È di pochi giorni fa la denuncia della Chiesa cattolica del rischio di “statolatria” che fa correre alla Spagna la materia di “educazione alla cittadinanza”: Educación para la ciudadania y los derechos umanos (ecP). È un’accusa non nuova ma ora riproposta con forza. L’episcopato spagnolo si batte da tempo contro questa materia obbligatoria introdotta da un anno. La EcP non è “educazione civica” o “diritto costituzionale” nel senso delle recenti riforme italiane. Essa comprende, oltre a questi aspetti, una marea di temi: la lotta contro le discriminazioni delle diversità, l’educazione della sfera emotiva e sessuale, la costruzione di una coscienza morale e civica “concorde con le società democratiche, plurali e complesse e mutevoli in cui viviamo”, ecc. Pur prescindendo dal fatto che l’orientamento del governo Zapatero va nella direzione di educare mettere sullo stesso piano tutte le forme “familiari”, e contro ogni idea di legge naturale, l’introduzione di questa materia svuota la famiglia del suo ruolo educativo nella dimensione morale, etica e civile e lo trasferisce allo Stato. Chi determinerà quali sono i valori etici e morali “accettabili” da insegnare a scuola? Lo Stato, appunto, e in definitiva la maggioranza di governo. Roba sovietica in salsa relativista.
Tuttavia, sorge una domanda. Si guarda alla Spagna con sdegno e preoccupazione, ma ci si è dati la pena di guardare in casa nostra? So bene che quando si parla di scuola nessuno si sogna di leggere i programmi. Sarebbe invece il caso di farlo per constatare che anche noi (con la legge Moratti) possediamo due materie di educazione alla cittadinanza ed educazione all’affettività che dovrebbero seguire lo studente in tutto il percorso scolastico. La lettura delle conoscenze e competenze da acquisire lascia di stucco. Cito a caso alcune perle. La scuola dovrebbe educare lo studente a costruire «forme di espressione personale, ma anche socialmente accettata e moralmente giustificata, di stati d’animo, di sentimenti, di emozioni diversi, per situazioni differenti»; a «esercitare modalità socialmente efficaci e moralmente legittime di espressione delle proprie emozioni e della propria affettività»; a «essere consapevole delle modalità relazionali da attivare con coetanei e adulti di sesso diverso, sforzandosi di correggere le eventuali inadeguatezze». Inoltre il giovane deve saper «riconoscere il rapporto affettività-sessualità-moralità» e «riconoscere attività e atteggiamenti che sottolineano nelle relazioni interpersonali gli aspetti affettivi e ne facilitano la corretta comunicazione». Non basta. Gli si insegna a saper «cogliere la dimensione morale di ogni scelta e interrogarsi sulle conseguenze delle proprie azioni» e a «cogliere la complessità dei problemi esistenziali, morali, politici, sociali, economici e scientifici e formulare risposte personali argomentate».
Potremmo continuare con altre amenità, come il «prendere coscienza delle situazioni e delle forme del disagio giovanile ed adulto nella società contemporanea e comportarsi in modo da promuovere il benessere fisico, psicologico, morale e sociale» e l’addestramento alla democrazia attraverso l’organizzazione di «un Consiglio Comunale dei Ragazzi». Ovviamente bisogna praticare «il dialogo tra culture e sensibilità diverse» ma anche «partecipare al dibattito culturale», come se non ci fossero abbastanza commentatori “culturali” in giro.
Fermiamoci e poniamo una domanda. A chi spetta definire cosa sia “socialmente accettato” e “moralmente giustificato”, cosa sia “inadeguato” nelle “modalità relazionali”, quale sia la “dimensione morale” delle scelte, che cosa sia il “rapporto affettività-sessualità-moralità” e (colmo dei colmi) cosa sia il “benessere psicologico e morale”? Allo Stato, evidentemente, per il tramite dei suoi agenti, i docenti di educazione alla cittadinanza e all’affettività, cui sarà demandato addirittura di mettere il naso in una funzione tipica della famiglia: l’educazione emotiva e affettiva. Infatti, saranno loro i delegati a spiegare quali ne sono le modalità socialmente efficaci e moralmente legittime. Allucinante.
La fortuna di questo paese è che spesso le leggi si promulgano e non si applicano. Finora questo ciarpame è rimasto sulla carta. Attenzione però che non rispunti fuori nella definizione dei regolamenti attuativi della legge. Si rischia che, mentre lo sguardo si allunga verso la penisola iberica, dietro le spalle ci venga servito uno scherzetto da far invidia al buon Zapatero.
(Libero, 23 dicembre 2008)
«Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza» (Dante Alighieri)
mercoledì 24 dicembre 2008
domenica 21 dicembre 2008
La truffa dell'insegnare a insegnare
La truffa dell’insegnare a insegnare
ANDRÉS DE LA OLIVA 08/12/2008 (El País)
Alla pubblicazione su EL PAÍS di un Manifesto contro il nuovo master di formazione dei docenti hanno risposto in queste pagine alcuni pedagoghi che lo difendono. Tuttavia le argomentazioni, con le quali costoro argomentano la loro risposta, sono erronee. La tesi principale è che un docente non solo deve conoscere la sua materia, ma anche apprendere a insegnarla. Tale affermazione, che sembra rispondere al comune buon senso, è invece un sofisma che da anni gli “esperti in istruzione” propongono alle autorità ministeriali. I futuri docenti, si dice, devono “apprendere a insegnare” e gli alunni “apprendere ad apprendere”. Affinché ci riescano, esiste un gruppo di specialisti (coi propri interessi corporativi), il cui compito è di “insegnare a insegnare”.
Ebbene, precisamente a tale scopo è stato affidato ai pedagoghi il corso del CAP (Certificato di Attitudine Pedagogica). Questo corso non è mai stato sottoposto ai docenti delle scuole medie e superiori per una valutazione oggettiva: si sapeva benissimo che i docenti non solo non ne avrebbero riconosciuto la validità, ma anzi lo avrebbero considerato una burla o un’impostura.
Quale soluzione propone il ministero? Niente meno che sostituire il quinto anno di preparazione disciplinare specifica con un Master di formazione dei docenti, nient’altro che un CAP più lungo e più caro. Qualsiasi cosa tranne che domandare ai docenti il loro parere sull’utilità in aula della formazione pedagogica. A quanto pare, gli unici a sapere che cosa sia necessario in classe sono coloro che mai vi sono entrati; gli unici a sapere come si insegna matematica, grammatica o storia sono coloro che non sanno niente di matematica, grammatica, storia e tuttavia sono esperti ad insegnare come si insegna e come si impara ad imparare.
Perché il CAP è stato una truffa e una vergogna in tutti questi anni? Non perché fosse molto breve, ma perché è falso che chi non conosce la matematica sappia insegnare a insegnare la matematica. Ancor più falso è che esista un sapere che non riguardi la fisica o il latino o la geografia e il cui contenuto sia quello di insegnare a insegnare una di queste discipline. Un docente deve saper catturare l’attenzione degli alunni insegnando loro ad amare il sapere e per ottenere ciò non esiste altra garanzia che il proprio amore per il sapere. La matematica, la storia o il diritto processuale sono appassionanti e il dovere di un docente è di trasmettere ciò ai suoi alunni. E qual è la sua miglior arma, in realtà la sua unica arma, se non conoscere matematica, storia o diritto processuale?
“Conoscere la storia non significa saper insegnare la storia”. Qualsiasi docente esperto direbbe che la cosa sta esattamente al contrario: la miglior prova che uno non conosce la disciplina che credeva di conoscere è che fallisce nell’insegnarla. Se non sa come insegnar qualcosa, la causa è che non la conosce abbastanza e la conseguenza è che deve studiarla di più e meglio. Studiare più fisica, matematica o latino, non pedagogia.
Ovviamente ci saranno sempre grandi scienziati che non amano l’insegnamento e che si rifiutano ad esercitarlo. Non si smette di citare come prova incontestabile la figura del grande scienziato mediocre docente, ma è questo un argomento fallace: gli scienziati che non amano l’insegnamento, insegnano male non perché non sappiano, ma perché non desiderano insegnare e nessun corso di formazione dei docenti gli farà cambiare atteggiamento. D’altra parte, i laureati che mai hanno insegnato non sanno insegnare non perché gli difetti una preparazione pedagogica o psicopedagogica, ma perché gli manca la pratica dell’insegnamento. L’accesso alla professione di docente, come a quella di giudice o di medico, non dovrebbe avvenire senza aver superato un periodo di tirocinio seriamente pensato, organizzato e remunerato e ovviamente solo che si sia data dimostrazione di possedere una formazione non generale, ma avanzata e specifica in una determinata branca del sapere. Ciò è l’unico fine sollecitato dal disprezzato Manifesto contro il nuovo master di formazione dei docenti. Solo questo e inoltre che la si smetta una buona volta di prendere in giro la società mentre si smantella pezzo a pezzo il sistema di istruzione pubblica.
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La estafa del enseñar a enseñar
ANDRÉS DE LA OLIVA 08/12/2008 (El País)
La publicación en EL PAÍS de un Manifiesto Contra el Nuevo Máster de Formación del Profesorado (ECI/3858/2007) ha sido respondida en estas páginas por algunos pedagogos que lo defienden. Las pretendidas evidencias con que argumentan son, sin embargo, falsas. La tesis principal es que un profesor no sólo debe conocer su materia, sino que debe también aprender a enseñarla. Esto parece muy de "sentido común", pero es un sofisma con el que los "expertos en educación" llevan muchos años abduciendo a las autoridades ministeriales. Los futuros profesores, se dice, deben "aprender a enseñar" y los alumnos "aprender a aprender". Para conseguirlo, existe un cuerpo de especialistas (con sus propios intereses corporativos), cuya función es "enseñar a enseñar". Ahora bien, para ello precisamente se confió a los pedagogos el curso del CAP (Certificado de Aptitud Pedagógica). Este curso jamás se ha sometido a una evaluación objetiva entre los profesores de secundaria y bachillerato. Se sabía de sobra que los profesores no sólo no avalarían su utilidad, sino que lo valorarían como una estafa o una impostura. ¿Qué solución propone el ministerio? Nada menos que sustituir el quinto año de preparación disciplinar específica por un Máster de Formación del Profesorado que no es más que un CAP más largo y más caro. Cualquier cosa menos preguntar a los profesores sobre la utilidad en las aulas de la formación pedagógica. Por lo visto, los únicos que saben lo que se necesita en las aulas son los que jamás han pisado un aula. Por lo mismo, los únicos que saben cómo se enseña matemáticas, gramática o historia, son los que no saben ni matemáticas, ni gramática, ni historia (pero son, en cambio, expertos en enseñar a enseñar cómo se aprende a aprender).
¿Por qué el CAP ha sido una estafa y una vergüenza todos estos años? No porque fuera muy corto, sino porque es falso que quien no sabe matemáticas pueda enseñar a enseñar matemáticas. Y todavía es más falso que haya un saber que no sea ni física, ni latín, ni geografía, y cuyo contenido sea el enseñar en general para cualquiera de esas disciplinas. Un profesor debe saber captar la atención de los alumnos enseñándoles a amar el conocimiento, y para lograrlo no hay otra garantía que su propio amor por el conocimiento. Las matemáticas, la historia o el derecho procesal son apasionantes y la obligación de un profesor es saber transmitirlo a sus alumnos. Ahora bien, su mejor arma, en realidad su única arma, es saber matemáticas, historia o derecho procesal. ¿Saber historia no significa saber enseñar historia? Cualquier docente experimentado diría que la cosa es exactamente al revés: la mejor prueba de que algo que uno creía saber no lo sabe en realidad es que fracasa al enseñarlo. Si no se sabe cómo enseñar algo es porque no se sabe suficientemente, y la consecuencia es que hay que estudiarlo más y mejor. Estudiar más física, matemáticas o latín, no pedagogía. Por supuesto que siempre habrá grandes investigadores muy sabios que no amen la enseñanza y se nieguen a ejercerla. La figura del buen investigador y mal docente no cesa de blandirse como un argumento incontestable, pero es una falacia: los investigadores que no aman la enseñanza enseñan mal, no porque no sepan, sino porque no quieren hacerlo, y ningún curso de formación del profesorado les hará cambiar de opinión. Por otro lado, licenciados que nunca han enseñado no saben enseñar, pero no porque les falte teoría pedagógica (o psicopedagógica), sino porque les falta práctica docente. El acceso a la profesión de profesor, como a la de juez o a la de médico, no debería hacerse sin haber superado un periodo de prácticas seriamente concebido, tutelado, y remunerado. Y por cierto que sólo una vez acreditada una formación no básica y generalista, sino avanzada y específica en un campo determinado de conocimiento. Es lo único que solicita el denostado Manifiesto. Eso, y que se deje de tomar el pelo a la sociedad mientras se desmonta pieza a pieza el sistema de instrucción pública.
ANDRÉS DE LA OLIVA 08/12/2008 (El País)
Alla pubblicazione su EL PAÍS di un Manifesto contro il nuovo master di formazione dei docenti hanno risposto in queste pagine alcuni pedagoghi che lo difendono. Tuttavia le argomentazioni, con le quali costoro argomentano la loro risposta, sono erronee. La tesi principale è che un docente non solo deve conoscere la sua materia, ma anche apprendere a insegnarla. Tale affermazione, che sembra rispondere al comune buon senso, è invece un sofisma che da anni gli “esperti in istruzione” propongono alle autorità ministeriali. I futuri docenti, si dice, devono “apprendere a insegnare” e gli alunni “apprendere ad apprendere”. Affinché ci riescano, esiste un gruppo di specialisti (coi propri interessi corporativi), il cui compito è di “insegnare a insegnare”.
Ebbene, precisamente a tale scopo è stato affidato ai pedagoghi il corso del CAP (Certificato di Attitudine Pedagogica). Questo corso non è mai stato sottoposto ai docenti delle scuole medie e superiori per una valutazione oggettiva: si sapeva benissimo che i docenti non solo non ne avrebbero riconosciuto la validità, ma anzi lo avrebbero considerato una burla o un’impostura.
Quale soluzione propone il ministero? Niente meno che sostituire il quinto anno di preparazione disciplinare specifica con un Master di formazione dei docenti, nient’altro che un CAP più lungo e più caro. Qualsiasi cosa tranne che domandare ai docenti il loro parere sull’utilità in aula della formazione pedagogica. A quanto pare, gli unici a sapere che cosa sia necessario in classe sono coloro che mai vi sono entrati; gli unici a sapere come si insegna matematica, grammatica o storia sono coloro che non sanno niente di matematica, grammatica, storia e tuttavia sono esperti ad insegnare come si insegna e come si impara ad imparare.
Perché il CAP è stato una truffa e una vergogna in tutti questi anni? Non perché fosse molto breve, ma perché è falso che chi non conosce la matematica sappia insegnare a insegnare la matematica. Ancor più falso è che esista un sapere che non riguardi la fisica o il latino o la geografia e il cui contenuto sia quello di insegnare a insegnare una di queste discipline. Un docente deve saper catturare l’attenzione degli alunni insegnando loro ad amare il sapere e per ottenere ciò non esiste altra garanzia che il proprio amore per il sapere. La matematica, la storia o il diritto processuale sono appassionanti e il dovere di un docente è di trasmettere ciò ai suoi alunni. E qual è la sua miglior arma, in realtà la sua unica arma, se non conoscere matematica, storia o diritto processuale?
“Conoscere la storia non significa saper insegnare la storia”. Qualsiasi docente esperto direbbe che la cosa sta esattamente al contrario: la miglior prova che uno non conosce la disciplina che credeva di conoscere è che fallisce nell’insegnarla. Se non sa come insegnar qualcosa, la causa è che non la conosce abbastanza e la conseguenza è che deve studiarla di più e meglio. Studiare più fisica, matematica o latino, non pedagogia.
Ovviamente ci saranno sempre grandi scienziati che non amano l’insegnamento e che si rifiutano ad esercitarlo. Non si smette di citare come prova incontestabile la figura del grande scienziato mediocre docente, ma è questo un argomento fallace: gli scienziati che non amano l’insegnamento, insegnano male non perché non sappiano, ma perché non desiderano insegnare e nessun corso di formazione dei docenti gli farà cambiare atteggiamento. D’altra parte, i laureati che mai hanno insegnato non sanno insegnare non perché gli difetti una preparazione pedagogica o psicopedagogica, ma perché gli manca la pratica dell’insegnamento. L’accesso alla professione di docente, come a quella di giudice o di medico, non dovrebbe avvenire senza aver superato un periodo di tirocinio seriamente pensato, organizzato e remunerato e ovviamente solo che si sia data dimostrazione di possedere una formazione non generale, ma avanzata e specifica in una determinata branca del sapere. Ciò è l’unico fine sollecitato dal disprezzato Manifesto contro il nuovo master di formazione dei docenti. Solo questo e inoltre che la si smetta una buona volta di prendere in giro la società mentre si smantella pezzo a pezzo il sistema di istruzione pubblica.
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La estafa del enseñar a enseñar
ANDRÉS DE LA OLIVA 08/12/2008 (El País)
La publicación en EL PAÍS de un Manifiesto Contra el Nuevo Máster de Formación del Profesorado (ECI/3858/2007) ha sido respondida en estas páginas por algunos pedagogos que lo defienden. Las pretendidas evidencias con que argumentan son, sin embargo, falsas. La tesis principal es que un profesor no sólo debe conocer su materia, sino que debe también aprender a enseñarla. Esto parece muy de "sentido común", pero es un sofisma con el que los "expertos en educación" llevan muchos años abduciendo a las autoridades ministeriales. Los futuros profesores, se dice, deben "aprender a enseñar" y los alumnos "aprender a aprender". Para conseguirlo, existe un cuerpo de especialistas (con sus propios intereses corporativos), cuya función es "enseñar a enseñar". Ahora bien, para ello precisamente se confió a los pedagogos el curso del CAP (Certificado de Aptitud Pedagógica). Este curso jamás se ha sometido a una evaluación objetiva entre los profesores de secundaria y bachillerato. Se sabía de sobra que los profesores no sólo no avalarían su utilidad, sino que lo valorarían como una estafa o una impostura. ¿Qué solución propone el ministerio? Nada menos que sustituir el quinto año de preparación disciplinar específica por un Máster de Formación del Profesorado que no es más que un CAP más largo y más caro. Cualquier cosa menos preguntar a los profesores sobre la utilidad en las aulas de la formación pedagógica. Por lo visto, los únicos que saben lo que se necesita en las aulas son los que jamás han pisado un aula. Por lo mismo, los únicos que saben cómo se enseña matemáticas, gramática o historia, son los que no saben ni matemáticas, ni gramática, ni historia (pero son, en cambio, expertos en enseñar a enseñar cómo se aprende a aprender).
¿Por qué el CAP ha sido una estafa y una vergüenza todos estos años? No porque fuera muy corto, sino porque es falso que quien no sabe matemáticas pueda enseñar a enseñar matemáticas. Y todavía es más falso que haya un saber que no sea ni física, ni latín, ni geografía, y cuyo contenido sea el enseñar en general para cualquiera de esas disciplinas. Un profesor debe saber captar la atención de los alumnos enseñándoles a amar el conocimiento, y para lograrlo no hay otra garantía que su propio amor por el conocimiento. Las matemáticas, la historia o el derecho procesal son apasionantes y la obligación de un profesor es saber transmitirlo a sus alumnos. Ahora bien, su mejor arma, en realidad su única arma, es saber matemáticas, historia o derecho procesal. ¿Saber historia no significa saber enseñar historia? Cualquier docente experimentado diría que la cosa es exactamente al revés: la mejor prueba de que algo que uno creía saber no lo sabe en realidad es que fracasa al enseñarlo. Si no se sabe cómo enseñar algo es porque no se sabe suficientemente, y la consecuencia es que hay que estudiarlo más y mejor. Estudiar más física, matemáticas o latín, no pedagogía. Por supuesto que siempre habrá grandes investigadores muy sabios que no amen la enseñanza y se nieguen a ejercerla. La figura del buen investigador y mal docente no cesa de blandirse como un argumento incontestable, pero es una falacia: los investigadores que no aman la enseñanza enseñan mal, no porque no sepan, sino porque no quieren hacerlo, y ningún curso de formación del profesorado les hará cambiar de opinión. Por otro lado, licenciados que nunca han enseñado no saben enseñar, pero no porque les falte teoría pedagógica (o psicopedagógica), sino porque les falta práctica docente. El acceso a la profesión de profesor, como a la de juez o a la de médico, no debería hacerse sin haber superado un periodo de prácticas seriamente concebido, tutelado, y remunerado. Y por cierto que sólo una vez acreditada una formación no básica y generalista, sino avanzada y específica en un campo determinado de conocimiento. Es lo único que solicita el denostado Manifiesto. Eso, y que se deje de tomar el pelo a la sociedad mientras se desmonta pieza a pieza el sistema de instrucción pública.
giovedì 18 dicembre 2008
Più superstizioso di credere nella iella è solo pensare di farci un teorema
Tutti conoscono la celebre legge di Murphy secondo cui «se una cosa può andar male, lo farà». Probabilmente non molti la prendono davvero sul serio, come se fosse una vera “legge” scientifica che governa il corso degli eventi. È vero però che molti credono nella iella o seguono il precetto di Benedetto Croce che diceva di non crederci ma che era più prudente fare come se esistesse davvero. Uno scienziato inglese, Peter Bentley, del Dipartimento di Computer Science dell’University College di Londra, ha deciso di sfatare definitivamente il mito e di dimostrare un “teorema della sfiga” da cui risulterebbe che «c’è sempre una razionale (e spesso affascinante, divertente ed eccitante) spiegazione per tutte le cose che ci capitano ogni giorno» e che «ciò che davvero conta sono la fisica, la chimica, la biologia e in genere tutti i principi naturali che sono alla base di noi e della nostra tecnologia».
La rivista divulgativa Jekyll della prestigiosa istituzione scientifica SISSA (Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati di Trieste), ha divulgato il risultato su cui si basa il “teorema della sfiga” al seguente modo: «Nel 2004 un gruppo di esperti (David Lewis, Philip Obadya e Keelan Leyser) ha elaborato un’equazione statistica per prevedere se e quando la iella colpirà: ((U+C+I)·(10-S))/20·A·1/(1-sin(F/10))».
Se si chiedesse di dare un esempio di cattiva divulgazione scientifica sarebbe difficile trovarne uno migliore. Cosa rappresentano U, C, I, S, A e F? Qual è il senso di 20 e di 10? In generale, qual è il senso della formula? Se era troppo difficile spiegarla tanto valeva non scriverla, anziché fare concessioni alla visione più irrazionale delle “formule” matematiche, come ricette magiche che racchiudono i segreti del mondo e che permettono di manipolarlo alla maniera della fata di Cenerentola: «magicabu la bidibibodibu bu, fa matematica quel che vuoi tu». Bel modo di combattere la superstizione quello di sostituire alla credenza nella iella e nel destino la magia di formule incomprensibili di fronte alle quali il volgo deve inginocchiarsi perché “questa è la scienza, bellezza”!...
In questa divulgazione diseducativa ancor più grave dello sbattere sulla pagina una formula senza spiegarla è la diffusione della credenza, non meno irrazionale di quella nella sfiga, che la scienza sia la chiave di ogni aspetto dell’universo. In questa opera cattiva lo “scienziato” Bentley fa la sua parte. Difatti, se egli ha ragione di dire che è corretto cercare spiegazioni razionali e non rifugiarsi nelle superstizioni, è difficile sostenere che la fisica, la chimica e la biologia bastino: anche la mente umana ha la sua parte ed è avventato dare per scontato che tutto si riduca a una faccenda di atomi o di reazioni chimiche. Ma il divulgatore, anziché introdurre qualche valutazione critica del riduzionismo estremista dello “scienziato” ci mette un carico da novanta sostenendo che «la realtà di tutti i giorni è spesso piena di catastrofi, ma anche le più incomprensibili sono regolate da una logica matematica» e «lo scienziato ha tutte le risposte». Non ci crede neanche lui. Non soltanto nessuno possiede la chiave per spiegare matematicamente qualsiasi evento, ma l’asserzione che tutto il mondo sia matematico è un postulato metafisico indimostrabile e che tutto spinge a ritenere privo di fondamento. Forse si pensa che diffondere queste superstizioni serva ad alimentare il rispetto e l’interesse per la scienza. Invece serve a diffonderne un’immagine opprimente, come tutte le favole che non restano nel regno della fantasia e pretendono di farsi realtà.
(Tempi, 18 dicembre 2008)
La rivista divulgativa Jekyll della prestigiosa istituzione scientifica SISSA (Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati di Trieste), ha divulgato il risultato su cui si basa il “teorema della sfiga” al seguente modo: «Nel 2004 un gruppo di esperti (David Lewis, Philip Obadya e Keelan Leyser) ha elaborato un’equazione statistica per prevedere se e quando la iella colpirà: ((U+C+I)·(10-S))/20·A·1/(1-sin(F/10))».
Se si chiedesse di dare un esempio di cattiva divulgazione scientifica sarebbe difficile trovarne uno migliore. Cosa rappresentano U, C, I, S, A e F? Qual è il senso di 20 e di 10? In generale, qual è il senso della formula? Se era troppo difficile spiegarla tanto valeva non scriverla, anziché fare concessioni alla visione più irrazionale delle “formule” matematiche, come ricette magiche che racchiudono i segreti del mondo e che permettono di manipolarlo alla maniera della fata di Cenerentola: «magicabu la bidibibodibu bu, fa matematica quel che vuoi tu». Bel modo di combattere la superstizione quello di sostituire alla credenza nella iella e nel destino la magia di formule incomprensibili di fronte alle quali il volgo deve inginocchiarsi perché “questa è la scienza, bellezza”!...
In questa divulgazione diseducativa ancor più grave dello sbattere sulla pagina una formula senza spiegarla è la diffusione della credenza, non meno irrazionale di quella nella sfiga, che la scienza sia la chiave di ogni aspetto dell’universo. In questa opera cattiva lo “scienziato” Bentley fa la sua parte. Difatti, se egli ha ragione di dire che è corretto cercare spiegazioni razionali e non rifugiarsi nelle superstizioni, è difficile sostenere che la fisica, la chimica e la biologia bastino: anche la mente umana ha la sua parte ed è avventato dare per scontato che tutto si riduca a una faccenda di atomi o di reazioni chimiche. Ma il divulgatore, anziché introdurre qualche valutazione critica del riduzionismo estremista dello “scienziato” ci mette un carico da novanta sostenendo che «la realtà di tutti i giorni è spesso piena di catastrofi, ma anche le più incomprensibili sono regolate da una logica matematica» e «lo scienziato ha tutte le risposte». Non ci crede neanche lui. Non soltanto nessuno possiede la chiave per spiegare matematicamente qualsiasi evento, ma l’asserzione che tutto il mondo sia matematico è un postulato metafisico indimostrabile e che tutto spinge a ritenere privo di fondamento. Forse si pensa che diffondere queste superstizioni serva ad alimentare il rispetto e l’interesse per la scienza. Invece serve a diffonderne un’immagine opprimente, come tutte le favole che non restano nel regno della fantasia e pretendono di farsi realtà.
(Tempi, 18 dicembre 2008)
domenica 14 dicembre 2008
Nessun ripensamento. Atto di responsabilità rinviare la riforma delle Superiori
Quando non si sa più a quale santo votarsi s’inventa di tutto, anche che il ministro Gelmini ha ritirato i provvedimenti sulla scuola. È una balla a scopo autoconsolatorio. La riforma è legge: il modulo è abolito, la scuola primaria è basata sulla figura del maestro prevalente (che ovviamente da solo non può coprire tutte le ore del tempo pieno) e chi vuole può scegliersi anche il maestro unico a orario ridotto. Un’altra balla propagandistica è lo sbandieramento del rinvio della riforma delle superiori come una «gigantesca marcia indietro». Al contrario, si è trattato di una scelta responsabile dettata dall’analisi dei problemi che avrebbe provocato un’introduzione immediata di regolamenti attuativi della legge Moratti.
Al riguardo vorrei fare alcune considerazioni per spiegare perché, a mio avviso, la scelta di affrontare in modo approfondito e meditato la riorganizzazione delle superiori è l’unico modo corretto per proseguire l’opera di riforma della scuola.
La legge Moratti è un apparato vasto, complesso e composito, la cui applicazione pone problemi delicati. Essa comporta una molteplicità di materie e un’articolazione alquanto pesante. È anche da chiedersi se colei che ha dato il suo nome alla legge sia rimasta davvero soddisfatta dell’opera di chi l’ha compilata. Ed è da chiedersi come sia possibile che chi giustamente depreca l’etica laicista di stato cui si ispira la “educación para la ciudadanía” del governo Zapatero e difende la centralità della famiglia nella trasmissione dei valori morali, digerisca l’“educazione all’affettività” proposta dalla legge Moratti. È una materia che comporta tematiche strampalate come «l’aspetto culturale e valoriale della connessione tra affettività-sessualità-moralità» e lo sviluppo di competenze come il «riconoscere attività e atteggiamenti che sottolineano nelle relazioni interpersonali gli aspetti affettivi e ne facilitano la corretta comunicazione». Inoltre, applicare la legge Moratti significa introdurre l’educazione alla salute, l’educazione alimentare, ambientale, stradale, alla cittadinanza: tutte cose che non hanno niente a che fare con l’insegnamento del diritto costituzionale ma che assomigliano piuttosto a un’educazione di stato di stampo sovietico. Del resto è noto quale cultura abbia ispirato queste tematiche. Riteniamo davvero opportuno introdurle nella scuola senza pensarci bene?
Un altro tema di riflessione riguarda i programmi. L’ossessione di introdurre lo studente alla pratica attiva dei concetti abolendo l’acquisizione preliminare di conoscenze di base ha suggerito obbiettivi grotteschi: un ragazzo di terza liceo dovrebbe essere capace di «utilizzare e proporre modelli e analogie», di «formulare ipotesi, sperimentare e interpretare» e addirittura di «descrivere effetti relativistici nello studio della fisica delle particelle». Invece di acquisire le conoscenze in modo progressivo e metodico si affastella tutto: nozioni scientifiche classiche accanto a temi che sono oggetto della ricerca attuale e quindi ancora mal sistematizzati. Non voglio annoiare il lettore (si potrebbero riempire pagine di osservazioni): la legge Moratti propone un approccio didattico e di contenuto a dir poco audace ed è bene andarci con i piedi di piombo prima di rovesciare questo tsunami sulla già stressata scuola italiana.
Un altro aspetto critico riguarda i licei tecnici ed è rappresentato dal progetto di unificare quasi tutte le materie scientifiche in un’unica materia detta “scienze integrate”. Questa ipotesi ha suscitato un’ondata di preoccupazioni tra gli insegnanti: chi è laureato in chimica non se la sente giustamente di insegnare biologia e viceversa. Una delle cause principali della crisi delle scuole medie inferiori è che un buon numero di insegnanti di matematica non possiede una solida formazione in questa materia. Mentre si tenta di turare questa falla è proprio il caso di aprire un problema analogo nei licei tecnici? Oltretutto, è discutibile l’idea che un diplomato di questi licei non abbia bisogno di formazione teorica di base bensì di una generica infarinatura a scopo essenzialmente applicativo. Taluni ambienti dell’imprenditoria italiana che patrocinano questa materia dovrebbero assumere un atteggiamento più evoluto e rendersi conto che l’addestramento specifico si può fare in azienda in pochi mesi: quel che conta è preparare soggetti dotati della capacità di pensare e operare in modo autonomo e originale e questa capacità si matura attraverso l’acquisizione di una seria preparazione culturale generale.
Molti altri aspetti critici andrebbero menzionati tra cui l’istituzione di un Liceo delle Scienze Umane i cui programmi sono sconcertanti. Questo liceo non è funzionale – come qualcuno potrebbe ingenuamente pensare – all’apprendimento delle scienze umane comunemente intese: storia, antropologia, sociologia, psicologia, ecc. Si tratta invece di un liceo di scienze pedagogiche in cui ogni accenno ad altri saperi umanistici è inquadrato nella tematica educativa. Insomma, è un regalo fatto alla corporazione già ipertrofica dei pedagogisti affinché alimenti ulteriormente la sua autoriproduzione.
L’introduzione nella scuola di questa farraginosa e discutibile (e forse inapplicabile) macchina in congiunzione con l’esigenza di un contenimento delle spese e di una riduzione del numero esorbitante di curricula creati nei processi di sperimentazione, comporta un’operazione di una complessità enorme che rischia di produrre sconvolgimenti difficili persino a prevedersi. Pertanto la scelta del ministro Gelmini di aprire una fase di riflessione che permetta di ripensare in modo approfondito le iniziative da prendere nei confronti delle scuole superiori lungi dall’essere un passo indietro è un atto responsabile che costituisce la premessa indispensabile per progettare una ristrutturazione seria e meditata dell’offerta formativa.
(Libero, 14 dicembre 2008)
Al riguardo vorrei fare alcune considerazioni per spiegare perché, a mio avviso, la scelta di affrontare in modo approfondito e meditato la riorganizzazione delle superiori è l’unico modo corretto per proseguire l’opera di riforma della scuola.
La legge Moratti è un apparato vasto, complesso e composito, la cui applicazione pone problemi delicati. Essa comporta una molteplicità di materie e un’articolazione alquanto pesante. È anche da chiedersi se colei che ha dato il suo nome alla legge sia rimasta davvero soddisfatta dell’opera di chi l’ha compilata. Ed è da chiedersi come sia possibile che chi giustamente depreca l’etica laicista di stato cui si ispira la “educación para la ciudadanía” del governo Zapatero e difende la centralità della famiglia nella trasmissione dei valori morali, digerisca l’“educazione all’affettività” proposta dalla legge Moratti. È una materia che comporta tematiche strampalate come «l’aspetto culturale e valoriale della connessione tra affettività-sessualità-moralità» e lo sviluppo di competenze come il «riconoscere attività e atteggiamenti che sottolineano nelle relazioni interpersonali gli aspetti affettivi e ne facilitano la corretta comunicazione». Inoltre, applicare la legge Moratti significa introdurre l’educazione alla salute, l’educazione alimentare, ambientale, stradale, alla cittadinanza: tutte cose che non hanno niente a che fare con l’insegnamento del diritto costituzionale ma che assomigliano piuttosto a un’educazione di stato di stampo sovietico. Del resto è noto quale cultura abbia ispirato queste tematiche. Riteniamo davvero opportuno introdurle nella scuola senza pensarci bene?
Un altro tema di riflessione riguarda i programmi. L’ossessione di introdurre lo studente alla pratica attiva dei concetti abolendo l’acquisizione preliminare di conoscenze di base ha suggerito obbiettivi grotteschi: un ragazzo di terza liceo dovrebbe essere capace di «utilizzare e proporre modelli e analogie», di «formulare ipotesi, sperimentare e interpretare» e addirittura di «descrivere effetti relativistici nello studio della fisica delle particelle». Invece di acquisire le conoscenze in modo progressivo e metodico si affastella tutto: nozioni scientifiche classiche accanto a temi che sono oggetto della ricerca attuale e quindi ancora mal sistematizzati. Non voglio annoiare il lettore (si potrebbero riempire pagine di osservazioni): la legge Moratti propone un approccio didattico e di contenuto a dir poco audace ed è bene andarci con i piedi di piombo prima di rovesciare questo tsunami sulla già stressata scuola italiana.
Un altro aspetto critico riguarda i licei tecnici ed è rappresentato dal progetto di unificare quasi tutte le materie scientifiche in un’unica materia detta “scienze integrate”. Questa ipotesi ha suscitato un’ondata di preoccupazioni tra gli insegnanti: chi è laureato in chimica non se la sente giustamente di insegnare biologia e viceversa. Una delle cause principali della crisi delle scuole medie inferiori è che un buon numero di insegnanti di matematica non possiede una solida formazione in questa materia. Mentre si tenta di turare questa falla è proprio il caso di aprire un problema analogo nei licei tecnici? Oltretutto, è discutibile l’idea che un diplomato di questi licei non abbia bisogno di formazione teorica di base bensì di una generica infarinatura a scopo essenzialmente applicativo. Taluni ambienti dell’imprenditoria italiana che patrocinano questa materia dovrebbero assumere un atteggiamento più evoluto e rendersi conto che l’addestramento specifico si può fare in azienda in pochi mesi: quel che conta è preparare soggetti dotati della capacità di pensare e operare in modo autonomo e originale e questa capacità si matura attraverso l’acquisizione di una seria preparazione culturale generale.
Molti altri aspetti critici andrebbero menzionati tra cui l’istituzione di un Liceo delle Scienze Umane i cui programmi sono sconcertanti. Questo liceo non è funzionale – come qualcuno potrebbe ingenuamente pensare – all’apprendimento delle scienze umane comunemente intese: storia, antropologia, sociologia, psicologia, ecc. Si tratta invece di un liceo di scienze pedagogiche in cui ogni accenno ad altri saperi umanistici è inquadrato nella tematica educativa. Insomma, è un regalo fatto alla corporazione già ipertrofica dei pedagogisti affinché alimenti ulteriormente la sua autoriproduzione.
L’introduzione nella scuola di questa farraginosa e discutibile (e forse inapplicabile) macchina in congiunzione con l’esigenza di un contenimento delle spese e di una riduzione del numero esorbitante di curricula creati nei processi di sperimentazione, comporta un’operazione di una complessità enorme che rischia di produrre sconvolgimenti difficili persino a prevedersi. Pertanto la scelta del ministro Gelmini di aprire una fase di riflessione che permetta di ripensare in modo approfondito le iniziative da prendere nei confronti delle scuole superiori lungi dall’essere un passo indietro è un atto responsabile che costituisce la premessa indispensabile per progettare una ristrutturazione seria e meditata dell’offerta formativa.
(Libero, 14 dicembre 2008)
sabato 6 dicembre 2008
BOTTA e RISPOSTA sul DIALOGO EBRAICO-CRISTIANO
Alla lettera di Guido Guastalla e mia pubblicata sul Corriere della Sera del 26 novembre e riportata in questo blog, hanno risposto Rav Giuseppe Laras, il prof. Amos Luzzatto e Daniele Nahum con la lettera seguente (Corriere della Sera, 4 dicembre).
Segue la nostra controreplica:
=========================================
Ebrei, Cattolici e Cristiani
Abbiamo letto l’articolo di Guido Guastalla e di Giorgio Israel, pubblicato in data 26 novembre sul Corriere della Sera.
In Italia il dialogo ebraico-cristiano ha coinvolto, a più livelli e da diversi anni, numerosi intellettuali sia ebrei che cristiani, credenti e non, nonché tante persone di buona volontà.
Si può forse anche affermare che la capitale del Dialogo in Italia, per quasi tre decenni, è stata la città di Milano, vista la compresenza, la reciproca stima e la collaborazione avutasi tra i Cardinali Arcivescovi C.M. Martini e D. Tettamanzi e il Rabbino Capo emerito G. Laras, oggi Presidente dei Rabbini italiani.
Ma non solo. La presenza a Milano del Consiglio Ecumenico delle Chiese Cristiane ha visto collaborare ebrei con autorità religiose e intellettuali sia valdesi sia cristiano-ortodossi.
Ed ecco i nomi del Dialogo in Italia, iniziato con Renzo Fabris e il rabbino Elia Kopciovski, tra i quali ricordiamo: Paolo de Benedetti, Maria Vingiani, Elena Lea Bartolini, don Gianfranco Bottoni, Daniele Garrone, Maria Cristina Bartolomei, Paolo Ricca, Enzo Bianchi, Brunetto Salvarani, Piero Stefani, Amos Luzzatto, Lea Sestrieri, Bruno Segre, Stefano Levi Della Torre, la Comunità di S. Egidio, la Libreria Claudiana, i monaci di Camaldoli e tanti altri ancora…mancano all’appello, almeno a memoria delle persone finora citate, i due ebrei italiani “impegnati nel Dialogo” che hanno scritto ieri su questa stessa testata!
Tutte queste persone, e il Rabbinato Italiano in particolare, da sempre hanno avuto a cuore il Dialogo tra ebrei e cristiani e, proprio per questo motivo, avvertono con particolare sensibilità e preoccupazione l’evidente stonatura derivante dal Motu Proprio promosso da Benedetto XVI circa l’Oremus pro Iudeis del Venerdì Santo, legato ad altri tempi (non proprio sereni!) e ad altri impianti teologici, da cui, peraltro, il Concilio Vaticano II aveva preso le distanze, lasciando aperti spazi inediti per il Dialogo tra Cattolici ed Ebrei. Ma è opportuno fare un’ulteriore importante sottolineatura. La pausa di riflessione, voluta in coscienza dai Rabbini Italiani, non riguarda il Cristianesimo nel suo insieme, ma solo la confessione cristiano-cattolica. Da questo si desume che non è vero che il Rabbinato Italiano voglia interrompere il Dialogo, ma semplicemente non prendere parte il prossimo anno alla tradizionale Giornata dell’Ebraismo del 17 Gennaio, non giudicando sinora esaurienti e effettivamente chiarificatrici le spiegazioni e le assicurazioni ricevute da alcuni esponenti della Chiesa Cattolica in relazione al pronunciamento papale, considerato che si tratta di una Preghiera da storia e da valenza simbolica particolari, legata alla genesi e al diffondersi dell’antisemitismo e dell’insegnamento del disprezzo, malattie purtroppo ancora ben vive. È evidente, quindi, la regressione rispetto alle conquiste scaturite dagli ultimi decenni di dialogo e collaborazione. Si spera solo che questa sia una crisi passeggera!
Sarebbe importante ricordare ai due firmatari dell’articolo che non è stato il Rabbinato Italiano a dare inizio a questa poco edificante querelle -che alla lunga rischia davvero di compromettere gli sforzi intellettuali e morali di eminenti personalità sia del mondo ebraico sia del mondo cattolico-, ma il Papa con la sua decisione.
Inoltre, a scanso di equivoci, è opportuno anche ricordare che il Rabbinato Italiano e i membri dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane sono i soli ufficiali responsabili della rappresentanza rispettivamente religiosa e civile degli ebrei italiani.
Per quanto riguarda il riferimento al Rabbino D. Rosen, si consideri che nel mondo ebraico non esiste un Papa e, pertanto, in Italia sono i Rabbini Italiani gli interlocutori tra le Chiese e l’Ebraismo.
Da ultimo, il Dialogo ebraico-cristiano, ivi compreso quello particolare con la Chiesa Cattolica, è una cosa certamente importantissima, che richiede sforzi e, soprattutto, costante esercizio di rispetto, comprensione, preparazione storica e, nondimeno, onestà intellettuale.
Il Dialogo tra Ebrei e Cristiani è unico e speciale, vista la tangenza e la storia comune tra le due fedi; esso, tuttavia, non è mai stato e non deve affatto essere uno strumento dell’Occidente contro l’Islām, ormai presente in maniera consistente in tutta Europa. Sicuramente bisogna opporsi ai fanatismi, ma non solo a quelli di matrice islamica! Una siffatta ipotesi strumentale del Dialogo è, quindi, intellettualmente, moralmente e religiosamente inaccettabile! Si ricordi, poi, che i rapporti tra Ebraismo e Islām generalmente sono stati più proficui e sereni rispetto a quelli intercorsi tra Ebraismo e Cristianesimo…ma questa è un’altra storia!
Rav Prof. Giuseppe LARAS, Rabbino Capo emerito di Milano e Presidente dei Rabbini Italiani
Amos LUZZATTO, Presidente dell’Associazione Centro Studi Primo Levi di Torino
Daniele NAHUM, Presidente dell’Unione Giovani Ebrei d’Italia
==================================
E questa è la nostra controreplica:
REPLICA a LARAS, LUZZATTO e NAHUM
Nella lettera da noi inviata al Corriere della Sera e pubblicata il 26 novembre, abbiamo espresso “profondo dissenso” dalla decisione presa il 17 novembre dall’Assemblea dei Rabbini d’Italia di sospendere il dialogo ebraico-cattolico. Lo abbiamo fatto nei termini più civili e sereni, senza un’ombra di polemica. Inoltre la nostra lettera conteneva argomentazioni esclusivamente dettate da esigenze spirituali e religiose.
Al contrario, Rav Giuseppe Laras, il professor Amos Luzzatto e Daniele Nahum hanno ritenuto di rispondere con una lettera (pubblicata dal Corriere) aspramente polemica, fino all’insulto e priva di argomentazioni. Essi hanno deformato una nostra affermazione secondo cui, in un momento di grave sbandamento etico e morale e di fronte all’assalto dell’integralismo islamico, è importante stringere i rapporti con chi condivide la difesa del primato della morale e della ragione pacifica. Hanno presentato tale affermazione come se avessimo detto che è conveniente allearsi con la Chiesa per difendere l’Occidente contro l’Islam, definendola un’«ipotesi strumentale del dialogo» che sarebbe «intellettualmente, moralmente e religiosamente inaccettabile». Una simile deformazione è tanto più grave in quanto usata per lanciare la pesante accusa di strumentalismo intellettuale, morale e religioso. Oltretutto la polemica scivola in modo patetico sull’osservazione che l’Islam è «ormai presente in maniera consistente in tutta Europa». Che argomento è mai questo? Forse la considerazione che si deve avere dell’Islam dipende dal suo peso numerico? Se volessimo ricorrere agli stessi metodi di Laras, Luzzatto e Nahum potremmo accusarli di ragionare sotto la spinta della paura e quindi per mere ragioni di opportunità.
Passiamo sopra altri epiteti e considerazioni spiacevoli, come il richiamo al fatto che l’esercizio del dialogo richiede “onestà intellettuale”. Che bisogno c’era di dirlo? Vi è forse qualcuno qui che si sia macchiato di disonestà intellettuale?
Ma veniamo ad altri aspetti ancor più inaccettabili della lettera.
I nostri stendono un elenco dei “nomi del Dialogo” in Italia osservando che «mancano all’appello i due ebrei “impegnati nel Dialogo”», che poi saremmo noi, per chi non avesse afferrato la pungente ironia. Non staremo al gioco penoso di esibire le credenziali di “dialoganti”. Ci limitiamo a osservare che è una procedura comica stendere una lista pretendendo di avere l’autorità insindacabile di decidere chi ha diritto a farne parte per poi dileggiare chi non ne fa parte. Insomma, siccome Laras e amici hanno decretato che non siamo “dialoganti”, allora non siamo “dialoganti”, e pertanto non siamo titolati a parlare di dialogo. Un brillante esercizio di logica, non c’è che dire. È da immaginare quali risultati sul piano dell’analisi talmudica si ottengano con simili procedimenti.
Ma il vertice della lettera è raggiunto quando si respinge il riferimento alle affermazioni del Rabbino David Rosen, in quanto «nel mondo ebraico non esiste un Papa». Naturalmente noi non avevamo citato il Rabbino Rosen come un Papa ebraico ma sottolineare l’esistenza di autorevoli punti di vista diversi da quelli del rabbinato italiano e analoghi al nostro, e per incitare a un atteggiamento riflessivo. Ma i nostri sono invece alla ricerca di Papi ebrei, sia pure locali. Difatti affermano che non esistendo un Papa, «in Italia sono i Rabbini Italiani gli interlocutori tra le Chiese e l’Ebraismo». In altri termini, chi voglia dialogare o è un rabbino italiano o deve chiedere l’autorizzazione ai rabbini italiani perché solo loro sono “gli interlocutori”. E rafforzano questa tesi con l’affermazione secondo cui «a scanso di equivoci, è opportuno anche ricordare che il Rabbinato Italiano e i membri dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane sono i soli ufficiali responsabili della rappresentanza rispettivamente religiosa e civile degli ebrei italiani».
Si tratta di aun’affermazione estremamente radicale e avventata che rappresenta una vera e propria uscita dall’ebraismo per entrare nella sfera dell’integralismo. Giova ricordare ai firmatari della lettera che un rabbino è un maestro che deve conquistarsi autorità e rispetto con l’esempio e l’insegnamento e non è un’autorità che ha il potere (da chi e come conferito?) di essere l’unica rappresentante religiosa di tutta la comunità. Neppure il Papa è dotato di un simile potere. La pretesa che il Rabbinato sia più di un Papato, unico ufficiale rappresentante religioso degli ebrei e titolare esclusivo del diritto di esercitare il Dialogo con le altri fedi e del potere di autorizzare i “fedeli” a praticarlo o di vietare di praticarlo, è estranea alla tradizione di libertà di pensiero dell’ebraismo, esorbita dalle funzioni del rabbino – salvo noti casi storici che rappresentano per l’appunto esempi di degenerazione – e rappresenta un mortificante cedimento al peggiore fondamentalismo. È stupefacente che non ci si renda conto del carattere inaudito della pretesa di avere il potere di decidere chi, se e come possa parlare o non parlare con altri. Tanto più ciò è grave se, per imporre tale autorità, si ricorre al metodo di screditare chi dissente (civilmente e pacatamente) sul piano morale: anche questa è una procedura tipica del fondamentalismo.
È con severa determinazione che preghiamo i firmatari della lettera di desistere da un siffatto atteggiamento che può essere compreso soltanto come effetto di uno stato di agitazione emotiva.
Deve essere comunque estremamente chiaro che non esistono le condizioni per esercitarsi nel gioco della scomunica o della messa al bando. Il tono aggressivo e offensivo della lettera purtroppo lascia credere che qualcuno nutra una simile illusione. È bene sapere che, così come non ci siamo permessi di mettere sotto accusa nessuno, non ci lasceremo mettere sotto accusa da nessuno e tantomeno screditare sul piano morale, quale che sia l’autorità che l’accusatore presume di avere.
Guido Guastalla
Giorgio Israel
Segue la nostra controreplica:
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Ebrei, Cattolici e Cristiani
Abbiamo letto l’articolo di Guido Guastalla e di Giorgio Israel, pubblicato in data 26 novembre sul Corriere della Sera.
In Italia il dialogo ebraico-cristiano ha coinvolto, a più livelli e da diversi anni, numerosi intellettuali sia ebrei che cristiani, credenti e non, nonché tante persone di buona volontà.
Si può forse anche affermare che la capitale del Dialogo in Italia, per quasi tre decenni, è stata la città di Milano, vista la compresenza, la reciproca stima e la collaborazione avutasi tra i Cardinali Arcivescovi C.M. Martini e D. Tettamanzi e il Rabbino Capo emerito G. Laras, oggi Presidente dei Rabbini italiani.
Ma non solo. La presenza a Milano del Consiglio Ecumenico delle Chiese Cristiane ha visto collaborare ebrei con autorità religiose e intellettuali sia valdesi sia cristiano-ortodossi.
Ed ecco i nomi del Dialogo in Italia, iniziato con Renzo Fabris e il rabbino Elia Kopciovski, tra i quali ricordiamo: Paolo de Benedetti, Maria Vingiani, Elena Lea Bartolini, don Gianfranco Bottoni, Daniele Garrone, Maria Cristina Bartolomei, Paolo Ricca, Enzo Bianchi, Brunetto Salvarani, Piero Stefani, Amos Luzzatto, Lea Sestrieri, Bruno Segre, Stefano Levi Della Torre, la Comunità di S. Egidio, la Libreria Claudiana, i monaci di Camaldoli e tanti altri ancora…mancano all’appello, almeno a memoria delle persone finora citate, i due ebrei italiani “impegnati nel Dialogo” che hanno scritto ieri su questa stessa testata!
Tutte queste persone, e il Rabbinato Italiano in particolare, da sempre hanno avuto a cuore il Dialogo tra ebrei e cristiani e, proprio per questo motivo, avvertono con particolare sensibilità e preoccupazione l’evidente stonatura derivante dal Motu Proprio promosso da Benedetto XVI circa l’Oremus pro Iudeis del Venerdì Santo, legato ad altri tempi (non proprio sereni!) e ad altri impianti teologici, da cui, peraltro, il Concilio Vaticano II aveva preso le distanze, lasciando aperti spazi inediti per il Dialogo tra Cattolici ed Ebrei. Ma è opportuno fare un’ulteriore importante sottolineatura. La pausa di riflessione, voluta in coscienza dai Rabbini Italiani, non riguarda il Cristianesimo nel suo insieme, ma solo la confessione cristiano-cattolica. Da questo si desume che non è vero che il Rabbinato Italiano voglia interrompere il Dialogo, ma semplicemente non prendere parte il prossimo anno alla tradizionale Giornata dell’Ebraismo del 17 Gennaio, non giudicando sinora esaurienti e effettivamente chiarificatrici le spiegazioni e le assicurazioni ricevute da alcuni esponenti della Chiesa Cattolica in relazione al pronunciamento papale, considerato che si tratta di una Preghiera da storia e da valenza simbolica particolari, legata alla genesi e al diffondersi dell’antisemitismo e dell’insegnamento del disprezzo, malattie purtroppo ancora ben vive. È evidente, quindi, la regressione rispetto alle conquiste scaturite dagli ultimi decenni di dialogo e collaborazione. Si spera solo che questa sia una crisi passeggera!
Sarebbe importante ricordare ai due firmatari dell’articolo che non è stato il Rabbinato Italiano a dare inizio a questa poco edificante querelle -che alla lunga rischia davvero di compromettere gli sforzi intellettuali e morali di eminenti personalità sia del mondo ebraico sia del mondo cattolico-, ma il Papa con la sua decisione.
Inoltre, a scanso di equivoci, è opportuno anche ricordare che il Rabbinato Italiano e i membri dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane sono i soli ufficiali responsabili della rappresentanza rispettivamente religiosa e civile degli ebrei italiani.
Per quanto riguarda il riferimento al Rabbino D. Rosen, si consideri che nel mondo ebraico non esiste un Papa e, pertanto, in Italia sono i Rabbini Italiani gli interlocutori tra le Chiese e l’Ebraismo.
Da ultimo, il Dialogo ebraico-cristiano, ivi compreso quello particolare con la Chiesa Cattolica, è una cosa certamente importantissima, che richiede sforzi e, soprattutto, costante esercizio di rispetto, comprensione, preparazione storica e, nondimeno, onestà intellettuale.
Il Dialogo tra Ebrei e Cristiani è unico e speciale, vista la tangenza e la storia comune tra le due fedi; esso, tuttavia, non è mai stato e non deve affatto essere uno strumento dell’Occidente contro l’Islām, ormai presente in maniera consistente in tutta Europa. Sicuramente bisogna opporsi ai fanatismi, ma non solo a quelli di matrice islamica! Una siffatta ipotesi strumentale del Dialogo è, quindi, intellettualmente, moralmente e religiosamente inaccettabile! Si ricordi, poi, che i rapporti tra Ebraismo e Islām generalmente sono stati più proficui e sereni rispetto a quelli intercorsi tra Ebraismo e Cristianesimo…ma questa è un’altra storia!
Rav Prof. Giuseppe LARAS, Rabbino Capo emerito di Milano e Presidente dei Rabbini Italiani
Amos LUZZATTO, Presidente dell’Associazione Centro Studi Primo Levi di Torino
Daniele NAHUM, Presidente dell’Unione Giovani Ebrei d’Italia
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E questa è la nostra controreplica:
REPLICA a LARAS, LUZZATTO e NAHUM
Nella lettera da noi inviata al Corriere della Sera e pubblicata il 26 novembre, abbiamo espresso “profondo dissenso” dalla decisione presa il 17 novembre dall’Assemblea dei Rabbini d’Italia di sospendere il dialogo ebraico-cattolico. Lo abbiamo fatto nei termini più civili e sereni, senza un’ombra di polemica. Inoltre la nostra lettera conteneva argomentazioni esclusivamente dettate da esigenze spirituali e religiose.
Al contrario, Rav Giuseppe Laras, il professor Amos Luzzatto e Daniele Nahum hanno ritenuto di rispondere con una lettera (pubblicata dal Corriere) aspramente polemica, fino all’insulto e priva di argomentazioni. Essi hanno deformato una nostra affermazione secondo cui, in un momento di grave sbandamento etico e morale e di fronte all’assalto dell’integralismo islamico, è importante stringere i rapporti con chi condivide la difesa del primato della morale e della ragione pacifica. Hanno presentato tale affermazione come se avessimo detto che è conveniente allearsi con la Chiesa per difendere l’Occidente contro l’Islam, definendola un’«ipotesi strumentale del dialogo» che sarebbe «intellettualmente, moralmente e religiosamente inaccettabile». Una simile deformazione è tanto più grave in quanto usata per lanciare la pesante accusa di strumentalismo intellettuale, morale e religioso. Oltretutto la polemica scivola in modo patetico sull’osservazione che l’Islam è «ormai presente in maniera consistente in tutta Europa». Che argomento è mai questo? Forse la considerazione che si deve avere dell’Islam dipende dal suo peso numerico? Se volessimo ricorrere agli stessi metodi di Laras, Luzzatto e Nahum potremmo accusarli di ragionare sotto la spinta della paura e quindi per mere ragioni di opportunità.
Passiamo sopra altri epiteti e considerazioni spiacevoli, come il richiamo al fatto che l’esercizio del dialogo richiede “onestà intellettuale”. Che bisogno c’era di dirlo? Vi è forse qualcuno qui che si sia macchiato di disonestà intellettuale?
Ma veniamo ad altri aspetti ancor più inaccettabili della lettera.
I nostri stendono un elenco dei “nomi del Dialogo” in Italia osservando che «mancano all’appello i due ebrei “impegnati nel Dialogo”», che poi saremmo noi, per chi non avesse afferrato la pungente ironia. Non staremo al gioco penoso di esibire le credenziali di “dialoganti”. Ci limitiamo a osservare che è una procedura comica stendere una lista pretendendo di avere l’autorità insindacabile di decidere chi ha diritto a farne parte per poi dileggiare chi non ne fa parte. Insomma, siccome Laras e amici hanno decretato che non siamo “dialoganti”, allora non siamo “dialoganti”, e pertanto non siamo titolati a parlare di dialogo. Un brillante esercizio di logica, non c’è che dire. È da immaginare quali risultati sul piano dell’analisi talmudica si ottengano con simili procedimenti.
Ma il vertice della lettera è raggiunto quando si respinge il riferimento alle affermazioni del Rabbino David Rosen, in quanto «nel mondo ebraico non esiste un Papa». Naturalmente noi non avevamo citato il Rabbino Rosen come un Papa ebraico ma sottolineare l’esistenza di autorevoli punti di vista diversi da quelli del rabbinato italiano e analoghi al nostro, e per incitare a un atteggiamento riflessivo. Ma i nostri sono invece alla ricerca di Papi ebrei, sia pure locali. Difatti affermano che non esistendo un Papa, «in Italia sono i Rabbini Italiani gli interlocutori tra le Chiese e l’Ebraismo». In altri termini, chi voglia dialogare o è un rabbino italiano o deve chiedere l’autorizzazione ai rabbini italiani perché solo loro sono “gli interlocutori”. E rafforzano questa tesi con l’affermazione secondo cui «a scanso di equivoci, è opportuno anche ricordare che il Rabbinato Italiano e i membri dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane sono i soli ufficiali responsabili della rappresentanza rispettivamente religiosa e civile degli ebrei italiani».
Si tratta di aun’affermazione estremamente radicale e avventata che rappresenta una vera e propria uscita dall’ebraismo per entrare nella sfera dell’integralismo. Giova ricordare ai firmatari della lettera che un rabbino è un maestro che deve conquistarsi autorità e rispetto con l’esempio e l’insegnamento e non è un’autorità che ha il potere (da chi e come conferito?) di essere l’unica rappresentante religiosa di tutta la comunità. Neppure il Papa è dotato di un simile potere. La pretesa che il Rabbinato sia più di un Papato, unico ufficiale rappresentante religioso degli ebrei e titolare esclusivo del diritto di esercitare il Dialogo con le altri fedi e del potere di autorizzare i “fedeli” a praticarlo o di vietare di praticarlo, è estranea alla tradizione di libertà di pensiero dell’ebraismo, esorbita dalle funzioni del rabbino – salvo noti casi storici che rappresentano per l’appunto esempi di degenerazione – e rappresenta un mortificante cedimento al peggiore fondamentalismo. È stupefacente che non ci si renda conto del carattere inaudito della pretesa di avere il potere di decidere chi, se e come possa parlare o non parlare con altri. Tanto più ciò è grave se, per imporre tale autorità, si ricorre al metodo di screditare chi dissente (civilmente e pacatamente) sul piano morale: anche questa è una procedura tipica del fondamentalismo.
È con severa determinazione che preghiamo i firmatari della lettera di desistere da un siffatto atteggiamento che può essere compreso soltanto come effetto di uno stato di agitazione emotiva.
Deve essere comunque estremamente chiaro che non esistono le condizioni per esercitarsi nel gioco della scomunica o della messa al bando. Il tono aggressivo e offensivo della lettera purtroppo lascia credere che qualcuno nutra una simile illusione. È bene sapere che, così come non ci siamo permessi di mettere sotto accusa nessuno, non ci lasceremo mettere sotto accusa da nessuno e tantomeno screditare sul piano morale, quale che sia l’autorità che l’accusatore presume di avere.
Guido Guastalla
Giorgio Israel
martedì 2 dicembre 2008
Il modo più sicuro per rinviare la riforma della scuola è fare un tavolo sulla riforma della scuola
È naturale che qualcuno pensi che un sistema dell’istruzione esausto come quello italiano possa riprendersi soltanto con riforme complessive. Non è così semplice. Da trent’anni la scuola italiana non conosce riforme organiche ma è investita da un processo ininterrotto di sperimentazioni che l’hanno sbrindellata in un arcipelago incontrollabile. Anche l’università ha subito una lunga serie di pesanti interventi che ne hanno mutato radicalmente il volto senza rispondere a un disegno organico. E allora – si dirà – è il momento di raccogliere i pezzi attorno a una riforma coerente e ispirata a un disegno preciso. Forse. In un altro paese. In un paese in cui la classe politica sia capace di imporre il suo primato e di decidere.
Certo, l’Italia di oggi non è il paese in cui Giovanni Gentile poteva mettersi da solo a tavolino e scrivere la riforma dell’istruzione: anche allora le cose non andarono così semplicemente. Tuttavia, per disegnare una riforma basta una direzione politica con idee e intenti chiari, circondata da un gruppo ristretto di persone competenti e ispirate ai medesimi intenti e idee. Non serve altro. Invece in Italia, per progettare la riforma anche di un settore minimo dell’istruzione occorrono commissioni su commissioni che debbono rispondere a una sterminata platea di “parti” interessate che si ritengono investite di un ruolo determinante e il cui parere è imprescindibile: sindacati, associazioni di categoria e professionali di esperti, insegnanti, genitori, studenti, amministrativi, e persino riviste specializzate. Ogni intervento deve “nascere dal basso”, in un processo di consultazione assembleare che deve coinvolgere attivamente tutti i “soggetti interessati”, pena la sua illegittimità. Questa visione assembleare della democrazia paralizza la politica e impedisce ogni decisione organica. Difatti, ogni processo riformatore che passa attraverso questo trattamento produce una veste d’Arlecchino di provvedimenti sconnessi, talora contraddittori sul piano culturale e, in certi casi, persino su quello giuridico.
Nelle scorse settimane abbiamo assistito agli effetti di questa visione: persino associazioni rispettabili di insegnanti si sono ribellate non per la sostanza dei provvedimenti governativi (che magari condividevano) ma per il metodo.
Da una simile condizione si può venir fuori soltanto in due modi: con un processo rapido ma altamente traumatico oppure con un’opera culturale di medio e lungo periodo. Poiché la prima via è preclusa in un paese così poco thatcheriano come l’Italia, resta la seconda. Ma per ottenere qualche risultato occorre che, accanto all’azione culturale metodica e incessante, pochi e mirati provvedimenti legislativi indichino in modo inequivocabile la direzione che si vuol prendere. I provvedimenti recenti hanno avuto il merito di indicare, sia per la scuola che per l’università, la direzione del merito, del rigore, della responsabilità; e forse questo segnale può iniziare a riorientare la macchina nella direzione giusta. È l’unica speranza realistica (anche se flebile, molto flebile) di salvare il sistema italiano dell’istruzione.
Il realismo impone altre considerazioni. Noi abbiamo un sistema essenzialmente statale. Si può sperare in una situazione futura più equilibrata, ma chi pensa di risolvere le cose sul breve periodo puntando sul settore privato è un illuso. Occorre agire subito sul sistema che abbiamo, per quel che è. In tal senso, pensare di operare su un sistema statale come se fosse privato, “non facendo niente” – come ha suggerito Pietro Ichino – ovvero abbandonandolo alla selezione naturale operata dalla concorrenza, con l’ausilio di qualche processo di valutazione, è una colossale illusione. È la stessa illusione con cui la gestione degli ultimi decenni da parte della sinistra – inclusa quella del ministero Moratti che ha proseguito sugli stessi binari – ha condotto il sistema al collasso. Inutile ragionare in termini privatistici nei confronti di un sistema che non lo è, ricorrendo – come è stato detto – a un “mercato simulato”. Non a caso, da almeno venti anni assistiamo alla stessa macroscopica contraddizione: si prendono provvedimenti tesi a introdurre autonomia e concorrenza e poi si è costretti a tamponare con dirigismi abborracciati. Meglio guardare coraggiosamente in faccia il nodo: se vogliamo creare le condizioni per una concorrenza virtuosa in un sistema disastrato come questo, occorre crearle d’autorità. Inutile illudersi. A meno che non si ritenga possibile chiudere in un giorno i battenti dell’istruzione statale o venderla al settore privato.
Consideriamo la questione dell’autonomia, da tempo proposta come un toccasana. Sono state introdotte dosi massicce di autonomia nella scuola e nell’università. Un’autonomia falsa e sbagliata che è stata introdotta soltanto dove non poteva che produrre disastri. L’autonomia scolastica è stata usata per distruggere l’idea di “programma” e ha prodotto la corte dei miracoli dei Pof (piani di offerta formativa) in cui la matematica o l’italiano sono sullo stesso piano delle visite alle centrali del latte. Di contenuti dell’istruzione non si può più parlare perché questi vanno costruiti in “autonomia” in classe, e qui ha avuto una responsabilità storica l’ideologia pedagogica dell’autoapprendimento. Inoltre, per rafforzare l’autonomia i presidi sono stati pensati come “manager”, col risultato che il loro principale intento è di “promuovere” la scuola come se fosse un negozio, coprendo ogni magagna disciplinare e didattica pur di non macchiarne l’immagine e divenendo persino incapaci di sanzionare uno studente che picchia un insegnante o un insegnante razzista. E allora ci si pensi dieci volte prima di andare verso l’idea sconsiderata di un preside manager non insegnante; o verso l’assunzione dei docenti con concorsi interni d’istituto, con il prevedibile risultato di offrire un nuovo terreno di affari alla malavita organizzata. Ricominciamo piuttosto da disciplina, elevati livelli di apprendimento delle materie strategiche e programmi qualificati.
Si è parlato in abbondanza dei risultati dell’autonomia nell’università: 5500 corsi di laurea, 180.000 insegnamenti, un numero di docenti spropositato formato per lo più di generali; e come corrispettivo, l’indebitamento delle università e la caduta di livello culturale.
Come si può seriamente pensare di uscire, nell’immediato, da una situazione del genere se non intervenendo in modo draconiano a tagliare i Pof e i corsi universitari, per poi stabilire sulla base di un sistema risanato un nuovo corso riformatore che introduca una vera autonomia? Ma non l’autonomia dei contenuti! È nel quadro di una difesa del ruolo della scuola privata che il Papa si è di recente chiesto «se non gioverebbe alla qualità dell’insegnamento lo stimolante confronto tra centri formativi, nel rispetto dei programmi ministeriali validi per tutti». È mai possibile che proprio nel contesto statale e “laico” l’autonomia venga concepita secondo i canoni di un pedagogismo culturalmente allo sbando che predica che è in classe che va deciso se insegnare oppure no il teorema di Pitagora?
Un altro discorso delicatissimo è quello della valutazione. A sentire certi soloni esisterebbero metodi quantitativi di valutazione di valore scientifico indiscutibile e pronti per l’uso. Si può capire che parli così chi ha una ragione sociale da difendere ma qui è in gioco il futuro del paese. Mi limiterò a ricordare un recente documento prodotto da enti che s’intendono di numeri: la International Mathematical Union (IMU), l’International Council of Industrial and Applied Mathematics (ICIAM) e l’Institute of Mathematical Statistics (IMS). La tesi centrale è che sono «infondate» l’idea che «la valutazione della ricerca debba essere fatta usando metodi “semplici e oggettivi”» e la credenza che «le statistiche delle citazioni siano di per sé più accurate in quanto sostituiscono giudizi complessi con numeri semplici e quindi superano la possibile soggettività delle valutazioni»: «I numeri non sono di per sé superiori ai giudizi ponderati».
Sono noti gli effetti disastrosi di certi parametri di valutazione proposti dai docimologi. È inquietante vedere che ora ne vengano proposti altri non meno discutibili, per esempio con il conteggio dei crediti. Fermiamoci a ragionare e chediamoci se non sia più adeguato un sistema di valutazione per ispezioni (tipo l’Ofsted inglese). Comunque, è necessaria una riflessione seria e meditata prima che una miriade di spinte contraddittorie e avventate porti a fabbricare l’ennesima veste di Arlecchino.
(Il Foglio, 29 novembre 2008)
Certo, l’Italia di oggi non è il paese in cui Giovanni Gentile poteva mettersi da solo a tavolino e scrivere la riforma dell’istruzione: anche allora le cose non andarono così semplicemente. Tuttavia, per disegnare una riforma basta una direzione politica con idee e intenti chiari, circondata da un gruppo ristretto di persone competenti e ispirate ai medesimi intenti e idee. Non serve altro. Invece in Italia, per progettare la riforma anche di un settore minimo dell’istruzione occorrono commissioni su commissioni che debbono rispondere a una sterminata platea di “parti” interessate che si ritengono investite di un ruolo determinante e il cui parere è imprescindibile: sindacati, associazioni di categoria e professionali di esperti, insegnanti, genitori, studenti, amministrativi, e persino riviste specializzate. Ogni intervento deve “nascere dal basso”, in un processo di consultazione assembleare che deve coinvolgere attivamente tutti i “soggetti interessati”, pena la sua illegittimità. Questa visione assembleare della democrazia paralizza la politica e impedisce ogni decisione organica. Difatti, ogni processo riformatore che passa attraverso questo trattamento produce una veste d’Arlecchino di provvedimenti sconnessi, talora contraddittori sul piano culturale e, in certi casi, persino su quello giuridico.
Nelle scorse settimane abbiamo assistito agli effetti di questa visione: persino associazioni rispettabili di insegnanti si sono ribellate non per la sostanza dei provvedimenti governativi (che magari condividevano) ma per il metodo.
Da una simile condizione si può venir fuori soltanto in due modi: con un processo rapido ma altamente traumatico oppure con un’opera culturale di medio e lungo periodo. Poiché la prima via è preclusa in un paese così poco thatcheriano come l’Italia, resta la seconda. Ma per ottenere qualche risultato occorre che, accanto all’azione culturale metodica e incessante, pochi e mirati provvedimenti legislativi indichino in modo inequivocabile la direzione che si vuol prendere. I provvedimenti recenti hanno avuto il merito di indicare, sia per la scuola che per l’università, la direzione del merito, del rigore, della responsabilità; e forse questo segnale può iniziare a riorientare la macchina nella direzione giusta. È l’unica speranza realistica (anche se flebile, molto flebile) di salvare il sistema italiano dell’istruzione.
Il realismo impone altre considerazioni. Noi abbiamo un sistema essenzialmente statale. Si può sperare in una situazione futura più equilibrata, ma chi pensa di risolvere le cose sul breve periodo puntando sul settore privato è un illuso. Occorre agire subito sul sistema che abbiamo, per quel che è. In tal senso, pensare di operare su un sistema statale come se fosse privato, “non facendo niente” – come ha suggerito Pietro Ichino – ovvero abbandonandolo alla selezione naturale operata dalla concorrenza, con l’ausilio di qualche processo di valutazione, è una colossale illusione. È la stessa illusione con cui la gestione degli ultimi decenni da parte della sinistra – inclusa quella del ministero Moratti che ha proseguito sugli stessi binari – ha condotto il sistema al collasso. Inutile ragionare in termini privatistici nei confronti di un sistema che non lo è, ricorrendo – come è stato detto – a un “mercato simulato”. Non a caso, da almeno venti anni assistiamo alla stessa macroscopica contraddizione: si prendono provvedimenti tesi a introdurre autonomia e concorrenza e poi si è costretti a tamponare con dirigismi abborracciati. Meglio guardare coraggiosamente in faccia il nodo: se vogliamo creare le condizioni per una concorrenza virtuosa in un sistema disastrato come questo, occorre crearle d’autorità. Inutile illudersi. A meno che non si ritenga possibile chiudere in un giorno i battenti dell’istruzione statale o venderla al settore privato.
Consideriamo la questione dell’autonomia, da tempo proposta come un toccasana. Sono state introdotte dosi massicce di autonomia nella scuola e nell’università. Un’autonomia falsa e sbagliata che è stata introdotta soltanto dove non poteva che produrre disastri. L’autonomia scolastica è stata usata per distruggere l’idea di “programma” e ha prodotto la corte dei miracoli dei Pof (piani di offerta formativa) in cui la matematica o l’italiano sono sullo stesso piano delle visite alle centrali del latte. Di contenuti dell’istruzione non si può più parlare perché questi vanno costruiti in “autonomia” in classe, e qui ha avuto una responsabilità storica l’ideologia pedagogica dell’autoapprendimento. Inoltre, per rafforzare l’autonomia i presidi sono stati pensati come “manager”, col risultato che il loro principale intento è di “promuovere” la scuola come se fosse un negozio, coprendo ogni magagna disciplinare e didattica pur di non macchiarne l’immagine e divenendo persino incapaci di sanzionare uno studente che picchia un insegnante o un insegnante razzista. E allora ci si pensi dieci volte prima di andare verso l’idea sconsiderata di un preside manager non insegnante; o verso l’assunzione dei docenti con concorsi interni d’istituto, con il prevedibile risultato di offrire un nuovo terreno di affari alla malavita organizzata. Ricominciamo piuttosto da disciplina, elevati livelli di apprendimento delle materie strategiche e programmi qualificati.
Si è parlato in abbondanza dei risultati dell’autonomia nell’università: 5500 corsi di laurea, 180.000 insegnamenti, un numero di docenti spropositato formato per lo più di generali; e come corrispettivo, l’indebitamento delle università e la caduta di livello culturale.
Come si può seriamente pensare di uscire, nell’immediato, da una situazione del genere se non intervenendo in modo draconiano a tagliare i Pof e i corsi universitari, per poi stabilire sulla base di un sistema risanato un nuovo corso riformatore che introduca una vera autonomia? Ma non l’autonomia dei contenuti! È nel quadro di una difesa del ruolo della scuola privata che il Papa si è di recente chiesto «se non gioverebbe alla qualità dell’insegnamento lo stimolante confronto tra centri formativi, nel rispetto dei programmi ministeriali validi per tutti». È mai possibile che proprio nel contesto statale e “laico” l’autonomia venga concepita secondo i canoni di un pedagogismo culturalmente allo sbando che predica che è in classe che va deciso se insegnare oppure no il teorema di Pitagora?
Un altro discorso delicatissimo è quello della valutazione. A sentire certi soloni esisterebbero metodi quantitativi di valutazione di valore scientifico indiscutibile e pronti per l’uso. Si può capire che parli così chi ha una ragione sociale da difendere ma qui è in gioco il futuro del paese. Mi limiterò a ricordare un recente documento prodotto da enti che s’intendono di numeri: la International Mathematical Union (IMU), l’International Council of Industrial and Applied Mathematics (ICIAM) e l’Institute of Mathematical Statistics (IMS). La tesi centrale è che sono «infondate» l’idea che «la valutazione della ricerca debba essere fatta usando metodi “semplici e oggettivi”» e la credenza che «le statistiche delle citazioni siano di per sé più accurate in quanto sostituiscono giudizi complessi con numeri semplici e quindi superano la possibile soggettività delle valutazioni»: «I numeri non sono di per sé superiori ai giudizi ponderati».
Sono noti gli effetti disastrosi di certi parametri di valutazione proposti dai docimologi. È inquietante vedere che ora ne vengano proposti altri non meno discutibili, per esempio con il conteggio dei crediti. Fermiamoci a ragionare e chediamoci se non sia più adeguato un sistema di valutazione per ispezioni (tipo l’Ofsted inglese). Comunque, è necessaria una riflessione seria e meditata prima che una miriade di spinte contraddittorie e avventate porti a fabbricare l’ennesima veste di Arlecchino.
(Il Foglio, 29 novembre 2008)
sabato 29 novembre 2008
Memento sulla valutazione
La Commissione Scientifica dell'Unione Matematica Italiana esprime il
suo apprezzamento per il progetto del Ministero dell'Istruzione,
dell'Università e della Ricerca di individuare criteri
internazionalmente riconosciuti per la valutazione dei titoli e delle
pubblicazioni nelle procedure comparative per il reclutamento dei
ricercatori e dei professori universitari. Nel recente passato criteri
di questo genere erano già stati adottati in maniera autonoma dalla
stragrande maggioranza delle commissioni dei settori MAT/*.
Rileva però che nessun criterio basato unicamente su indicatori
numerici di tipo statistico può sostituirsi al giudizio scientifico
motivato da parte di un gruppo di esperti. In una pubblicazione
esauriente e ben documentata [1], l'International Mathematical Union,
l'International Council of Industrial and Applied Mathematics e
l'Institute for Mathematical Statistics, massimi organi scientifici
della comunità matematica a livello mondiale, hanno sostenuto di
recente che nessun gruppo di parametri basati esclusivamente su dati
bibliometrici (numero di citazioni, indice H, impact factor delle
riviste su cui compaiono le pubblicazioni) può, da solo, dare
risultati affidabili nella valutazione dell'attività scientifica, pur
costituendo un utile elemento di giudizio.
La Commissione Scientifica dell'Unione Matematica Italiana auspica
quindi che tra i parametri che verranno individuati dal Ministero
figurino, in posizione predominante, la qualità, l'originalità, il
rilievo e la persistenza dei risultati scientifici ottenuti dai
candidati. Sulla base dell'esperienza internazionale, tali parametri
non possono essere calcolati automaticamente a partire da dati
statistici, ma possono essere determinati soltanto sulla base del
parere di un gruppo di esperti della materia, che si assume la
responsabilità del giudizio scientifico. Nel caso delle valutazioni
comparative per il reclutamento dei ricercatori, la soluzione più
naturale è affidare questo compito alla stessa commissione
giudicatrice, che potrebbe, ove lo ritenesse opportuno, richiedere il
parere di riconosciuti esperti internazionali.
La Commissione Scientifica dell'Unione Matematica Italiana fa infine
notare che, nelle istituzioni scientifiche internazionali, prima della
decisione finale i candidati migliori vengono convocati per un
colloquio, permettendo così una valutazione diretta delle loro
capacità di esporre i propri risultati e di discutere i problemi della
propria disciplina. Auspica quindi che le nuove norme per il
reclutamento dei ricercatori universitari continuino a prevedere
questa possibilità.
NOTE
[1] R. Adler, J. Ewing, P. Taylor: Citation Statistics, International
Mathematical Union, International Council of Industrial and Applied
Mathematics, Institute for Mathematical Statistics, June 2008.
suo apprezzamento per il progetto del Ministero dell'Istruzione,
dell'Università e della Ricerca di individuare criteri
internazionalmente riconosciuti per la valutazione dei titoli e delle
pubblicazioni nelle procedure comparative per il reclutamento dei
ricercatori e dei professori universitari. Nel recente passato criteri
di questo genere erano già stati adottati in maniera autonoma dalla
stragrande maggioranza delle commissioni dei settori MAT/*.
Rileva però che nessun criterio basato unicamente su indicatori
numerici di tipo statistico può sostituirsi al giudizio scientifico
motivato da parte di un gruppo di esperti. In una pubblicazione
esauriente e ben documentata [1], l'International Mathematical Union,
l'International Council of Industrial and Applied Mathematics e
l'Institute for Mathematical Statistics, massimi organi scientifici
della comunità matematica a livello mondiale, hanno sostenuto di
recente che nessun gruppo di parametri basati esclusivamente su dati
bibliometrici (numero di citazioni, indice H, impact factor delle
riviste su cui compaiono le pubblicazioni) può, da solo, dare
risultati affidabili nella valutazione dell'attività scientifica, pur
costituendo un utile elemento di giudizio.
La Commissione Scientifica dell'Unione Matematica Italiana auspica
quindi che tra i parametri che verranno individuati dal Ministero
figurino, in posizione predominante, la qualità, l'originalità, il
rilievo e la persistenza dei risultati scientifici ottenuti dai
candidati. Sulla base dell'esperienza internazionale, tali parametri
non possono essere calcolati automaticamente a partire da dati
statistici, ma possono essere determinati soltanto sulla base del
parere di un gruppo di esperti della materia, che si assume la
responsabilità del giudizio scientifico. Nel caso delle valutazioni
comparative per il reclutamento dei ricercatori, la soluzione più
naturale è affidare questo compito alla stessa commissione
giudicatrice, che potrebbe, ove lo ritenesse opportuno, richiedere il
parere di riconosciuti esperti internazionali.
La Commissione Scientifica dell'Unione Matematica Italiana fa infine
notare che, nelle istituzioni scientifiche internazionali, prima della
decisione finale i candidati migliori vengono convocati per un
colloquio, permettendo così una valutazione diretta delle loro
capacità di esporre i propri risultati e di discutere i problemi della
propria disciplina. Auspica quindi che le nuove norme per il
reclutamento dei ricercatori universitari continuino a prevedere
questa possibilità.
NOTE
[1] R. Adler, J. Ewing, P. Taylor: Citation Statistics, International
Mathematical Union, International Council of Industrial and Applied
Mathematics, Institute for Mathematical Statistics, June 2008.
mercoledì 26 novembre 2008
EBREI E CRISTIANI: IL DIALOGO NON VA ROTTO
(Corriere della Sera, 26 novrembre 2008)
In quanto ebrei italiani impegnati da tempo nel dialogo ebraico-cristiano, pur rispettando le decisioni prese il 17 novembre dall’Assemblea dei Rabbini d’Italia, esprimiamo il nostro profondo dissenso da ogni tentativo di imporre la rottura di tale dialogo e ci impegniamo a proseguirlo sia con gruppi religiosi e laici sia con strutture riconducibili alle autorità ecclesiastiche.
La reintroduzione, nella preghiera in latino del venerdì precedente la Pasqua cristiana, della speranza di “illuminazione” per i fratelli ebrei è un fatto, peraltro circoscritto, al quale è seguita una spiegazione autorevole che ha fatto affermare al presidente dell’International Jewish Committee, Rabbino David Rosen: «Siamo molto grati per le chiarificazioni che abbiamo ricevuto dal Cardinale Kasper reiterate dal Cardinale Bertone nella sua lettera al Rabbino Capo di Israele, che affermavano che questa preghiera ha una natura escatologica e in nessun modo riflette nessuna presa di posizione di proselitismo nei confronti degli Ebrei».
Il Talmud insegna che le spiegazioni e i chiarimenti sono ancor più importanti delle affermazioni del testo: ne rappresentano il completamento e mirano alla loro corretta interpretazione. Queste spiegazioni, e gli atti conseguenti, come le reiterate dichiarazioni del Papa contro l’antisemitismo, di amicizia e di affetto nei confronti degli Ebrei, ci inducono e ci convincono a considerare circoscritta e risolta la discussione, sia pur legittima, seguita alla reintroduzione nella preghiera in latino.
Il dialogo e l’amicizia ebraico-cristiana sono troppo importanti – soprattutto nel contesto di una crisi etica di dimensioni planetarie e di fronte alla minaccia del fondamentalismo di matrice islamica – perché si possa pensare di interromperli o di attenuarli delimitando le modalità e gli interlocutori da prescegliere.
Fin dalla metà dell’Ottocento insigni studiosi e rabbini hanno posto, in condizioni ben più difficili delle attuali, l’obbiettivo del dialogo ebraico-cristiano, nell’intento di superare secoli di persecuzioni, di teologia della sostituzione e di quello che Jules Isaac chiamò “l’insegnamento del disprezzo”. Il grande rabbino livornese Elia Benamozegh scriveva: «La conciliazione sognata dai primi cristiani come una condizione dalla Parusia o avvento finale di Gesù, il ritorno degli ebrei nel grembo della Chiesa … si effettuerà in verità non nel modo in cui si è voluto attenderla, ma nel solo modo serio, logico e durevole, soprattutto nella sola maniera vantaggiosa per la nostra specie. Sarà come lo dipinge l’ultimo dei profeti, il sigillo dei veggenti, come i dottori chiamano Malachia, un ritorno del cuore dei figli ai loro padri e di quello dei padri ai loro figli, vale a dire dell’ebraismo e delle religioni che ne sono derivate».
Noi crediamo che, se crescerà la capacità di ascolto, i figli di Israele e i figli della Chiesa giungeranno dopo duemila anni di incomprensioni a quella riconciliazione nella differenza, la cui importanza e urgenza deve essere riconosciuta da ogni uomo responsabile.
In una recente lettera il Papa Benedetto XVI ha osservato che «un dialogo interreligioso nel senso stretto della parola non è possibile senza mettere tra parentesi la propria fede», mentre è invece necessario «affrontare nel confronto pubblico le conseguenze culturali delle decisioni religiose di fondo» e «qui il dialogo e una mutua correzione e un arricchimento vicendevole sono possibili e necessari». Questo è un approccio che prefigura una forma di dialogo corretto, alieno da confusi sincretismi e tentativi di riappropriazione, e volto a promuovere la dimensione religiosa nella sfera pubblica. Questo obbiettivo è fondamentale per l’ebraismo. Vogliamo ricordare, al riguardo, Isaia quando afferma: «È troppo poco che tu sia mio servo per ristabilire le tribù di Giacobbe e ricondurre i superstiti di Israele. Voglio fare di te la luce delle genti onde tu porti la mia salvezza fino all’estremità della terra» (Isaia, 49,6).
Ebraismo e cristianesimo sono legati da vincoli assolutamente speciali, e questo fatto ha reso ancor più dolorose le vicende dei due millenni passati. È un terreno che rende particolarmente necessario, importante e proficuo il dialogo. Nel 2001 il Cardinale Ratzinger, scriveva ne “Il popolo ebraico e le sue Sacre scritture nella Bibbia cristiana”: «È chiaro che un congedo dei cristiani dall’Antico Testamento non solo avrebbe la conseguenza di dissolvere lo stesso cristianesimo, ma non potrebbe neppure essere utile a un rapporto positivo tra cristiani ed ebrei, perché sarebbe loro sottratto proprio il fondamento comune».
Su questo sentiero ormai largo e agevole, in questo campo dissodato, va proseguito il dialogo, secondo le parole del salmista: «Ecco, come è bello e come è dolce sedere fra fratelli che vivono d’accordo!….Perché il Signore vi ha imposto la benedizione e la vita per sempre» (Salmo, 133, 1-3).
Guido Guastalla
Assessore alla cultura della Comunità ebraica di Livorno
Giorgio Israel
Professore all’Università di Roma “La Sapienza”
In quanto ebrei italiani impegnati da tempo nel dialogo ebraico-cristiano, pur rispettando le decisioni prese il 17 novembre dall’Assemblea dei Rabbini d’Italia, esprimiamo il nostro profondo dissenso da ogni tentativo di imporre la rottura di tale dialogo e ci impegniamo a proseguirlo sia con gruppi religiosi e laici sia con strutture riconducibili alle autorità ecclesiastiche.
La reintroduzione, nella preghiera in latino del venerdì precedente la Pasqua cristiana, della speranza di “illuminazione” per i fratelli ebrei è un fatto, peraltro circoscritto, al quale è seguita una spiegazione autorevole che ha fatto affermare al presidente dell’International Jewish Committee, Rabbino David Rosen: «Siamo molto grati per le chiarificazioni che abbiamo ricevuto dal Cardinale Kasper reiterate dal Cardinale Bertone nella sua lettera al Rabbino Capo di Israele, che affermavano che questa preghiera ha una natura escatologica e in nessun modo riflette nessuna presa di posizione di proselitismo nei confronti degli Ebrei».
Il Talmud insegna che le spiegazioni e i chiarimenti sono ancor più importanti delle affermazioni del testo: ne rappresentano il completamento e mirano alla loro corretta interpretazione. Queste spiegazioni, e gli atti conseguenti, come le reiterate dichiarazioni del Papa contro l’antisemitismo, di amicizia e di affetto nei confronti degli Ebrei, ci inducono e ci convincono a considerare circoscritta e risolta la discussione, sia pur legittima, seguita alla reintroduzione nella preghiera in latino.
Il dialogo e l’amicizia ebraico-cristiana sono troppo importanti – soprattutto nel contesto di una crisi etica di dimensioni planetarie e di fronte alla minaccia del fondamentalismo di matrice islamica – perché si possa pensare di interromperli o di attenuarli delimitando le modalità e gli interlocutori da prescegliere.
Fin dalla metà dell’Ottocento insigni studiosi e rabbini hanno posto, in condizioni ben più difficili delle attuali, l’obbiettivo del dialogo ebraico-cristiano, nell’intento di superare secoli di persecuzioni, di teologia della sostituzione e di quello che Jules Isaac chiamò “l’insegnamento del disprezzo”. Il grande rabbino livornese Elia Benamozegh scriveva: «La conciliazione sognata dai primi cristiani come una condizione dalla Parusia o avvento finale di Gesù, il ritorno degli ebrei nel grembo della Chiesa … si effettuerà in verità non nel modo in cui si è voluto attenderla, ma nel solo modo serio, logico e durevole, soprattutto nella sola maniera vantaggiosa per la nostra specie. Sarà come lo dipinge l’ultimo dei profeti, il sigillo dei veggenti, come i dottori chiamano Malachia, un ritorno del cuore dei figli ai loro padri e di quello dei padri ai loro figli, vale a dire dell’ebraismo e delle religioni che ne sono derivate».
Noi crediamo che, se crescerà la capacità di ascolto, i figli di Israele e i figli della Chiesa giungeranno dopo duemila anni di incomprensioni a quella riconciliazione nella differenza, la cui importanza e urgenza deve essere riconosciuta da ogni uomo responsabile.
In una recente lettera il Papa Benedetto XVI ha osservato che «un dialogo interreligioso nel senso stretto della parola non è possibile senza mettere tra parentesi la propria fede», mentre è invece necessario «affrontare nel confronto pubblico le conseguenze culturali delle decisioni religiose di fondo» e «qui il dialogo e una mutua correzione e un arricchimento vicendevole sono possibili e necessari». Questo è un approccio che prefigura una forma di dialogo corretto, alieno da confusi sincretismi e tentativi di riappropriazione, e volto a promuovere la dimensione religiosa nella sfera pubblica. Questo obbiettivo è fondamentale per l’ebraismo. Vogliamo ricordare, al riguardo, Isaia quando afferma: «È troppo poco che tu sia mio servo per ristabilire le tribù di Giacobbe e ricondurre i superstiti di Israele. Voglio fare di te la luce delle genti onde tu porti la mia salvezza fino all’estremità della terra» (Isaia, 49,6).
Ebraismo e cristianesimo sono legati da vincoli assolutamente speciali, e questo fatto ha reso ancor più dolorose le vicende dei due millenni passati. È un terreno che rende particolarmente necessario, importante e proficuo il dialogo. Nel 2001 il Cardinale Ratzinger, scriveva ne “Il popolo ebraico e le sue Sacre scritture nella Bibbia cristiana”: «È chiaro che un congedo dei cristiani dall’Antico Testamento non solo avrebbe la conseguenza di dissolvere lo stesso cristianesimo, ma non potrebbe neppure essere utile a un rapporto positivo tra cristiani ed ebrei, perché sarebbe loro sottratto proprio il fondamento comune».
Su questo sentiero ormai largo e agevole, in questo campo dissodato, va proseguito il dialogo, secondo le parole del salmista: «Ecco, come è bello e come è dolce sedere fra fratelli che vivono d’accordo!….Perché il Signore vi ha imposto la benedizione e la vita per sempre» (Salmo, 133, 1-3).
Guido Guastalla
Assessore alla cultura della Comunità ebraica di Livorno
Giorgio Israel
Professore all’Università di Roma “La Sapienza”
sabato 22 novembre 2008
Un articolo per il mensile ebraico Shalom
La copertina di Shalom di Ottobre (“La nuova riforma scolastica e il modello educativo ebraico”) dietro cui vi sono solo giudizi negativi dei provvedimenti del governo in tema di scuola, nonché l’aspro attacco contenuto nel “giornale per i giovani”, potrebbero far credere che il mondo ebraico sia schierato compattamente contro tali provvedimenti in nome di una loro incompatibilità con la visione ebraica dell’educazione. Tutto ciò è privo del minimo fondamento.
«È semplice smontare una scuola che funziona» dichiara Clotilde Pontecorvo, riproponendo il consunto slogan di una scuola primaria italiana tra le migliori del mondo. Lo era, non lo è più. La scuola elementare italiana, di cui i disinformati vantano l’ininterrotta eccellenza da più di mezzo secolo, è in realtà il segmento scolastico più rivoluzionato dal 1985 in poi. Oggi i test parlano di drammatiche carenze matematiche e linguistiche dei nostri adolescenti. È ragionevole pensare che chi avrebbe appreso perfettamente a leggere, scrivere e far di conto nelle primarie diventi improvvisamente un semianalfabeta incapace dei calcoli più elementari per sola colpa delle scuole secondarie? Non è ragionevole. Difatti, i test Ocse favorevoli alle nostre scuole primarie riguardano soltanto l’impiego di risorse, in cui primeggiamo per via delle spese per stipendi (numerosi e miseri), mentre i test che valutano gli apprendimenti (Timss e Pirls) sono molto parziali e indicano comunque un cattivo livello per la matematica e le scienze (sedicesimo posto su 25!).
Le riforme dal 1985 e l’introduzione del maestro plurimo – un’innovazione che è una singolarità tutta italiana, dettata dall’esigenza di assumere precari, ovvero dall’uso deleterio della scuola come ammortizzatore sociale – hanno prodotto una grottesca moltiplicazione delle materie e delle attività, in un appiattimento generale che pone le lezioni di matematica allo stesso livello di quelle di ceramica. Un educatore serio deve prestare attenzione alle proteste dei maestri che sono sommersi dalla miriade di progetti inclusi nei famigerati POF (piani di offerta formativa): mostre, teatro, canti, balli, progetti “voce che canta” o “voce che parla”, interventi psicologici; oltre alla pioggia corsi di aggiornamento per l’autoapprendimento, la sicurezza, la prevenzione incendi, la privacy, e le riunioni per la pianificazione didattica. Come ha scritto di recente una maestra, «è concesso di fare tutto (animatore, ballerino, artista, vigile del fuoco, agente della sicurezza, crocerossina, occultatore dell’ignoranza degli alunni), tutto tranne l’insegnante». E non è certamente un’opinione isolata! In questa sagra caotica le materie basilari vanno a farsi benedire e non stupisce che gli obbiettivi di apprendimento della primaria italiana facciano pietà rispetto a quelli della scuola indiana (in cui le tabelline vengono apprese entro la fine delle scuole materne mentre in Italia soltanto alla fine della terza elementare).
La nuova scuola primaria italiana è la realizzazione di un’ideologia pedagogica i cui capisaldi possono essere così riassunti. La pedagogia non è un’arte bensì una scienza rigorosa ed esatta al pari delle scienze fisico-matematiche e che deve seguire regole codificate (è una visione che deriva dalle concezioni di John Dewey). Quel che conta non è tanto ciò che si apprende quanto il metodo, ovvero l’“apprendere ad apprendere”. Poiché allo studente non vanno trasmesse conoscenze, bensì la capacità di apprendere, l’insegnante deve trasformarsi in “facilitatore” del processo di autoapprendimento. Inutile dire che l’unico che conserva il diritto di “insegnare” in modo trasmissivo (ex-cathedra) è il pedagogista…
Da questa visione discendono varie conseguenze. In primo luogo, la svalutazione delle conoscenze a vantaggio delle “competenze”, in nome dell’impostazione metodologica della scuola. Poco importa quanto gli studenti sappiano. Importa quel che sanno fare. Come se fosse possibile apprendere un metodo senza costruirlo su contenuti. È istruttivo leggere i programmi (o indicazioni nazionali) che sono frutto di queste teorie, le quali hanno dominato incontrastate durante tutti gli ultimi ministeri, da Berlinguer a Moratti a Fioroni. La matematica è vista come una disciplina empirica, e i bambini debbono apprenderla attraverso assurde pratiche di disegni, colori e manualità che deprimono lo sviluppo delle capacità di calcolo mentale. La storia è intesa come lo studio della nozione astratta di «temporalità». Il bambino è sottoposto per anni alla tortura del «riconoscimento delle relazioni di successione e contemporaneità», dei «cicli temporali» (dando per ovvio che la storia si sviluppi per cicli!), delle «permanenze». Gli si propone di «rappresentare» i pochissimi fatti di storia reale appresi «mediante grafismi, racconti orali e disegni» per poi addirittura comporre piccoli testi di storia. La geografia è intesa come lo studio della spazialità, del «sopra, sotto, avanti, dietro, sinistra, destra» (ridicolmente definiti da qualche ignorante «organizzatori topologici»), per arrivare addirittura a «costruire le proprie geografie» (sic!). Come stupirsi se da una simile accozzaglia di idee tanto sgangherate quanto pretenziose escano bambini con insufficienze conoscitive drammatiche? Tutto ciò è conseguenza della scelta deliberata, per dirla con Jean-François Revel, secondo cui «la scuola non deve avere come funzione la trasmissione della conoscenza».
Già quaranta anni fa Hannah Arendt aveva lucidamente previsto i disastri cui avrebbe condotto questa visione pedagogica, da lei definita «un incredibile guazzabuglio di idee sensate e di assurdità». Arendt denunciava l’aver messo «del tutto da parte ogni regola di sano giudizio umano, per amore di certe teorie, buone o cattive che fossero. […] Influenzata dalla psicologia moderna e dai dogmi del pragmatismo la pedagogia si è trasformata in una scienza dell’insegnamento in genere, fino a rendersi del tutto indipendente dalla materia che di fatto s’insegna». E proseguiva osservando che la sostituzione della conoscenza con la pratica e la metodologia era conseguenza di un mediocre pragmatismo secondo cui «si può conoscere e capire soltanto ciò che si è fatto da sé. Applicato all’istruzione ciò significa, in termini primitivi quanto ovvi, che l’imparare viene per quanto possibile sostituito dal fare. Non si dà alcun valore alla padronanza della materia da parte del professore proprio per costringerlo a proseguire nell’attività dell’apprendimento, così da non trasmettere, come si dice, delle “morte nozioni”, bensì essere continuamente teso a mostrare il processo produttivo della conoscenza. L’intenzione consapevole non è d’insegnare una conoscenza ma di inculcare una tecnica».
A ciò corrisponde una visione dell’insegnante che è – per dirla con Arendt – «una persona che può semplicemente insegnare qualsiasi cosa, perché la sua formazione è nell’insegnare, non nel dominio di un qualsiasi materia particolare». Non a caso il processo di formazione degli insegnanti è stato imperniato soprattutto sulle metodologie pedagogico-didattiche. Nel caso dei maestri italiani si sono raggiunti livelli esasperati. Oggi ci si può laureare maestro senza competenze disciplinari specifiche. In certi corsi di laurea le materie sono soltanto di tipo psico-pedadogico-relazionale o di pedagogia “speciale” (che si occupa del sostegno ai disabili) e i corsi di didattica della matematica o della storia (non matematica o storia!) sono opzionali con pediatria o neuropsichiatria infantile… Definire “specializzato” un siffatto maestro è una presa in giro. Oggi la scuola primaria galleggia per l’impegno di maestri anziani o di giovani che coltivano interessi disciplinari a dispetto dei cattivi insegnamenti che hanno ricevuto. Pertanto polemizzare contro il maestro prevalente in nome di un inesistente maestro plurimo “specializzato” è una mistificazione. D’altra parte, è curioso che chi difende l’idea di un insegnante metodologo auspichi la specializzazione disciplinare proprio nelle elementari, laddove meno se ne sente la necessità. In realtà si tratta di una foglia di fico culturale per giustificare le politiche di assunzioni di massa.
È invece molto più sensata la figura di un insegnante prevalente, dotato delle conoscenze basilari atte a introdurre sinteticamente il bambino al mondo simbolico, che è quello delle lettere e dei numeri, non a caso nati insieme seimila anni fa. La scomposizione in termini disciplinari degli aspetti linguistico e matematico proprio nella fase formativa elementare è un errore pedagogico banale.
Dice Pontecorvo che questa è una scuola che integra i disabili ed è accogliente. Purché si dica che ciò accade nell’ottica del più ipocrita politicamente corretto, concependo come “diversità” ogni disabilità (siamo tutti “diversi”, siamo tutti “speciali”) e raccogliendo nella stessa categoria disabili propriamente detti con immigrati, rom e, secondo alcuni, anche ebrei. In tal modo si crede di normalizzare la disabilità riducendo ogni condizione a una forma di disabilità e trasformando la scuola elementare in un immenso deposito di “diversità” in cui il maestro opera come un infermiere-psicologo.
Clotilde Pontecorvo critica inoltre la reintroduzione del voto in decimi osservando giustamente che le valutazioni non sono mai misurazioni quantitative precise. Ma non la racconta giusta quando fa credere che la docimologia spieghi che una misurazione esatta delle competenze è impossibile. Il contrario è vero. È la docimologia che persegue l’obbiettivo impossibile della “misurazione delle qualità” e pretende di introdurre criteri di valutazione “oggettivi” ricorrendo a principi che suscitano l’ilarità di chiunque abbia una preparazione scientifica seria, come la distribuzione gaussiana delle competenze. Al contrario, il voto in decimi mira a esprimere una valutazione comparativa qualitativa in modo più semplice e diretto di giudizi verbali spesso espressi con locuzioni farraginose e vaniloquenti e senza concedere alla pretesa di raggiungere per via docimologica la misurazione “esatta” della competenze.
Infine, Clotilde Pontecorvo accusa il ministro Gelmini di non avere sensibilità per le elaborazioni pedagogiche di tipo educativo e di non avere letto John Dewey, don Milani o il “Poema pedagogico” di Makarenko. È bizzarra l’idea che la lettura di un testo debba produrre automaticamente un atteggiamento consenziente. Sotto questo profilo Hannah Arendt dovrebbe essere considerata peggio del ministro Gelmini, per la disistima che nutriva nei confronti della pedagogia alla Dewey. Non oso immaginare cosa avrebbe detto di don Milani e di Makarenko… Quest’ultimo riferimento è significativo. Soltanto chi non crede che l’educazione sia in primo luogo un rapporto tra persone, e non la gestione di un collettivo, può vedere un riferimento positivo in un pedagogista sovietico che concepiva l’uomo come un mero prodotto sociale e l’educazione in senso collettivistico; che creò e gestì la colonia Dzeržinskij, così denominata per onorare il truce creatore della polizia politica sovietica Ceka, e che ha attraversato intatto tutte le purghe staliniane sull’altare della reputazione di educatore bolscevico per eccellenza.
Cosa abbia a che fare tutto ciò con il modello educativo ebraico riesce difficile comprendere. Se c’è qualcosa che caratterizza la vita ebraica è lo studio e certamente non nel senso dell’autoformazione, bensì dell’acquisizione della conoscenza accumulata su cui ogni persona deve “salire” per poter avanzare. Che cos’è il Talmud se non un immenso e inesauribile deposito di conoscenze che ognuno, nella sua vita, è chiamato a studiare incessantemente e ad acquisire per potere andare oltre? È uno studio basato sulla figura del maestro – maestro di conoscenze e non metodologo puro. Vi è poi la centralità della famiglia, senza cui non è pensabile neppure la vita religiosa ebraica. Una siffatta centralità è incompatibile con una visione che vede l’educazione come un rapporto tra istituzione educante e collettivo educato e annulla il ruolo del singolo e della famiglia. Tra Makarenko-don Milani e la visione educativa ebraica corre un abisso incolmabile. Non è una buona idea schierare l’ebraismo su simili fronti per motivi meramente politici.
«È semplice smontare una scuola che funziona» dichiara Clotilde Pontecorvo, riproponendo il consunto slogan di una scuola primaria italiana tra le migliori del mondo. Lo era, non lo è più. La scuola elementare italiana, di cui i disinformati vantano l’ininterrotta eccellenza da più di mezzo secolo, è in realtà il segmento scolastico più rivoluzionato dal 1985 in poi. Oggi i test parlano di drammatiche carenze matematiche e linguistiche dei nostri adolescenti. È ragionevole pensare che chi avrebbe appreso perfettamente a leggere, scrivere e far di conto nelle primarie diventi improvvisamente un semianalfabeta incapace dei calcoli più elementari per sola colpa delle scuole secondarie? Non è ragionevole. Difatti, i test Ocse favorevoli alle nostre scuole primarie riguardano soltanto l’impiego di risorse, in cui primeggiamo per via delle spese per stipendi (numerosi e miseri), mentre i test che valutano gli apprendimenti (Timss e Pirls) sono molto parziali e indicano comunque un cattivo livello per la matematica e le scienze (sedicesimo posto su 25!).
Le riforme dal 1985 e l’introduzione del maestro plurimo – un’innovazione che è una singolarità tutta italiana, dettata dall’esigenza di assumere precari, ovvero dall’uso deleterio della scuola come ammortizzatore sociale – hanno prodotto una grottesca moltiplicazione delle materie e delle attività, in un appiattimento generale che pone le lezioni di matematica allo stesso livello di quelle di ceramica. Un educatore serio deve prestare attenzione alle proteste dei maestri che sono sommersi dalla miriade di progetti inclusi nei famigerati POF (piani di offerta formativa): mostre, teatro, canti, balli, progetti “voce che canta” o “voce che parla”, interventi psicologici; oltre alla pioggia corsi di aggiornamento per l’autoapprendimento, la sicurezza, la prevenzione incendi, la privacy, e le riunioni per la pianificazione didattica. Come ha scritto di recente una maestra, «è concesso di fare tutto (animatore, ballerino, artista, vigile del fuoco, agente della sicurezza, crocerossina, occultatore dell’ignoranza degli alunni), tutto tranne l’insegnante». E non è certamente un’opinione isolata! In questa sagra caotica le materie basilari vanno a farsi benedire e non stupisce che gli obbiettivi di apprendimento della primaria italiana facciano pietà rispetto a quelli della scuola indiana (in cui le tabelline vengono apprese entro la fine delle scuole materne mentre in Italia soltanto alla fine della terza elementare).
La nuova scuola primaria italiana è la realizzazione di un’ideologia pedagogica i cui capisaldi possono essere così riassunti. La pedagogia non è un’arte bensì una scienza rigorosa ed esatta al pari delle scienze fisico-matematiche e che deve seguire regole codificate (è una visione che deriva dalle concezioni di John Dewey). Quel che conta non è tanto ciò che si apprende quanto il metodo, ovvero l’“apprendere ad apprendere”. Poiché allo studente non vanno trasmesse conoscenze, bensì la capacità di apprendere, l’insegnante deve trasformarsi in “facilitatore” del processo di autoapprendimento. Inutile dire che l’unico che conserva il diritto di “insegnare” in modo trasmissivo (ex-cathedra) è il pedagogista…
Da questa visione discendono varie conseguenze. In primo luogo, la svalutazione delle conoscenze a vantaggio delle “competenze”, in nome dell’impostazione metodologica della scuola. Poco importa quanto gli studenti sappiano. Importa quel che sanno fare. Come se fosse possibile apprendere un metodo senza costruirlo su contenuti. È istruttivo leggere i programmi (o indicazioni nazionali) che sono frutto di queste teorie, le quali hanno dominato incontrastate durante tutti gli ultimi ministeri, da Berlinguer a Moratti a Fioroni. La matematica è vista come una disciplina empirica, e i bambini debbono apprenderla attraverso assurde pratiche di disegni, colori e manualità che deprimono lo sviluppo delle capacità di calcolo mentale. La storia è intesa come lo studio della nozione astratta di «temporalità». Il bambino è sottoposto per anni alla tortura del «riconoscimento delle relazioni di successione e contemporaneità», dei «cicli temporali» (dando per ovvio che la storia si sviluppi per cicli!), delle «permanenze». Gli si propone di «rappresentare» i pochissimi fatti di storia reale appresi «mediante grafismi, racconti orali e disegni» per poi addirittura comporre piccoli testi di storia. La geografia è intesa come lo studio della spazialità, del «sopra, sotto, avanti, dietro, sinistra, destra» (ridicolmente definiti da qualche ignorante «organizzatori topologici»), per arrivare addirittura a «costruire le proprie geografie» (sic!). Come stupirsi se da una simile accozzaglia di idee tanto sgangherate quanto pretenziose escano bambini con insufficienze conoscitive drammatiche? Tutto ciò è conseguenza della scelta deliberata, per dirla con Jean-François Revel, secondo cui «la scuola non deve avere come funzione la trasmissione della conoscenza».
Già quaranta anni fa Hannah Arendt aveva lucidamente previsto i disastri cui avrebbe condotto questa visione pedagogica, da lei definita «un incredibile guazzabuglio di idee sensate e di assurdità». Arendt denunciava l’aver messo «del tutto da parte ogni regola di sano giudizio umano, per amore di certe teorie, buone o cattive che fossero. […] Influenzata dalla psicologia moderna e dai dogmi del pragmatismo la pedagogia si è trasformata in una scienza dell’insegnamento in genere, fino a rendersi del tutto indipendente dalla materia che di fatto s’insegna». E proseguiva osservando che la sostituzione della conoscenza con la pratica e la metodologia era conseguenza di un mediocre pragmatismo secondo cui «si può conoscere e capire soltanto ciò che si è fatto da sé. Applicato all’istruzione ciò significa, in termini primitivi quanto ovvi, che l’imparare viene per quanto possibile sostituito dal fare. Non si dà alcun valore alla padronanza della materia da parte del professore proprio per costringerlo a proseguire nell’attività dell’apprendimento, così da non trasmettere, come si dice, delle “morte nozioni”, bensì essere continuamente teso a mostrare il processo produttivo della conoscenza. L’intenzione consapevole non è d’insegnare una conoscenza ma di inculcare una tecnica».
A ciò corrisponde una visione dell’insegnante che è – per dirla con Arendt – «una persona che può semplicemente insegnare qualsiasi cosa, perché la sua formazione è nell’insegnare, non nel dominio di un qualsiasi materia particolare». Non a caso il processo di formazione degli insegnanti è stato imperniato soprattutto sulle metodologie pedagogico-didattiche. Nel caso dei maestri italiani si sono raggiunti livelli esasperati. Oggi ci si può laureare maestro senza competenze disciplinari specifiche. In certi corsi di laurea le materie sono soltanto di tipo psico-pedadogico-relazionale o di pedagogia “speciale” (che si occupa del sostegno ai disabili) e i corsi di didattica della matematica o della storia (non matematica o storia!) sono opzionali con pediatria o neuropsichiatria infantile… Definire “specializzato” un siffatto maestro è una presa in giro. Oggi la scuola primaria galleggia per l’impegno di maestri anziani o di giovani che coltivano interessi disciplinari a dispetto dei cattivi insegnamenti che hanno ricevuto. Pertanto polemizzare contro il maestro prevalente in nome di un inesistente maestro plurimo “specializzato” è una mistificazione. D’altra parte, è curioso che chi difende l’idea di un insegnante metodologo auspichi la specializzazione disciplinare proprio nelle elementari, laddove meno se ne sente la necessità. In realtà si tratta di una foglia di fico culturale per giustificare le politiche di assunzioni di massa.
È invece molto più sensata la figura di un insegnante prevalente, dotato delle conoscenze basilari atte a introdurre sinteticamente il bambino al mondo simbolico, che è quello delle lettere e dei numeri, non a caso nati insieme seimila anni fa. La scomposizione in termini disciplinari degli aspetti linguistico e matematico proprio nella fase formativa elementare è un errore pedagogico banale.
Dice Pontecorvo che questa è una scuola che integra i disabili ed è accogliente. Purché si dica che ciò accade nell’ottica del più ipocrita politicamente corretto, concependo come “diversità” ogni disabilità (siamo tutti “diversi”, siamo tutti “speciali”) e raccogliendo nella stessa categoria disabili propriamente detti con immigrati, rom e, secondo alcuni, anche ebrei. In tal modo si crede di normalizzare la disabilità riducendo ogni condizione a una forma di disabilità e trasformando la scuola elementare in un immenso deposito di “diversità” in cui il maestro opera come un infermiere-psicologo.
Clotilde Pontecorvo critica inoltre la reintroduzione del voto in decimi osservando giustamente che le valutazioni non sono mai misurazioni quantitative precise. Ma non la racconta giusta quando fa credere che la docimologia spieghi che una misurazione esatta delle competenze è impossibile. Il contrario è vero. È la docimologia che persegue l’obbiettivo impossibile della “misurazione delle qualità” e pretende di introdurre criteri di valutazione “oggettivi” ricorrendo a principi che suscitano l’ilarità di chiunque abbia una preparazione scientifica seria, come la distribuzione gaussiana delle competenze. Al contrario, il voto in decimi mira a esprimere una valutazione comparativa qualitativa in modo più semplice e diretto di giudizi verbali spesso espressi con locuzioni farraginose e vaniloquenti e senza concedere alla pretesa di raggiungere per via docimologica la misurazione “esatta” della competenze.
Infine, Clotilde Pontecorvo accusa il ministro Gelmini di non avere sensibilità per le elaborazioni pedagogiche di tipo educativo e di non avere letto John Dewey, don Milani o il “Poema pedagogico” di Makarenko. È bizzarra l’idea che la lettura di un testo debba produrre automaticamente un atteggiamento consenziente. Sotto questo profilo Hannah Arendt dovrebbe essere considerata peggio del ministro Gelmini, per la disistima che nutriva nei confronti della pedagogia alla Dewey. Non oso immaginare cosa avrebbe detto di don Milani e di Makarenko… Quest’ultimo riferimento è significativo. Soltanto chi non crede che l’educazione sia in primo luogo un rapporto tra persone, e non la gestione di un collettivo, può vedere un riferimento positivo in un pedagogista sovietico che concepiva l’uomo come un mero prodotto sociale e l’educazione in senso collettivistico; che creò e gestì la colonia Dzeržinskij, così denominata per onorare il truce creatore della polizia politica sovietica Ceka, e che ha attraversato intatto tutte le purghe staliniane sull’altare della reputazione di educatore bolscevico per eccellenza.
Cosa abbia a che fare tutto ciò con il modello educativo ebraico riesce difficile comprendere. Se c’è qualcosa che caratterizza la vita ebraica è lo studio e certamente non nel senso dell’autoformazione, bensì dell’acquisizione della conoscenza accumulata su cui ogni persona deve “salire” per poter avanzare. Che cos’è il Talmud se non un immenso e inesauribile deposito di conoscenze che ognuno, nella sua vita, è chiamato a studiare incessantemente e ad acquisire per potere andare oltre? È uno studio basato sulla figura del maestro – maestro di conoscenze e non metodologo puro. Vi è poi la centralità della famiglia, senza cui non è pensabile neppure la vita religiosa ebraica. Una siffatta centralità è incompatibile con una visione che vede l’educazione come un rapporto tra istituzione educante e collettivo educato e annulla il ruolo del singolo e della famiglia. Tra Makarenko-don Milani e la visione educativa ebraica corre un abisso incolmabile. Non è una buona idea schierare l’ebraismo su simili fronti per motivi meramente politici.
giovedì 20 novembre 2008
Lettera aperta a Andrea Camilleri
Esimio Andrea Camilleri,
lei stava per avere su di me un effetto inaudito. Da quando sono nato non riesco a buttar via neanche il più misero opuscolo che rassomigli vagamente a un libro. Ma quando ho letto che lei ha proclamato davanti a una platea di studenti del Liceo Mamiani di Roma che il ministro dell’istruzione Gelmini «di sicuro non è un essere umano» e che «dovremmo chiamare i professori di chimica per capire che cos’è», mi sono diretto verso alcuni suoi libri che ho in casa deciso a gettarli nel cassonetto. Poi mi sono fermato e li ho lasciati al loro posto. Ho anche pensato di rinunciare a vedere lo sceneggiato del Commissario Montalbano, per rappresaglia, ma poi mi son detto: «Perché mai dovrei privarmi di un divertimento? E poi i boicottaggi sono roba da cretini».
Pertanto, sono qui a ringraziarla. La sua manifestazione di violenza ideologica mi ha dato l’occasione di fare un test su me stesso e verificare che sono felicemente vaccinato da questo male.
È quindi con animo leggero e tranquillo che le chiedo: dica la verità, ma lei ne sa un accidente dei problemi dell’istruzione? Ha una pallida idea di che cosa siano il maestro unico, i “moduli”, l’insegnante di sostegno, i debiti formativi, il “sei rosso”, i POF, le SSIS, il 3+2, le lauree magistrali, gli FFO, i CFU? Sa come si formano le commissioni per un concorso universitario e cos’è la doppia idoneità? Ha mai letto i testi delle riforme Berlinguer o Moratti e le “indicazioni nazionali” di Fioroni? Dica la verità, in camera caritatis: lei non ne sa un emerito accidente.
Mi lasci indovinare: qualcuno di cui si fida le ha detto che bisogna combattere una grande battaglia democratica perché c’è una ministra scellerata di un governo reazionario che sta distruggendo la scuola, l’università, la cultura, il futuro dei giovani; insomma compie infamie che potrebbero essere concepite soltanto dalla mente di un alieno, anzi di un alieno fascista. E allora lei è partito canticchiando: «Il bersagliere ha cento penne, e l’alpino ne ha una sola, il partigiano ne ha nessuna, e va per scuole a guerreggiar…». Assieme a lei è partita per le scuole e le università una brigata di volti nuovi della lotta partigiana capeggiata da Dario Fo. Di fronte a quella platea di giovani vocianti, un desiderio irrefrenabile, che i suoi successi letterari non hanno saputo estinguere, l’ha assalito: il desiderio di vivere ancora l’“ebbrezza dell’applauso”. E, per far venire giù l’anfiteatro, cosa di meglio che una battuta al fulmicotone come quella sulla Gelmini che non è un essere umano?
Vede, le si può senz’altro perdonare di non sapere che cosa siano i POF, i CFU e gli FFO. Ma quel che è imperdonabile, soprattutto alla sua età, è di non sapere più che cosa sia l’educazione. Non nel senso delle buone maniere – chiaramente ha perso per strada anche quelle – ma nel senso di “educare”. Altrimenti si sarebbe ricordato com’eravamo da giovani e che un adolescente è una polveriera di vitalità compressa che un adulto responsabile deve contenere e indirizzare, a costo di apparire un vecchio babbione, e non incendiare per il gusto di riuscire simpatico e di darsi di gomito tra “coetanei”. Per quattro applausi e per obbedire alla chiamata alle armi delle Brigate Garibaldi dell’istruzione “democratica”, lei ha scodellato un’indecente lezione di fanatismo e di violenza. Questa sarebbe la scuola “umana” cui vorrebbe fossero educati i giovani? Meglio gli “alieni”, esimio Camilleri. Mentre guardo il Commissario Montalbano in tv, provi a farsi un esame di coscienza, se gliene resta un briciolo.
(Tempi 19 novembre 2008)ndrea
lei stava per avere su di me un effetto inaudito. Da quando sono nato non riesco a buttar via neanche il più misero opuscolo che rassomigli vagamente a un libro. Ma quando ho letto che lei ha proclamato davanti a una platea di studenti del Liceo Mamiani di Roma che il ministro dell’istruzione Gelmini «di sicuro non è un essere umano» e che «dovremmo chiamare i professori di chimica per capire che cos’è», mi sono diretto verso alcuni suoi libri che ho in casa deciso a gettarli nel cassonetto. Poi mi sono fermato e li ho lasciati al loro posto. Ho anche pensato di rinunciare a vedere lo sceneggiato del Commissario Montalbano, per rappresaglia, ma poi mi son detto: «Perché mai dovrei privarmi di un divertimento? E poi i boicottaggi sono roba da cretini».
Pertanto, sono qui a ringraziarla. La sua manifestazione di violenza ideologica mi ha dato l’occasione di fare un test su me stesso e verificare che sono felicemente vaccinato da questo male.
È quindi con animo leggero e tranquillo che le chiedo: dica la verità, ma lei ne sa un accidente dei problemi dell’istruzione? Ha una pallida idea di che cosa siano il maestro unico, i “moduli”, l’insegnante di sostegno, i debiti formativi, il “sei rosso”, i POF, le SSIS, il 3+2, le lauree magistrali, gli FFO, i CFU? Sa come si formano le commissioni per un concorso universitario e cos’è la doppia idoneità? Ha mai letto i testi delle riforme Berlinguer o Moratti e le “indicazioni nazionali” di Fioroni? Dica la verità, in camera caritatis: lei non ne sa un emerito accidente.
Mi lasci indovinare: qualcuno di cui si fida le ha detto che bisogna combattere una grande battaglia democratica perché c’è una ministra scellerata di un governo reazionario che sta distruggendo la scuola, l’università, la cultura, il futuro dei giovani; insomma compie infamie che potrebbero essere concepite soltanto dalla mente di un alieno, anzi di un alieno fascista. E allora lei è partito canticchiando: «Il bersagliere ha cento penne, e l’alpino ne ha una sola, il partigiano ne ha nessuna, e va per scuole a guerreggiar…». Assieme a lei è partita per le scuole e le università una brigata di volti nuovi della lotta partigiana capeggiata da Dario Fo. Di fronte a quella platea di giovani vocianti, un desiderio irrefrenabile, che i suoi successi letterari non hanno saputo estinguere, l’ha assalito: il desiderio di vivere ancora l’“ebbrezza dell’applauso”. E, per far venire giù l’anfiteatro, cosa di meglio che una battuta al fulmicotone come quella sulla Gelmini che non è un essere umano?
Vede, le si può senz’altro perdonare di non sapere che cosa siano i POF, i CFU e gli FFO. Ma quel che è imperdonabile, soprattutto alla sua età, è di non sapere più che cosa sia l’educazione. Non nel senso delle buone maniere – chiaramente ha perso per strada anche quelle – ma nel senso di “educare”. Altrimenti si sarebbe ricordato com’eravamo da giovani e che un adolescente è una polveriera di vitalità compressa che un adulto responsabile deve contenere e indirizzare, a costo di apparire un vecchio babbione, e non incendiare per il gusto di riuscire simpatico e di darsi di gomito tra “coetanei”. Per quattro applausi e per obbedire alla chiamata alle armi delle Brigate Garibaldi dell’istruzione “democratica”, lei ha scodellato un’indecente lezione di fanatismo e di violenza. Questa sarebbe la scuola “umana” cui vorrebbe fossero educati i giovani? Meglio gli “alieni”, esimio Camilleri. Mentre guardo il Commissario Montalbano in tv, provi a farsi un esame di coscienza, se gliene resta un briciolo.
(Tempi 19 novembre 2008)ndrea
lunedì 17 novembre 2008
Save the date: Ginevra, aprile 2009. Ecco da dove ripartirà l’onda antisemita
Uno tsunami di vignette contro i candidati alla presidenza degli USA si abbatte da mesi sulla stampa araba e in esso domina la componente antisemita. Presentiamo due vignette ai lettori di Tempi. Una è stata pubblicata sull’autorevole settimanale egiziano Al-Ahram Weekly nella seconda settimana di agosto e raffigura il futuro presidente degli Stati Uniti Obama con una testa deforme su cui figura il simbolo di amore per la stella di David. L’altra è stata pubblicata l’11 ottobre sul giornale saudita Al-Watan e raffigura il classico ebreo delle caricature antisemite che manovra come pupazzi i due candidati. Il messaggio è chiaro: chiunque sia eletto è una marionetta dei “giudei”. A ciò va aggiunto un disprezzo assai poco “politicamente corretto”: in una caricatura pubblicata prima che Obama prevalesse su Hillary Clinton un religioso musulmano osservava le foto dei candidati sotto la scritta “un nero e una donna in corsa per la Casa Bianca” e commentava: «Un altro segno del collasso della civiltà occidentale». Può essere istruttivo dare un’occhiata alla raccolta delle vignette sul sito http://www.memri.org/ per rendersi conto di come gran parte del mondo arabo e islamico guardi all’Occidente e della feroce ostilità contro Israele intrisa di un pesante antisemitismo che fa ricorso ai soliti stereotipi degli ebrei dominatori del mondo, agenti di ogni congiura e burattinai degli USA.
Secondo il Presidente della Commissione affari esteri del parlamento egiziano la crisi finanziaria fa parte di un “complotto mondiale” volto a impossessarsi delle ricchezze arabe e che, manco a dirlo, è stato organizzato dagli ebrei americani. È una tesi ripresa da giornali libanesi e che la dott. Umayma Ahmad al-Jalahma, dell’università del Re Feysal dell’Arabia Saudita ha riproposto sul giornale Al-Watan, sostenendo che dietro la crisi c’è… la famiglia Rothschild. La docente ha ripercorso la storia dei complotti di questa famiglia, dalla sconfitta di Napoleone a Waterloo – i Rothschild avrebbero finanziato entrambi i contendenti, ma gli inglesi un po’ di più – ad oggi. In realtà, oltre a Waterloo e alla crisi attuale non fornisce altri esempi. Ma tant’è, non c’è bisogno di sargomenti per convincere che lo scopo degli ebrei era ed è sempre il solito: controllare il mondo.
Nel frattempo, il solito Tariq Ramadan getta la maschera chiamando apertamente alla lotta contro Israele: «Non è questione d’inginocchiarsi per confortare il mendicante dai suoi bisogni e dalle sue lacrime, ma di alzarsi e affrontare politicamente l’oppressore, le sue bugie e le sue armi».
Ancora è viva la memoria della tragica conferenza ONU sul razzismo che si tenne a Durban pochi giorni prima dell’attacco alle Torri Gemelle e che fu un’orrida sagra di razzismo antiebraico. Nell’aprile del 2009 si terrà a Ginevra una nuova conferenza sul razzismo, già denominata Durban 2. Essa promette di essere una replica del disastroso evento di otto anni fa, soprattutto perché tra i suoi principali organizzatori vi sono paesi come l’Iran, la Libia e Cuba. La bozza del documento preparatorio mostra con evidenza quel che si prepara: l’unico paese menzionato come colpevole di razzismo è Israele. Se i paesi democratici e le loro opinioni pubbliche non riusciranno a farsi sentire andremo incontro all’accendersi di un nuovo pericolosissimo focolaio di antisemitismo.
(Tempi, 13 novembre 2008)
domenica 9 novembre 2008
Merito, responsabilità, rigore
Finalmente c’è chi comincia a comprendere la coerenza del ministro Gelmini. “Una prova di coraggio” ha scritto il Corriere della Sera a proposito del decreto sull’università: senza arroganza, tenendo aperto il dialogo ma senza rinviare alle calende greche e senza curarsi dei consigli di coloro che, da ogni parte, spingevano per lasciar perdere in attesa di tempi migliori.
Si era detto che la scuola e le università italiane erano state sottoposte a troppi stress per poter tirare loro addosso in pochi mesi nuove riforme globali. E così ha fatto Mariastella Gelmini, iniziando con pochi, ristretti ma significativi provvedimenti riservati alla scuola. Era importante che fosse significativa e chiara la loro direzione. La direzione era quella di un appello promosso prima delle elezioni dal Gruppo di Firenze, sottoscritto da una quindicina di professori universitari e fatto proprio dal ministro: merito, rigore, responsabilità. Tre parole semplici ma piene di significato, se erano bastate a far saltare i nervi ad alcuni sindacalisti e a qualche ex-ministro che erano trascesi all’insulto. Il famoso decreto Gelmini sulla scuola iniziava a percorrere questo cammino su tre questioni circoscritte ma importanti: voto in condotta, voti in pagella e maestro prevalente. Quest’ultima scelta – non ci stancheremo di ripeterlo – rompe con la consuetudine più che trentennale di usare la scuola come ammortizzatore sociale e risponde a una visione pedagogica più che corretta. Apriti cielo. In mancanza di argomenti seri si è messa in piedi una campagna di controinformazione demagogica che ha confuso tutto concentrando l’attenzione sui tagli introdotti dalla legge 133, ovvero dalla pre-finanziaria, che però riguardavano l’università. Ogni tentativo di far capire che sull’università non si era ancora deciso nulla è stato vano.
Siccome nel nostro paese circolano molte qualità meno quella della perseveranza e della determinazione, si è cominciato a invitare insistentemente la Gelmini a tirare i remi in barca e tirare a campare (che poi, contrariamente a quel che fu detto, è la via maestra per tirare le cuoia). Sembrava che un po’ di fracasso in piazza fosse bastato a dissolvere i flebili spiriti thatcheriani circolanti, a far dimenticare che chi conta sono gli elettori e che le decisioni difficili e di indirizzo si prendono a inizio legislatura senza badare a qualche punto di gradimento in meno.
Il decreto sull’università di ieri è stata una risposta esemplare. Pochi punti, ma di significato chiarissimo. I concorsi banditi all’inizio dell’anno con la deroga della doppia idoneità – esempio preclaro dei guasti che produce il consociativismo! – non possono essere bloccati, ma il decreto cambia almeno il meccanismo di formazione delle commissioni introducendo una meccanismo aleatorio che scombina consistentemente i piani e le cordate con cui si decidono a priori i vincitori. Da un lato i tagli previsti dalla finanziaria sono confermati, e ciò costituisce un persistente richiamo al senso di responsabilità delle università che sono chiamate energicamente a fare la loro parte tagliando lauree e corsi inutili e magari anche sedi. D’altra parte s’inizia a dare un senso preciso ai tagli: il blocco del turn over viene ridotto al 50%, a condizione che il ricambio di docenti venga fatto in favore dei giovani e viene stanziato un fondo per borse di studio per gli studenti più meritevoli. Insomma, largo ai giovani, ma non in quanto tali, bensì in quanto giovani meritevoli. Le borse non debbono essere un sostegno di stato per parcheggiare nell’università. Il ricambio dei docenti deve avvenire a favore dei migliori, non per un ringiovanimento fine a se stesso. Infine, i fondi di dotazione delle università non saranno tagliati in modo indiscriminato bensì favorendo quelle più virtuose sul piano finanziario, didattico e scientifico e penalizzando le altre.
In conclusione, il messaggio è lo stesso: merito, rigore, responsabilità. È da augurarsi che venga inteso e che si capisca che, se pure l’esigenza di operare tagli è inderogabile, qui non si sta tagliando a casaccio ma lo si sta facendo con criteri chiari e coerenti. Sarà difficile che la ragione prevalga in chi vuol mantenere in piazza il “movimento”. Si sono sentite alcune reazioni sindacali di soddisfazione perché il governo avrebbe finalmente accettato di dialogare (un modo come un altro per esibire una vittoria) ma che ribadiscono che nel merito tutto è da discutere, a cominciare dal maestro prevalente… Insomma, il gioco delle tre carte: prima si teneva acceso il fuoco sotto la scuola col pretesto dell’università, ora si tenterà di tenere acceso il fuoco sotto l’università parlando di scuola. Il giochetto non dovrebbe avere futuro, visto il diffondersi di valutazioni responsabili da parte di chi ha a cuore l’istruzione e non obbiettivi di conservazione di poteri o privilegi consolidati; a meno che il “movimento” non venga alimentato da moventi che con i problemi dell’istruzione non hanno nulla a che fare, come lascia temere quel che è accaduto a Roma ieri.
È coerente con questi provvedimenti parziali il rinvio a un disegno di legge generale della riforma complessiva del sistema – e ciò vale sia per l’università che per la scuola – in una prospettiva di confronto e di discussione aperta che però – si badi bene – non si configura come il confronto tra governo da un lato e, dall’altro, opposizione, sindacati e rappresentanze di docenti e studenti. Sulle questioni di fondo vi sono divergenze che tagliano trasversalmente questi blocchi. Su come intendere l’autonomia esistono punti di vista molto diversi all’interno dei vari schieramenti. Il problema dei meccanismi concorsuali – tendenza a procedure sempre più localistiche o liste nazionali di idonei al cui interno assumere – è molto complesso e di soluzione non facile. La questione della valutazione è delicatissima e divide chi crede ciecamente in tecniche scientifiche oggettive da coloro che privilegiano il fattore umano e qualitativo nel giudizio. Ancor più delicato è il problema dei contenuti degli insegnamenti: il fronte di coloro che predicano un insegnamento “olistico” – si parla di inventare per la scuola una sorta di supermateria scientifica che le unifichi tutte in un grande frullato al fine di preparare “competenze” utili nelle applicazioni – vede insieme ambienti imprenditoriali molto sensibili alle loro esigenze e poco a quella della formazione culturale e i soliti pedagogisti del pensiero “complesso”.
Si vedrà. Tutto ciò è demandato giustamente a un dibattito più ampio. Quel che conta è l’aver indicato chiaramente, con il metodo pragmatico e costruttivo dei provvedimenti parziali ma incisivi, i binari su cui si deve comunque procedere: merito, responsabilità e rigore.
(Libero, 8 novembre 2008)
Si era detto che la scuola e le università italiane erano state sottoposte a troppi stress per poter tirare loro addosso in pochi mesi nuove riforme globali. E così ha fatto Mariastella Gelmini, iniziando con pochi, ristretti ma significativi provvedimenti riservati alla scuola. Era importante che fosse significativa e chiara la loro direzione. La direzione era quella di un appello promosso prima delle elezioni dal Gruppo di Firenze, sottoscritto da una quindicina di professori universitari e fatto proprio dal ministro: merito, rigore, responsabilità. Tre parole semplici ma piene di significato, se erano bastate a far saltare i nervi ad alcuni sindacalisti e a qualche ex-ministro che erano trascesi all’insulto. Il famoso decreto Gelmini sulla scuola iniziava a percorrere questo cammino su tre questioni circoscritte ma importanti: voto in condotta, voti in pagella e maestro prevalente. Quest’ultima scelta – non ci stancheremo di ripeterlo – rompe con la consuetudine più che trentennale di usare la scuola come ammortizzatore sociale e risponde a una visione pedagogica più che corretta. Apriti cielo. In mancanza di argomenti seri si è messa in piedi una campagna di controinformazione demagogica che ha confuso tutto concentrando l’attenzione sui tagli introdotti dalla legge 133, ovvero dalla pre-finanziaria, che però riguardavano l’università. Ogni tentativo di far capire che sull’università non si era ancora deciso nulla è stato vano.
Siccome nel nostro paese circolano molte qualità meno quella della perseveranza e della determinazione, si è cominciato a invitare insistentemente la Gelmini a tirare i remi in barca e tirare a campare (che poi, contrariamente a quel che fu detto, è la via maestra per tirare le cuoia). Sembrava che un po’ di fracasso in piazza fosse bastato a dissolvere i flebili spiriti thatcheriani circolanti, a far dimenticare che chi conta sono gli elettori e che le decisioni difficili e di indirizzo si prendono a inizio legislatura senza badare a qualche punto di gradimento in meno.
Il decreto sull’università di ieri è stata una risposta esemplare. Pochi punti, ma di significato chiarissimo. I concorsi banditi all’inizio dell’anno con la deroga della doppia idoneità – esempio preclaro dei guasti che produce il consociativismo! – non possono essere bloccati, ma il decreto cambia almeno il meccanismo di formazione delle commissioni introducendo una meccanismo aleatorio che scombina consistentemente i piani e le cordate con cui si decidono a priori i vincitori. Da un lato i tagli previsti dalla finanziaria sono confermati, e ciò costituisce un persistente richiamo al senso di responsabilità delle università che sono chiamate energicamente a fare la loro parte tagliando lauree e corsi inutili e magari anche sedi. D’altra parte s’inizia a dare un senso preciso ai tagli: il blocco del turn over viene ridotto al 50%, a condizione che il ricambio di docenti venga fatto in favore dei giovani e viene stanziato un fondo per borse di studio per gli studenti più meritevoli. Insomma, largo ai giovani, ma non in quanto tali, bensì in quanto giovani meritevoli. Le borse non debbono essere un sostegno di stato per parcheggiare nell’università. Il ricambio dei docenti deve avvenire a favore dei migliori, non per un ringiovanimento fine a se stesso. Infine, i fondi di dotazione delle università non saranno tagliati in modo indiscriminato bensì favorendo quelle più virtuose sul piano finanziario, didattico e scientifico e penalizzando le altre.
In conclusione, il messaggio è lo stesso: merito, rigore, responsabilità. È da augurarsi che venga inteso e che si capisca che, se pure l’esigenza di operare tagli è inderogabile, qui non si sta tagliando a casaccio ma lo si sta facendo con criteri chiari e coerenti. Sarà difficile che la ragione prevalga in chi vuol mantenere in piazza il “movimento”. Si sono sentite alcune reazioni sindacali di soddisfazione perché il governo avrebbe finalmente accettato di dialogare (un modo come un altro per esibire una vittoria) ma che ribadiscono che nel merito tutto è da discutere, a cominciare dal maestro prevalente… Insomma, il gioco delle tre carte: prima si teneva acceso il fuoco sotto la scuola col pretesto dell’università, ora si tenterà di tenere acceso il fuoco sotto l’università parlando di scuola. Il giochetto non dovrebbe avere futuro, visto il diffondersi di valutazioni responsabili da parte di chi ha a cuore l’istruzione e non obbiettivi di conservazione di poteri o privilegi consolidati; a meno che il “movimento” non venga alimentato da moventi che con i problemi dell’istruzione non hanno nulla a che fare, come lascia temere quel che è accaduto a Roma ieri.
È coerente con questi provvedimenti parziali il rinvio a un disegno di legge generale della riforma complessiva del sistema – e ciò vale sia per l’università che per la scuola – in una prospettiva di confronto e di discussione aperta che però – si badi bene – non si configura come il confronto tra governo da un lato e, dall’altro, opposizione, sindacati e rappresentanze di docenti e studenti. Sulle questioni di fondo vi sono divergenze che tagliano trasversalmente questi blocchi. Su come intendere l’autonomia esistono punti di vista molto diversi all’interno dei vari schieramenti. Il problema dei meccanismi concorsuali – tendenza a procedure sempre più localistiche o liste nazionali di idonei al cui interno assumere – è molto complesso e di soluzione non facile. La questione della valutazione è delicatissima e divide chi crede ciecamente in tecniche scientifiche oggettive da coloro che privilegiano il fattore umano e qualitativo nel giudizio. Ancor più delicato è il problema dei contenuti degli insegnamenti: il fronte di coloro che predicano un insegnamento “olistico” – si parla di inventare per la scuola una sorta di supermateria scientifica che le unifichi tutte in un grande frullato al fine di preparare “competenze” utili nelle applicazioni – vede insieme ambienti imprenditoriali molto sensibili alle loro esigenze e poco a quella della formazione culturale e i soliti pedagogisti del pensiero “complesso”.
Si vedrà. Tutto ciò è demandato giustamente a un dibattito più ampio. Quel che conta è l’aver indicato chiaramente, con il metodo pragmatico e costruttivo dei provvedimenti parziali ma incisivi, i binari su cui si deve comunque procedere: merito, responsabilità e rigore.
(Libero, 8 novembre 2008)
giovedì 6 novembre 2008
L'istruzione non serve a "migliorare la qualità del capitale umano"
Ha scritto bene Giorgio Vittadini su Il Riformista che la crisi che attraversiamo «non è solo economica: è una crisi antropologica che mette in discussione un’idea di razionalità umana ridotta, tesa com’è alla massimizzazione del profitto nel breve periodo, ma disattenta ai presupposti necessari a creare una ricchezza reale e duratura e perciò destinata ad astrarsi dalla realtà e a costruire un mondo virtuale destinato a crollare. Per guardare lontano occorre una razionalità che metta in luce come già ora anche l’homo oeconomicus ha altri moventi ben più vasti del solo profitto trimestrale…». Sono considerazioni che vanno nella stessa direzione di quanto abbiamo scritto qui circa la crisi finanziaria. La rappresentazione della razionalità umana in termini di “aspettative razionali” dell’homo oeconomicus è alla radice di una visione dei processi economici estranea all’umanità reale e che ha generato una situazione in cui nessuno riesce più a prevedere cosa accadrà domani.
In questo ordine di questioni le scelte linguistiche sono molto importanti. È pensabile descrivere le finalità autenticamente umane in termini meramente economistici? Anche se certa terminologia è entrata nell’uso sarebbe bene abbandonare cattive abitudini che riflettono visioni unilaterali e restrittive.
Un esempio. Per descrivere la necessità di intervenire sul sistema italiano dell’istruzione il vicedirettore generale di Bankitalia, Ignazio Visco ha osservato: «Per la crescita, la qualità del capitale umano è tanto importante quanto la sua quantità. Le principali indagini sui livelli di apprendimento nelle scuole italiane indicano chiaramente che questa è oggi una priorità per il nostro Paese. Il miglioramento della qualità del capitale umano richiede quindi interventi importanti sulla scuola e sull’università». Ed ha aggiunto che «a un’istruzione di bassa qualità le imprese reagirebbero, in condizioni di informazione imperfetta, con un’offerta generalizzata di bassi salari; questi sarebbero ritenuti insufficienti a compensare il costo di un ritardato ingresso nel mercato del lavoro, riducendo l’investimento in istruzione».
Non mi sogno di contestare ciò che di giusto vi è in queste affermazioni. Vorrei soltanto chiedere cortesemente al vicedirettore Visco se davvero pensa che la questione possa essere vista in questi termini, riproponendo l’approccio dell’informazione perfetta o imperfetta e concependo l’istruzione come un semplice fattore di crescita del capitale umano. Anzi, vorrei chiedere se ha un senso qualsivoglia il termine “capitale umano”. È perfettamente evidente il senso della parola “capitale” nella sfera economica. Al contrario, la “qualità di un capitale” è un ossimoro perché le qualità non si misurano. Una persona intellettualmente capace, uno scienziato valido si caratterizza per l’interesse, la passione per la conoscenza, la spinta a cercare un’idea intelligente a ogni piè sospinto, non per il possesso di un ammasso di conoscenze e di competenze. L’ insegnamento su cui si basa l’istruzione è un rapporto fra persone in cui deve nascere la scintilla dell’interesse e della passione per il conoscere, che non sono fattori economici. In fin dei conti, la crisi del nostro sistema di istruzione si riconduce a una grande crisi educativa e morale: una crisi di questa natura non si pone e non si risolve in termini di “miglioramento della qualità del capitale umano”.
Questioni terminologiche? Le parole non sono neutrali. Anche un economista deve saper uscire dal riduzionismo e ammettere che non tutto si riduce a problemi di ottimizzazione.
(Tempi, 6 novrembre 2008)
In questo ordine di questioni le scelte linguistiche sono molto importanti. È pensabile descrivere le finalità autenticamente umane in termini meramente economistici? Anche se certa terminologia è entrata nell’uso sarebbe bene abbandonare cattive abitudini che riflettono visioni unilaterali e restrittive.
Un esempio. Per descrivere la necessità di intervenire sul sistema italiano dell’istruzione il vicedirettore generale di Bankitalia, Ignazio Visco ha osservato: «Per la crescita, la qualità del capitale umano è tanto importante quanto la sua quantità. Le principali indagini sui livelli di apprendimento nelle scuole italiane indicano chiaramente che questa è oggi una priorità per il nostro Paese. Il miglioramento della qualità del capitale umano richiede quindi interventi importanti sulla scuola e sull’università». Ed ha aggiunto che «a un’istruzione di bassa qualità le imprese reagirebbero, in condizioni di informazione imperfetta, con un’offerta generalizzata di bassi salari; questi sarebbero ritenuti insufficienti a compensare il costo di un ritardato ingresso nel mercato del lavoro, riducendo l’investimento in istruzione».
Non mi sogno di contestare ciò che di giusto vi è in queste affermazioni. Vorrei soltanto chiedere cortesemente al vicedirettore Visco se davvero pensa che la questione possa essere vista in questi termini, riproponendo l’approccio dell’informazione perfetta o imperfetta e concependo l’istruzione come un semplice fattore di crescita del capitale umano. Anzi, vorrei chiedere se ha un senso qualsivoglia il termine “capitale umano”. È perfettamente evidente il senso della parola “capitale” nella sfera economica. Al contrario, la “qualità di un capitale” è un ossimoro perché le qualità non si misurano. Una persona intellettualmente capace, uno scienziato valido si caratterizza per l’interesse, la passione per la conoscenza, la spinta a cercare un’idea intelligente a ogni piè sospinto, non per il possesso di un ammasso di conoscenze e di competenze. L’ insegnamento su cui si basa l’istruzione è un rapporto fra persone in cui deve nascere la scintilla dell’interesse e della passione per il conoscere, che non sono fattori economici. In fin dei conti, la crisi del nostro sistema di istruzione si riconduce a una grande crisi educativa e morale: una crisi di questa natura non si pone e non si risolve in termini di “miglioramento della qualità del capitale umano”.
Questioni terminologiche? Le parole non sono neutrali. Anche un economista deve saper uscire dal riduzionismo e ammettere che non tutto si riduce a problemi di ottimizzazione.
(Tempi, 6 novrembre 2008)
martedì 4 novembre 2008
Una risposta sul Foglio a un articolo del Foglio
Su cui vale la pena di leggere una lettera di un insegnante che spiega come si "studia" la matematica alle elementari
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Ho letto con sconcerto l’articolo “Lettera di una maestra unica” a firma di Claudio Cerasa (Il Foglio, 1 novembre) e dall’imbarazzante sottotitolo: “Storia di una combattiva insegnante elementare alle prese con una riforma che ha deciso di non applicare”. Era meglio dire: “che pur di non diventare maestra unica andrà in pensione”. Difatti, la maestra Maria non può “non applicare” una legge dello stato. Il sistema dell’istruzione in Italia va a rotoli anche perché certi insegnanti hanno perso la consapevolezza di essere funzionari pubblici e credono che la scuola sia il salotto di casa loro.
Ma lasciamo perdere. La maestra Maria andrà in pensione, delusa e umiliata perché le hanno tolto la sua bellissima scuola. Le ragioni di questa amara delusione sono descritte mettendo in contrasto la miseria delle motivazioni addotte per giustificare la scelta del maestro unico con il quadro di una scuola impeccabile dipinto con un lirismo da caricatura del Libro Cuore. A fine lettura resta in mano questo messaggio: rozze forbici senza cervello stanno compiendo uno stupro di cultura, entusiasmo, impegno.
È un elogio (senza argomenti) della nobile figura di una vera maestra offesa dalla barbarie. E gli altri? Chi sono quei maestri che scrivono ogni giorno lettere altrettanto dolenti ma di segno esattamente opposto a quello della maestra Maria? Chi sono coloro che dipingono come scuola del disastro quel luogo di tante, troppe attività, «un ridicolo, pietoso luogo di intrattenimento che moltiplica la quantità dell’“offerta formativa” scambiandola per qualità», che «non ha più niente da dire perché non ha più niente in cui credere»? Chi sono quei maestri che denunciano che nella primaria attuale «è concesso di fare tutto (animatore, ballerino, artista, vigile del fuoco, agente della sicurezza, crocerossina, occultatore dell’ignoranza degli alunni), tutto tranne l’insegnante»? Sono beceri insensibili e ignoranti? E i libri che da anni denunciano la distruzione di una delle migliori scuole elementari del mondo chi li ha scritti? Scherani «non all’altezza dei compiti degli insegnanti» al servizio dal perverso intento di «sforbiciare diciannove anni di storia» e «la storia di persone come Maria»?
Non si può invitare alla discussione razionale facendo una caricatura manichea della realtà. Perché alla testimonianza di Maria è fin troppo facile contrapporre una valanga di testimonianze di segno opposto ben altrimenti argomentate e frutto dell’esperienza di persone di indiscutibile “altezza”. Il caso vuole che queste ultime non trovino facilmente spazio. Questa censura è «opera di un’ideologia di sinistra in sfacelo che ormai trova il suo unico rifugio e ragion d’essere nella scuola» (citazione dalla lettera di un insegnante) e che cerca di soffocare ogni discussione ripetendo ossessivamente la litania urlata della “scuola migliore del mondo” in preda alla barbarie degli incolti. Da quando fu introdotto il maestro plurimo tante persone autorevoli hanno argomentato in mille modi l’assurdità di quella scelta – che è peraltro una peculiarità tutta italiana! – e hanno spiegato come fosse dettata da motivazioni banalmente economiche: usare la scuola come ammortizzatore sociale. Persino “Repubblica” allora gridò allo scandalo. Da quando è riesplosa la questione si è scritto e riscritto per spiegare le serie ragioni pedagogiche che giustificano la scelta del maestro prevalente. Si è spiegato come le attuali modalità di formazione producano maestri “nullologi”, non tuttologi e tantomeno specializzati. A tali argomentazioni i dirigenti della sinistra e dei sindacati hanno fatto orecchie da mercante, buttandola in retorica e slogan. Questo squallido coro basta da solo a soffocare ogni possibilità di discussione seria per non doverlo rafforzare con altre voci.
Se si propone di “discutere” su premesse come la “lettera della maestra Maria” – retorica allo stato puro – non ha senso chiedere al ministro Gelmini di aprirsi alla discussione e di presentarsi agli “stati generali” della scuola per farsi capire e trovare un terreno di mediazione. Tanto per cominciare nella scuola non possono e non debbono esistere stati generali e sale della pallacorda in cui primo, secondo, terzo o quarto stato decidano “democraticamente” come gestirla. La scuola non è un luogo di democrazia, altrimenti è morta. La cultura e le forme dell’insegnamento non possono essere risultato di mediazione tra soggetti – insegnanti, famiglie e alunni – che sono necessariamente collocati in posizioni non paritarie. Tantomeno può essere gestita in consociazione col sindacato. Sono anni che si dice: alla larga dalla concertazione e dalla consociazione. Vogliamo riesumarle proprio per la scuola?
Certo, il ministro Gelmini deve ascoltare, consultare, discutere quanto più possibile. L’ha fatto molto più di quanto non si dica. Potrebbe farlo ancora di più sempre che non si faccia finta di non sentire. Ma discutere, ascoltare, consultare ha senso se poi si decide in autonomia. Forse non è abbastanza chiaro che se una “riformetta” come questa ha destato tanto scandalo non è certamente per i suoi limitati contenuti. È perché il ministro Gelmini ha fatto qualcosa di imperdonabile: ovvero, dopo aver ascoltato e riflettuto per qualche mese, ha preso una decisione senza chiedere il permesso (meglio se a mani giunte e in ginocchio) a coloro che si ritengono unici proprietari della scuola, in primo luogo i sindacati. Forse chi sta fuori dal mondo dell’istruzione non se ne rende conto, ma chi protesta non sono “gli” studenti, “i” professori, “le” famiglie. Sarebbe un grave errore sottovalutare – anche se si sentono urla da una parte sola – il numero crescente di coloro che non ne possono più di quei prepotenti proprietari e delle foglie di fico culturali con cui si tentano di coprire i disastri combinati dall’ideologia dell’autoapprendimento e della scuola come progettificio.
(4 novembre 2008)
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Ho letto con sconcerto l’articolo “Lettera di una maestra unica” a firma di Claudio Cerasa (Il Foglio, 1 novembre) e dall’imbarazzante sottotitolo: “Storia di una combattiva insegnante elementare alle prese con una riforma che ha deciso di non applicare”. Era meglio dire: “che pur di non diventare maestra unica andrà in pensione”. Difatti, la maestra Maria non può “non applicare” una legge dello stato. Il sistema dell’istruzione in Italia va a rotoli anche perché certi insegnanti hanno perso la consapevolezza di essere funzionari pubblici e credono che la scuola sia il salotto di casa loro.
Ma lasciamo perdere. La maestra Maria andrà in pensione, delusa e umiliata perché le hanno tolto la sua bellissima scuola. Le ragioni di questa amara delusione sono descritte mettendo in contrasto la miseria delle motivazioni addotte per giustificare la scelta del maestro unico con il quadro di una scuola impeccabile dipinto con un lirismo da caricatura del Libro Cuore. A fine lettura resta in mano questo messaggio: rozze forbici senza cervello stanno compiendo uno stupro di cultura, entusiasmo, impegno.
È un elogio (senza argomenti) della nobile figura di una vera maestra offesa dalla barbarie. E gli altri? Chi sono quei maestri che scrivono ogni giorno lettere altrettanto dolenti ma di segno esattamente opposto a quello della maestra Maria? Chi sono coloro che dipingono come scuola del disastro quel luogo di tante, troppe attività, «un ridicolo, pietoso luogo di intrattenimento che moltiplica la quantità dell’“offerta formativa” scambiandola per qualità», che «non ha più niente da dire perché non ha più niente in cui credere»? Chi sono quei maestri che denunciano che nella primaria attuale «è concesso di fare tutto (animatore, ballerino, artista, vigile del fuoco, agente della sicurezza, crocerossina, occultatore dell’ignoranza degli alunni), tutto tranne l’insegnante»? Sono beceri insensibili e ignoranti? E i libri che da anni denunciano la distruzione di una delle migliori scuole elementari del mondo chi li ha scritti? Scherani «non all’altezza dei compiti degli insegnanti» al servizio dal perverso intento di «sforbiciare diciannove anni di storia» e «la storia di persone come Maria»?
Non si può invitare alla discussione razionale facendo una caricatura manichea della realtà. Perché alla testimonianza di Maria è fin troppo facile contrapporre una valanga di testimonianze di segno opposto ben altrimenti argomentate e frutto dell’esperienza di persone di indiscutibile “altezza”. Il caso vuole che queste ultime non trovino facilmente spazio. Questa censura è «opera di un’ideologia di sinistra in sfacelo che ormai trova il suo unico rifugio e ragion d’essere nella scuola» (citazione dalla lettera di un insegnante) e che cerca di soffocare ogni discussione ripetendo ossessivamente la litania urlata della “scuola migliore del mondo” in preda alla barbarie degli incolti. Da quando fu introdotto il maestro plurimo tante persone autorevoli hanno argomentato in mille modi l’assurdità di quella scelta – che è peraltro una peculiarità tutta italiana! – e hanno spiegato come fosse dettata da motivazioni banalmente economiche: usare la scuola come ammortizzatore sociale. Persino “Repubblica” allora gridò allo scandalo. Da quando è riesplosa la questione si è scritto e riscritto per spiegare le serie ragioni pedagogiche che giustificano la scelta del maestro prevalente. Si è spiegato come le attuali modalità di formazione producano maestri “nullologi”, non tuttologi e tantomeno specializzati. A tali argomentazioni i dirigenti della sinistra e dei sindacati hanno fatto orecchie da mercante, buttandola in retorica e slogan. Questo squallido coro basta da solo a soffocare ogni possibilità di discussione seria per non doverlo rafforzare con altre voci.
Se si propone di “discutere” su premesse come la “lettera della maestra Maria” – retorica allo stato puro – non ha senso chiedere al ministro Gelmini di aprirsi alla discussione e di presentarsi agli “stati generali” della scuola per farsi capire e trovare un terreno di mediazione. Tanto per cominciare nella scuola non possono e non debbono esistere stati generali e sale della pallacorda in cui primo, secondo, terzo o quarto stato decidano “democraticamente” come gestirla. La scuola non è un luogo di democrazia, altrimenti è morta. La cultura e le forme dell’insegnamento non possono essere risultato di mediazione tra soggetti – insegnanti, famiglie e alunni – che sono necessariamente collocati in posizioni non paritarie. Tantomeno può essere gestita in consociazione col sindacato. Sono anni che si dice: alla larga dalla concertazione e dalla consociazione. Vogliamo riesumarle proprio per la scuola?
Certo, il ministro Gelmini deve ascoltare, consultare, discutere quanto più possibile. L’ha fatto molto più di quanto non si dica. Potrebbe farlo ancora di più sempre che non si faccia finta di non sentire. Ma discutere, ascoltare, consultare ha senso se poi si decide in autonomia. Forse non è abbastanza chiaro che se una “riformetta” come questa ha destato tanto scandalo non è certamente per i suoi limitati contenuti. È perché il ministro Gelmini ha fatto qualcosa di imperdonabile: ovvero, dopo aver ascoltato e riflettuto per qualche mese, ha preso una decisione senza chiedere il permesso (meglio se a mani giunte e in ginocchio) a coloro che si ritengono unici proprietari della scuola, in primo luogo i sindacati. Forse chi sta fuori dal mondo dell’istruzione non se ne rende conto, ma chi protesta non sono “gli” studenti, “i” professori, “le” famiglie. Sarebbe un grave errore sottovalutare – anche se si sentono urla da una parte sola – il numero crescente di coloro che non ne possono più di quei prepotenti proprietari e delle foglie di fico culturali con cui si tentano di coprire i disastri combinati dall’ideologia dell’autoapprendimento e della scuola come progettificio.
(4 novembre 2008)
Un ottimo articolo di Luca Ricolfi
Il mito della scuola elementare
Ci sono, nelle politiche governative in materia di istruzione, parecchie cose che mi lasciano perplesso. Ad esempio la mancanza di una diagnosi convincente dei mali della nostra scuola e della nostra università. Il vuoto di iniziative forti per aumentare il numero di asili nido, specialmente nel Mezzogiorno (uno dei cosiddetti obiettivi di Lisbona: portare la copertura al 33% entro il 2010, contro l’11% attuale). Soprattutto non mi piace per niente il fatto che all’Università (dove lavoro) i tagli della manovra finanziaria 2009-2011 siano uguali per tutti gli Atenei, quando da anni - grazie ad una serie di ottime ricerche - si sa con precisione quali sono gli atenei che spendono (relativamente) bene i loro fondi e quali li dilapidano in una corsa senza senso all’aumento del personale e agli avanzamenti di carriera.
E tuttavia, nonostante queste riserve, stento a capire l’incredibile pioggia di critiche, insulti, manifestazioni, sceneggiate, lezioni di pedagogia (e talora di democrazia) che sono state riversate sul neo-ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini non appena ha cominciato a occuparsi di scuola, e in particolare di quella elementare (per una rassegna consiglio di vistare il sito del Partito democratico e quello della Cgil-scuola, ora ridenominata Flc).
Il mio stupore nasce da due ragioni distinte. La prima è che, andando a controllare le cifre (DL 112, art. 64, comma 6), si scopre che la maggior parte dei numeri spaventa-famiglie che sono stati agitati sono semplicemente falsi. Non è vero che il bilancio della scuola subirà tagli per 8 miliardi: il taglio del prossimo anno sarà inferiore a 0,5 miliardi (1% del budget), i tagli netti previsti per il triennio 2009-2011 sono pari a 3,6 miliardi spalmati su tre anni. Non è vero che saranno licenziati 87 mila insegnanti: la riduzione del numero di cattedre avverrà limitando le nuove assunzioni, la cifra di 87 mila insegnati in meno si raggiungerà nel 2012 e include nel calcolo le riduzioni già pianificate da Prodi (circa 20 mila unità, a suo tempo giudicate insufficienti nel Quaderno bianco sulla scuola pubblicato giusto un anno fa dal precedente governo). Non è vero che, nelle scuole elementari, sparirà il tempo pieno e tutti i bambini dovranno tornare a casa alle 12,30: l’introduzione del maestro unico, con conseguente soppressione delle ore di compresenza, libererà un numero di ore più che sufficiente ad aumentare le ore di tempo pieno eventualmente richieste dalle famiglie. Né si vede su quali basi l’opposizione agiti lo spettro di una riduzione degli insegnanti di sostegno, o della chiusura delle scuole di montagna (nessuna norma della Finanziaria lo prevede, e il ministro ha esplicitamente escluso tale eventualità).
Ma c’è un secondo motivo per cui mi è incomprensibile lo tsunami anti-Gelmini di queste settimane: i critici danno per scontato che la scuola elementare così com’è vada bene, e che l’introduzione del maestro unico sia una scelta didatticamente sbagliata. Può darsi, ma non ne sarei così sicuro, e vorrei spiegare perché. Se la scuola elementare italiana fosse così ben congegnata come ripetono i suoi paladini, forse non osserveremmo quotidianamente quel che invece osserviamo. E cioè che sia nelle scuole medie sia (incredibilmente) all’università tantissimi ragazzi, oltre a fare errori di grammatica e ortografia con cui un tempo nessuno avrebbe preso la licenza elementare, non sanno organizzare un discorso né a voce né per iscritto, non sono in grado di progettare una tesi o una tesina, non conoscono il significato esatto delle parole, fanno sistematicamente errori logici, non sanno spiegare un concetto né costruire un’argomentazione, insomma non capiscono e non riescono a farsi capire se non in situazioni ultra-semplici (in una parola sono «ignoranti», secondo la bella definizione del libro di Floris uscito in questi giorni: La fabbrica degli ignoranti, Rizzoli). In breve i ragazzi spesso sono debolissimi proprio nell’organizzazione del pensiero e nella padronanza del linguaggio, ossia precisamente in ciò che avrebbero dovuto acquisire nei cinque anni di scuola elementare. Il sospetto è che la scuola elementare di oggi, pur essendo perfetta come luogo di socializzazione e di ricreazione, sia ben poco capace di trasmettere conoscenze e formare capacità, ivi compresa la capacità di concentrarsi, di ordinare le idee, di autovalutarsi, di mettere impegno in attività non immediatamente gratificanti.
A questa osservazione si potrebbe obiettare, e certamente qualcuno obietterà, che sia i test nazionali (Invalsi) sia i test internazionali (Pirls, Timss, Pisa) ci restituiscono un’immagine ben più ottimistica della scuola elementare italiana. Ma questo è vero solo in parte. I test internazionali condotti sui bambini in quarta elementare danno risultati opposti a seconda degli ambiti considerati (l’Italia è ai primi posti nei test di lettura, ma precipita agli ultimi sia in quelli di matematica sia in quelli di scienze). Quanto ai test nazionali essi indicano che il declino dei livelli di apprendimento fra i 7 e i 16 anni è costante e inizia già nelle elementari (in quarta i bambini vanno sensibilmente peggio che in seconda). Forse la cattiva fama della scuola media inferiore e dei suoi insegnanti è in parte immeritata: è vero, i risultati dei ragazzi delle medie sono pessimi, ma forse lo sono proprio perché la scuola elementare - con la sua impostazione ludica - non li prepara alle prove che dovranno affrontare quando entreranno in un mondo vero, meno protetto, in cui ci sono anche frustrazioni e si deve essere capaci di studiare da soli (cosa che molti bambini non imparano mai a fare: un effetto perverso del tempo pieno?).
Conclusione? Nessuna, solo una preghiera: anziché fare dello spirito sul grembiulino e del terrorismo sul tempo pieno, proviamo a riflettere seriamente - ossia senza preconcetti ideologici - sui vizi e le virtù della nostra scuola elementare.
Ci sono, nelle politiche governative in materia di istruzione, parecchie cose che mi lasciano perplesso. Ad esempio la mancanza di una diagnosi convincente dei mali della nostra scuola e della nostra università. Il vuoto di iniziative forti per aumentare il numero di asili nido, specialmente nel Mezzogiorno (uno dei cosiddetti obiettivi di Lisbona: portare la copertura al 33% entro il 2010, contro l’11% attuale). Soprattutto non mi piace per niente il fatto che all’Università (dove lavoro) i tagli della manovra finanziaria 2009-2011 siano uguali per tutti gli Atenei, quando da anni - grazie ad una serie di ottime ricerche - si sa con precisione quali sono gli atenei che spendono (relativamente) bene i loro fondi e quali li dilapidano in una corsa senza senso all’aumento del personale e agli avanzamenti di carriera.
E tuttavia, nonostante queste riserve, stento a capire l’incredibile pioggia di critiche, insulti, manifestazioni, sceneggiate, lezioni di pedagogia (e talora di democrazia) che sono state riversate sul neo-ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini non appena ha cominciato a occuparsi di scuola, e in particolare di quella elementare (per una rassegna consiglio di vistare il sito del Partito democratico e quello della Cgil-scuola, ora ridenominata Flc).
Il mio stupore nasce da due ragioni distinte. La prima è che, andando a controllare le cifre (DL 112, art. 64, comma 6), si scopre che la maggior parte dei numeri spaventa-famiglie che sono stati agitati sono semplicemente falsi. Non è vero che il bilancio della scuola subirà tagli per 8 miliardi: il taglio del prossimo anno sarà inferiore a 0,5 miliardi (1% del budget), i tagli netti previsti per il triennio 2009-2011 sono pari a 3,6 miliardi spalmati su tre anni. Non è vero che saranno licenziati 87 mila insegnanti: la riduzione del numero di cattedre avverrà limitando le nuove assunzioni, la cifra di 87 mila insegnati in meno si raggiungerà nel 2012 e include nel calcolo le riduzioni già pianificate da Prodi (circa 20 mila unità, a suo tempo giudicate insufficienti nel Quaderno bianco sulla scuola pubblicato giusto un anno fa dal precedente governo). Non è vero che, nelle scuole elementari, sparirà il tempo pieno e tutti i bambini dovranno tornare a casa alle 12,30: l’introduzione del maestro unico, con conseguente soppressione delle ore di compresenza, libererà un numero di ore più che sufficiente ad aumentare le ore di tempo pieno eventualmente richieste dalle famiglie. Né si vede su quali basi l’opposizione agiti lo spettro di una riduzione degli insegnanti di sostegno, o della chiusura delle scuole di montagna (nessuna norma della Finanziaria lo prevede, e il ministro ha esplicitamente escluso tale eventualità).
Ma c’è un secondo motivo per cui mi è incomprensibile lo tsunami anti-Gelmini di queste settimane: i critici danno per scontato che la scuola elementare così com’è vada bene, e che l’introduzione del maestro unico sia una scelta didatticamente sbagliata. Può darsi, ma non ne sarei così sicuro, e vorrei spiegare perché. Se la scuola elementare italiana fosse così ben congegnata come ripetono i suoi paladini, forse non osserveremmo quotidianamente quel che invece osserviamo. E cioè che sia nelle scuole medie sia (incredibilmente) all’università tantissimi ragazzi, oltre a fare errori di grammatica e ortografia con cui un tempo nessuno avrebbe preso la licenza elementare, non sanno organizzare un discorso né a voce né per iscritto, non sono in grado di progettare una tesi o una tesina, non conoscono il significato esatto delle parole, fanno sistematicamente errori logici, non sanno spiegare un concetto né costruire un’argomentazione, insomma non capiscono e non riescono a farsi capire se non in situazioni ultra-semplici (in una parola sono «ignoranti», secondo la bella definizione del libro di Floris uscito in questi giorni: La fabbrica degli ignoranti, Rizzoli). In breve i ragazzi spesso sono debolissimi proprio nell’organizzazione del pensiero e nella padronanza del linguaggio, ossia precisamente in ciò che avrebbero dovuto acquisire nei cinque anni di scuola elementare. Il sospetto è che la scuola elementare di oggi, pur essendo perfetta come luogo di socializzazione e di ricreazione, sia ben poco capace di trasmettere conoscenze e formare capacità, ivi compresa la capacità di concentrarsi, di ordinare le idee, di autovalutarsi, di mettere impegno in attività non immediatamente gratificanti.
A questa osservazione si potrebbe obiettare, e certamente qualcuno obietterà, che sia i test nazionali (Invalsi) sia i test internazionali (Pirls, Timss, Pisa) ci restituiscono un’immagine ben più ottimistica della scuola elementare italiana. Ma questo è vero solo in parte. I test internazionali condotti sui bambini in quarta elementare danno risultati opposti a seconda degli ambiti considerati (l’Italia è ai primi posti nei test di lettura, ma precipita agli ultimi sia in quelli di matematica sia in quelli di scienze). Quanto ai test nazionali essi indicano che il declino dei livelli di apprendimento fra i 7 e i 16 anni è costante e inizia già nelle elementari (in quarta i bambini vanno sensibilmente peggio che in seconda). Forse la cattiva fama della scuola media inferiore e dei suoi insegnanti è in parte immeritata: è vero, i risultati dei ragazzi delle medie sono pessimi, ma forse lo sono proprio perché la scuola elementare - con la sua impostazione ludica - non li prepara alle prove che dovranno affrontare quando entreranno in un mondo vero, meno protetto, in cui ci sono anche frustrazioni e si deve essere capaci di studiare da soli (cosa che molti bambini non imparano mai a fare: un effetto perverso del tempo pieno?).
Conclusione? Nessuna, solo una preghiera: anziché fare dello spirito sul grembiulino e del terrorismo sul tempo pieno, proviamo a riflettere seriamente - ossia senza preconcetti ideologici - sui vizi e le virtù della nostra scuola elementare.
lunedì 3 novembre 2008
venerdì 31 ottobre 2008
Una risposta a un collega pedagogista
Mi è stato segnalato un commento audiovisivo di un collega pedagogista, il professor Fabio Bocci (Università di Roma Tre) a un mio articolo comparso circa un mese e mezzo fa sul Messaggero: http://vodpod.com/watch/1124443-il-prof-bocci-risponde-a-giorgio-israel-riguardo-la-riforma-gelmini.
Ringrazio il collega per questa polemica aperta e leale. In linea generale, ho avuto confronti privati con pedagogisti (anche molto autorevoli) per lo più molto pacati e comprensivi ma nessuna risposta pubblica, mentre mi sono state segnalate diverse scariche di insulti volgari profferiti in taluni locali universitari. Tanto più trovo apprezzabile che questo collega abbia manifestato il suo dissenso in modo tanto aperto quanto civile.
L'ascolto delle sue parole mi ha colpito. Difatti, il collega Bocci si è sostanzialmente limitato a leggere il mio articolo senza sviluppare contestazioni di merito - argomenti contro argomenti - bensì sottolineando con addolorato stupore le mie tesi come se dovesse essere assolutamente evidente di per se, senza alcun bisogno di dimostrazione, la loro assurdità. Insomma, pare che leggere il mio articolo e sottolineare certi passaggi sia di per se sufficiente a suscitare il rigetto dell'ascoltatore.
Nella sostanza, quel che Bocci mi rimprovera è di "denigrare" la scuola e la pedagogia, asserendo che la prima va male (mentre a lui pare che sia sufficiente asserire che è "falso" che vada male) e che la seconda è responsabile di questo sfascio (che non ci sarebbe), da cui l'assurdità del mio sillogismo.
Il guaio è che il suo è un sillogismo basato su certezze date per evidenti e che non abbisognano di essere dimostrate. E quindi, se tali postulati sono falsi, crolla all'istante. Il problema è dato proprio da quelli che Bocci tratta come postulati e verità evidenti.
1) Lo stato della scuola. La discussione verte ovviamente su quella primaria, dato che nessuno osa mettere in discussione che quella secondaria vada male (se non altro per i famosi test Ocse-Pisa). Ma anche qui, dare per ovvio che la primaria italiana vada bene non è molto ragionevole e qui (come è stato abbondantemente spiegato non esistono test di analogo significato). Esistono invece innumerevoli analisi che vanno nella direzione opposta. Il collega Bocci mi farà la cortesia di non dover ripetere quel che ho scritto in un numero ormai sterminato di articoli, e soprattutto nel mio libro "Chi sono i nemici della scienza?" e di non dover ripetere tutte le referenze ai tanti scritti che avanzano tesi analoghe, ovvero volte a mostrare che il disastro inizia proprio nella scuola elementare. Esiste ormai un'ampia letteratura al riguardo, incluso un gran numero di libri scritti da maestri e professori. Esiste poi un gran numero di testimonianze dirette di genitori e maestri, alcune delle quali contenute sul mio blog e su tanti blog di insegnanti, e che sono ormai tante da poterle raccogliere in un libro. Non credo che sia una buona idea chiudersi nell'autoreferenzialità e nelle proprie sicurezze teoriche invece di guardare con occhi aperti, spirito critico e libertà di pensiero ai fatti.
Mi limito agli ultimissimi episodi raccolti. C'è l'insegnante che, dopo aver scritto sul mio blog che i suoi alunni (delle secondarie) non sanno che un chilometro vale mille metri, perché non sanno che "chilo" è "mille" si chiede se ciò non sia colpa di elementari in cui circolano maestri che emettono simili sentenze: "Si è passati dalla scuola nozionistica ad una scuola che potenzia le capacità di pensare, di dedurre. Il maestro non trasmette solo conoscenze, ma crea strutture di apprendimento". È la vulgata corrente, è la parola d'ordine della scuola degli ignoranti e del paese dei balocchi.
Un'ora fa ho raccolto questa testimonianza da amici che hanno partecipato ieri a una riunione di classe. La maestra di italiano ha proclamato: "Non ha alcuna importanza se un bambino scrive "è" senza accento e "ha" senza "h", quel che importa è come pensa, le sue strutture mentali"... E la maestra di matematica di rincalzo: "Non ha nessuna importanza saper fare un'addizione o una moltiplicazione, quel che conta è cosa il bambino pensa dell'addizione e della moltiplicazione"... Mentre vengono profferite simile indegne e devastanti ridicolaggini, tutti noi genitori constatiamo che i nostri figli in terza o quarta elementare non sanno risolvere banali problemini. Per esempio, stamattina portandolo a scuola, ho tentato vanamente di far risolvere a mio figlio, che aveva parlato di "cento mesi", il problema di quanti anni valessero questi cento mesi. Non riusciva a formalizzare la questione, ovvero che doveva dividere 100 per 12 e quando, con la mia guida vi è pervenuto, ha sbagliato il resto della divisione. In linguaggio pedagogista potremmo dire che è una catastrofe in termini di "competenze". È una catastrofe che deriva dall'ideologia sopradescritta, perché per la maestra mio figlio pensa benissimo, anzi è il migliore della classe.
In conclusione, invece di liquidare il problema come "falsità" e "denigrazione", Bocci farebbe bene a aprire un riflessione critica sullo stato reale della scuola primaria e ascoltare le tantissime voci che parlano di una realtà diversa da quella che lui si figura. Comunque, tolga di mezzo il ricatto: dire che la scuola primaria non va è una "tesi" non è una "denigrazione", tantomeno un "attacco" alla scuola.
2) Arriviamo così al discorso sulla pedagogia. La mia tesi è che il disastro attuale della scuola italiana (di tutta la scuola italiana) è responsabilità di chi ne ha gestito le riforme e individuo tale responsabilità (come fanno moltissimi, e non soltanto in Italia!) nelle correnti della pedagogia dell'autoformazione (o autoapprendimento), del "meglio una testa ben fatta che una testa piena", che hanno preso le mosse dall'opera di Dewey e hanno avuto un referente fondamentale in quella di Edgar Morin. Ora qui Bocci mi vorrà consentire che criticare "questa" pedagogia non significa "attaccare" e "denigrare" la pedagogia in quanto tale. Ritengo che chi condanni la pedagogia in quanto tale sia semplicemente un cretino. Probabilmente io sono un cretino, ma certamente non per questo motivo. Spero però che Bocci non commetta il peccato di superbia di identificare queste correnti pedagogiche con la pedagogia in quanto tale per poi mettere alla gogna chiunque le critichi come "nemico" e "denigratore" della pedagogia... Sarebbe come se io fossi criticato per fare cattive lezioni di matematica o di storia della scienza e di formare dei pessimi allievi e mi difendessi dicendo che si sta portando un attacco denigratorio alla matematica o alla scienza. Sarei a questo punto giustamente imputabile di delirio di potenza. Ma io non credo che Bocci sia affetto da un delirio di potenza e tantomeno che il suo sia un peccato di superbia. Mi permetterei invece, da storico della scienza, di ricordargli la lezione di Thomas Kuhn circa quel che accade quando un paradigma scientifico tende a cristallizzarsi in "scienza normale" e si identifica con l'unico modo possibile di fare scienza. È la fase del dogmatismo, del manifestarsi di una sterilità del paradigma, di una sua incapacità di rinnovarsi e vivificarsi nel confronto con la critica, e questo chiudersi in se è il preoccupante segnale di un declino inarrestabile. Perciò, al posto di Bocci, mi preoccuperei, e parecchio. La sua identificazione del paradigma pedagogico a lui caro, e che senza ombra di dubbio ha influenzato le riforme scolastiche da almeno trent'anni, con la pedagogia tout court non è una manifestazione di superbia (da escludersi in una persona come Bocci) quanto il segnale di una paralisi della capacità critica divenuta persino inconsapevole. E quando si spegne la capacità di mettersi in discussione è il segnale di una crisi difficilmente reversibile. Provi quindi Bocci a non dare per scontato che le teorie pedagogiche cui egli si rifa sono il Vangelo e a confrontarsi con chi le critica - magari anche duramente: la critica dura e vivace è il sale della discussione e del progresso scientifico! - a confrontarsi con gli argomenti altrui, a provare a confutarli nel merito, invece di additarli in quanto "attacco" e "denigrazione" a un'indignazione pubblica che non è ovvia (e purtroppo per lui non lo è). Naturalmente non entro nel merito perché ritengo di averlo fatto abbondantemente: mi attenderei piuttosto di essere letto e contraddetto nel merito della pienezza dei miei argomenti, e non leggendo una frase di un articolo.
Un ultimo punto. Bocci mi accusa per aver parlato di un "complesso sindacale-psico-pedagogico-docimologico che domina la scuola da trent’anni e che è responsabile del suo stato attuale" e quindi di aver additato i pedagogisti come una sorta di "massoneria". Lasci perdere questo termine: non l'ho usato e basta. Guardi invece alla realtà. È da quarant'anni che i sindacati confederali (e in particolare la Cgil) hanno esteso in modo incontrastato il loro potere sul sistema dell'istruzione. Non ho nulla contro i sindacati, ma credo che dovrebbero stare al loro posto, ovvero occuparsi di questioni stipendiali e normative e non impicciarsi di organizzazione scolastica. Invece, assistiamo da tempo - e basta leggere le recenti proposte della "Federazione dei Lavoratori della Conoscenza" per averne la conferma - a un'intrusione persino nella determinazione dei programmi scolastici. Arriviamo al punto che, mentre persone come il sottoscritto e docenti del livello di un Giovanni Sartori o di un Aldo Schiavone vengono rudemente invitati a presentare le loro credenziali accademiche da ignoranti semianalfabeti soltanto per aver parlato di necessario rigore nella scuola, un ragioniere esperto soltanto di sindacati edili e tessili si mette a discettare di pedagogia e viene preso anche sul serio. Bocci sa benissimo che la pedagogia che piace a questi signori e che hanno difeso a spada tratta anche in questi giorni di scioperi e manifestazioni, è quella che domina da trent'anni e più nei corridoi ministeriali, indipendentemente dai ministri e dal loro colore politico. Non c'è bisogno che faccia nomi e cognomi perché Bocci li conosce a memoria: i "pedagogisti di stato" che hanno determinato il corso della scuola italiana quantomeno nelle ultime tre legislature sono gli stessi.
È a loro che vanno imputati i risultati attuali. Vanno imputati ai teorici dell'autoapprendimento, a coloro che hanno scritto indegni programmi e indicazioni nazionali - sulla cui indecenza disciplinare sono pronto a qualsiasi confronto, mentre constato sempre una precipitosa fuga. Vanno imputati a coloro che hanno trasformato lo strutturalismo in uno strumento ideologico, facendo credere che l'insegnamento non sia un processo in cui le nozioni vengono apprese attraverso un metodo, bensì una serie di strutture autoreferenziali da riempire a piacere. Va imputato a quella consorteria di docimologi che applicano tecniche di valutazione impresentabili, per esempio basate su un uso risibile della distribuzione gaussiana. Tutte queste persone sono legate da un'ideologia comune, e spesso da un'appartenenza politico-sindacale e comunque da comuni intenti dichiarati senza infingimenti.
Quando si hanno grandi responsabilità di gestione e di potere non ci si può sottrarre alla responsabilità nei risultati.
Questo è il punto. Lasciamo perdere la massoneria.
Perciò, caro Bocci, invece di scandalizzarsi e di tentare di suscitare lo scandalo altrui, come se fosse una reazione dovuta e inevitabile, discutiamo criticamente e in modo aperto. Mettetevi in discussione. Potrà soltanto farvi bene.
Molti cordiali saluti,
Giorgio Israel
Ringrazio il collega per questa polemica aperta e leale. In linea generale, ho avuto confronti privati con pedagogisti (anche molto autorevoli) per lo più molto pacati e comprensivi ma nessuna risposta pubblica, mentre mi sono state segnalate diverse scariche di insulti volgari profferiti in taluni locali universitari. Tanto più trovo apprezzabile che questo collega abbia manifestato il suo dissenso in modo tanto aperto quanto civile.
L'ascolto delle sue parole mi ha colpito. Difatti, il collega Bocci si è sostanzialmente limitato a leggere il mio articolo senza sviluppare contestazioni di merito - argomenti contro argomenti - bensì sottolineando con addolorato stupore le mie tesi come se dovesse essere assolutamente evidente di per se, senza alcun bisogno di dimostrazione, la loro assurdità. Insomma, pare che leggere il mio articolo e sottolineare certi passaggi sia di per se sufficiente a suscitare il rigetto dell'ascoltatore.
Nella sostanza, quel che Bocci mi rimprovera è di "denigrare" la scuola e la pedagogia, asserendo che la prima va male (mentre a lui pare che sia sufficiente asserire che è "falso" che vada male) e che la seconda è responsabile di questo sfascio (che non ci sarebbe), da cui l'assurdità del mio sillogismo.
Il guaio è che il suo è un sillogismo basato su certezze date per evidenti e che non abbisognano di essere dimostrate. E quindi, se tali postulati sono falsi, crolla all'istante. Il problema è dato proprio da quelli che Bocci tratta come postulati e verità evidenti.
1) Lo stato della scuola. La discussione verte ovviamente su quella primaria, dato che nessuno osa mettere in discussione che quella secondaria vada male (se non altro per i famosi test Ocse-Pisa). Ma anche qui, dare per ovvio che la primaria italiana vada bene non è molto ragionevole e qui (come è stato abbondantemente spiegato non esistono test di analogo significato). Esistono invece innumerevoli analisi che vanno nella direzione opposta. Il collega Bocci mi farà la cortesia di non dover ripetere quel che ho scritto in un numero ormai sterminato di articoli, e soprattutto nel mio libro "Chi sono i nemici della scienza?" e di non dover ripetere tutte le referenze ai tanti scritti che avanzano tesi analoghe, ovvero volte a mostrare che il disastro inizia proprio nella scuola elementare. Esiste ormai un'ampia letteratura al riguardo, incluso un gran numero di libri scritti da maestri e professori. Esiste poi un gran numero di testimonianze dirette di genitori e maestri, alcune delle quali contenute sul mio blog e su tanti blog di insegnanti, e che sono ormai tante da poterle raccogliere in un libro. Non credo che sia una buona idea chiudersi nell'autoreferenzialità e nelle proprie sicurezze teoriche invece di guardare con occhi aperti, spirito critico e libertà di pensiero ai fatti.
Mi limito agli ultimissimi episodi raccolti. C'è l'insegnante che, dopo aver scritto sul mio blog che i suoi alunni (delle secondarie) non sanno che un chilometro vale mille metri, perché non sanno che "chilo" è "mille" si chiede se ciò non sia colpa di elementari in cui circolano maestri che emettono simili sentenze: "Si è passati dalla scuola nozionistica ad una scuola che potenzia le capacità di pensare, di dedurre. Il maestro non trasmette solo conoscenze, ma crea strutture di apprendimento". È la vulgata corrente, è la parola d'ordine della scuola degli ignoranti e del paese dei balocchi.
Un'ora fa ho raccolto questa testimonianza da amici che hanno partecipato ieri a una riunione di classe. La maestra di italiano ha proclamato: "Non ha alcuna importanza se un bambino scrive "è" senza accento e "ha" senza "h", quel che importa è come pensa, le sue strutture mentali"... E la maestra di matematica di rincalzo: "Non ha nessuna importanza saper fare un'addizione o una moltiplicazione, quel che conta è cosa il bambino pensa dell'addizione e della moltiplicazione"... Mentre vengono profferite simile indegne e devastanti ridicolaggini, tutti noi genitori constatiamo che i nostri figli in terza o quarta elementare non sanno risolvere banali problemini. Per esempio, stamattina portandolo a scuola, ho tentato vanamente di far risolvere a mio figlio, che aveva parlato di "cento mesi", il problema di quanti anni valessero questi cento mesi. Non riusciva a formalizzare la questione, ovvero che doveva dividere 100 per 12 e quando, con la mia guida vi è pervenuto, ha sbagliato il resto della divisione. In linguaggio pedagogista potremmo dire che è una catastrofe in termini di "competenze". È una catastrofe che deriva dall'ideologia sopradescritta, perché per la maestra mio figlio pensa benissimo, anzi è il migliore della classe.
In conclusione, invece di liquidare il problema come "falsità" e "denigrazione", Bocci farebbe bene a aprire un riflessione critica sullo stato reale della scuola primaria e ascoltare le tantissime voci che parlano di una realtà diversa da quella che lui si figura. Comunque, tolga di mezzo il ricatto: dire che la scuola primaria non va è una "tesi" non è una "denigrazione", tantomeno un "attacco" alla scuola.
2) Arriviamo così al discorso sulla pedagogia. La mia tesi è che il disastro attuale della scuola italiana (di tutta la scuola italiana) è responsabilità di chi ne ha gestito le riforme e individuo tale responsabilità (come fanno moltissimi, e non soltanto in Italia!) nelle correnti della pedagogia dell'autoformazione (o autoapprendimento), del "meglio una testa ben fatta che una testa piena", che hanno preso le mosse dall'opera di Dewey e hanno avuto un referente fondamentale in quella di Edgar Morin. Ora qui Bocci mi vorrà consentire che criticare "questa" pedagogia non significa "attaccare" e "denigrare" la pedagogia in quanto tale. Ritengo che chi condanni la pedagogia in quanto tale sia semplicemente un cretino. Probabilmente io sono un cretino, ma certamente non per questo motivo. Spero però che Bocci non commetta il peccato di superbia di identificare queste correnti pedagogiche con la pedagogia in quanto tale per poi mettere alla gogna chiunque le critichi come "nemico" e "denigratore" della pedagogia... Sarebbe come se io fossi criticato per fare cattive lezioni di matematica o di storia della scienza e di formare dei pessimi allievi e mi difendessi dicendo che si sta portando un attacco denigratorio alla matematica o alla scienza. Sarei a questo punto giustamente imputabile di delirio di potenza. Ma io non credo che Bocci sia affetto da un delirio di potenza e tantomeno che il suo sia un peccato di superbia. Mi permetterei invece, da storico della scienza, di ricordargli la lezione di Thomas Kuhn circa quel che accade quando un paradigma scientifico tende a cristallizzarsi in "scienza normale" e si identifica con l'unico modo possibile di fare scienza. È la fase del dogmatismo, del manifestarsi di una sterilità del paradigma, di una sua incapacità di rinnovarsi e vivificarsi nel confronto con la critica, e questo chiudersi in se è il preoccupante segnale di un declino inarrestabile. Perciò, al posto di Bocci, mi preoccuperei, e parecchio. La sua identificazione del paradigma pedagogico a lui caro, e che senza ombra di dubbio ha influenzato le riforme scolastiche da almeno trent'anni, con la pedagogia tout court non è una manifestazione di superbia (da escludersi in una persona come Bocci) quanto il segnale di una paralisi della capacità critica divenuta persino inconsapevole. E quando si spegne la capacità di mettersi in discussione è il segnale di una crisi difficilmente reversibile. Provi quindi Bocci a non dare per scontato che le teorie pedagogiche cui egli si rifa sono il Vangelo e a confrontarsi con chi le critica - magari anche duramente: la critica dura e vivace è il sale della discussione e del progresso scientifico! - a confrontarsi con gli argomenti altrui, a provare a confutarli nel merito, invece di additarli in quanto "attacco" e "denigrazione" a un'indignazione pubblica che non è ovvia (e purtroppo per lui non lo è). Naturalmente non entro nel merito perché ritengo di averlo fatto abbondantemente: mi attenderei piuttosto di essere letto e contraddetto nel merito della pienezza dei miei argomenti, e non leggendo una frase di un articolo.
Un ultimo punto. Bocci mi accusa per aver parlato di un "complesso sindacale-psico-pedagogico-docimologico che domina la scuola da trent’anni e che è responsabile del suo stato attuale" e quindi di aver additato i pedagogisti come una sorta di "massoneria". Lasci perdere questo termine: non l'ho usato e basta. Guardi invece alla realtà. È da quarant'anni che i sindacati confederali (e in particolare la Cgil) hanno esteso in modo incontrastato il loro potere sul sistema dell'istruzione. Non ho nulla contro i sindacati, ma credo che dovrebbero stare al loro posto, ovvero occuparsi di questioni stipendiali e normative e non impicciarsi di organizzazione scolastica. Invece, assistiamo da tempo - e basta leggere le recenti proposte della "Federazione dei Lavoratori della Conoscenza" per averne la conferma - a un'intrusione persino nella determinazione dei programmi scolastici. Arriviamo al punto che, mentre persone come il sottoscritto e docenti del livello di un Giovanni Sartori o di un Aldo Schiavone vengono rudemente invitati a presentare le loro credenziali accademiche da ignoranti semianalfabeti soltanto per aver parlato di necessario rigore nella scuola, un ragioniere esperto soltanto di sindacati edili e tessili si mette a discettare di pedagogia e viene preso anche sul serio. Bocci sa benissimo che la pedagogia che piace a questi signori e che hanno difeso a spada tratta anche in questi giorni di scioperi e manifestazioni, è quella che domina da trent'anni e più nei corridoi ministeriali, indipendentemente dai ministri e dal loro colore politico. Non c'è bisogno che faccia nomi e cognomi perché Bocci li conosce a memoria: i "pedagogisti di stato" che hanno determinato il corso della scuola italiana quantomeno nelle ultime tre legislature sono gli stessi.
È a loro che vanno imputati i risultati attuali. Vanno imputati ai teorici dell'autoapprendimento, a coloro che hanno scritto indegni programmi e indicazioni nazionali - sulla cui indecenza disciplinare sono pronto a qualsiasi confronto, mentre constato sempre una precipitosa fuga. Vanno imputati a coloro che hanno trasformato lo strutturalismo in uno strumento ideologico, facendo credere che l'insegnamento non sia un processo in cui le nozioni vengono apprese attraverso un metodo, bensì una serie di strutture autoreferenziali da riempire a piacere. Va imputato a quella consorteria di docimologi che applicano tecniche di valutazione impresentabili, per esempio basate su un uso risibile della distribuzione gaussiana. Tutte queste persone sono legate da un'ideologia comune, e spesso da un'appartenenza politico-sindacale e comunque da comuni intenti dichiarati senza infingimenti.
Quando si hanno grandi responsabilità di gestione e di potere non ci si può sottrarre alla responsabilità nei risultati.
Questo è il punto. Lasciamo perdere la massoneria.
Perciò, caro Bocci, invece di scandalizzarsi e di tentare di suscitare lo scandalo altrui, come se fosse una reazione dovuta e inevitabile, discutiamo criticamente e in modo aperto. Mettetevi in discussione. Potrà soltanto farvi bene.
Molti cordiali saluti,
Giorgio Israel
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