanto prodotto da uomini è una suprema ovvietà degna di M. de La Palice. Dopo di che resta il fatto che ogni prodotto intellettuale nasce in un tempo e in un luogo, in una società, in un gruppo umano e in una cultura. E questo è fondamentale dirlo altrimenti non si fa storia, semplicemente non si dice nulla che abbia interesse. Dire che la scienza moderna è nata in Occidente, in un contesto ben preciso, non significa dire che gli altri erano "bestie". Ma i tentativi di Goody di mostrare che tra scienza cinese e scienza europea non c'erano differenze sono una autentica regressione culturale. È come se si prendessero centinaia di testi di storia della scienza e li si buttasse al secchio per mettere al loro posto il niente.
Il monoteismo l'hanno creato gli ebrei (che ovviamente erano uomini, ma appartenenti a una cultura con caratteristiche molto ben definite) e non gli indiani o i cinesi, dopodiché è diventato patrimonio dell'umanità e gli ebrei non hanno alcun diritto proprietario su di esso. Altrettanto dicasi per il Greci e la filosofia, E per la scienza moderna e l'Europa: scienza che per sua caratteristica era tanto universalistica - a differenza di quella cinese! - da diventare il più grande fenomeno di globalizzazione della storia. E i cinesi di oggi fanno matematica europea e non certamente quella delle bacchette cinesi, ben diversa dalla prima.
Sono banalità. Ed è triste che Goody ci costringa a dirle. Questa è autentica regressione culturale. E non uso aggettivi tipo imbarazzante o sciocco, bensì soltanto "triste".