La riforma dell’università è un tassello fondamentale della riforma del sistema dell’istruzione nazionale. Attorno al disegno di legge in discussione in Parlamento si sta sviluppando un dibattito che, da un lato ha dimostrato un’ampia convergenza sulle linee fondamentali del testo, d’altro lato ha messo in luce gli aspetti su cui possono essere apportate utili revisioni.
In termini generali, ogni intervento dovrebbe ispirarsi al principio di non stressare un sistema che da decenni non conosce requie. Alla lunga, trasformare l’università in un perpetuo cantiere può avere effetti devastanti. Se l’attività prevalente dei docenti non è più insegnare e far ricerca bensì implementare nuove leggi e decreti, ciò non è soltanto negativo in sé, ma favorisce coloro che sono più abili a “gestire” che non a compiere le funzioni per cui sono stati assunti. Occorre quindi pensare a interventi che ricorrano al bisturi di precisione piuttosto che allo scalpello, limitando al massimo i provvedimenti attuativi.
Da questo punto di vista, il disegno di legge in discussione è convincente nello spirito generale – soprattutto per quanto riguarda il meccanismo di reclutamento e di carriera dei docenti – ma, da un lato, lascia aperti aspetti che andrebbero precisati subito, per evitare il rischio del “cantiere perpetuo” e, dall’altro, contiene troppe regole e meccanismi complicati di taglio dirigistico.
Il provvedimento articola il sistema di governo dell’università in modo convincente, secondo un modello largamente diffuso a livello internazionale, ma non definisce chiaramente le funzioni del Senato accademico rispetto a quelle del Consiglio di amministrazione, col rischio di conflitti di competenza. Inoltre tende a sottrarre al corpo docente la gestione della didattica e della ricerca (il Senato accademico si limita a formulare “proposte” in materia) e mostra una propensione aziendalistica evidente nella struttura del Consiglio di amministrazione, composto di «personalità italiane o straniere di comprovata competenza in campo gestionale e di un’esperienza professionale di alto livello» (per almeno il 40% non universitari). Di questo organo non sono chiarite le modalità di selezione, come se la competenza gestionale o professionale fosse evidente di per sé e al di sopra di ogni valutazione. È noto che il corpo docente non ha buona stampa, ma alla fin fine l’università è pur sempre un’istituzione di cultura, insegnamento e ricerca e non è introducendo una logica aziendale senza verifiche che si può sperare di sanare i mali creati da qualche decennio di assunzioni ope legis e di provvedimenti malamente accatastati e spesso improvvidi come il sistema localistico di reclutamento e il percorso laurea triennale–laurea specialistica. Un confronto con gli statuti di alcune università americane evidenzia in quest’ultime un sistema che attribuisce maggior peso al corpo accademico e che non fa concessioni demagogiche a organi docenti-studenti a composizione addirittura paritetica.
Il disegno di legge sceglie una via giusta quando mira ad attribuire maggiore importanza ai dipartimenti, conferendo loro funzioni didattiche e non soltanto di ricerca e riduce al minimo le funzioni delle facoltà. Ma bisogna fare i conti con le caratteristiche del sistema italiano. Se si volesse davvero fondare tutto il sistema universitario sui dipartimenti occorrerebbe abolire la strutturazione in settori scientifico-disciplinari. Pare evidente a molti che sarebbe un’ottima scelta perché questa strutturazione introduce rigidità grottesche: un docente che voglia cambiare di settore, magari perché ha cambiato attività di ricerca – per esempio da un settore di matematica a uno di fisica – si trova di fronte a ostacoli enormi. Ma abolire il sistema dei settori scientifico-disciplinari sarebbe una rivoluzione da bulldozer, altro che scalpello. E allora, non potendola fare, occorre tenersi le facoltà, altrimenti nessuno potrebbe gestire i tantissimi corsi di laurea interdisciplinari. Quale dipartimento potrebbe mai gestire un corso di laurea di formazione di un insegnante delle scuole secondarie di primo grado? Occorre pensare a facoltà “leggere”, che tengano sedute plenarie solo in casi eccezionali, che si strutturino per commissioni, e il cui preside sia una figura meramente “presidenziale”. Tutto questo dovrebbe essere precisato in dettaglio fin d’ora per rendere il processo di transizione rapido e agile.
È evidente che, per risanare l’università, è necessario un efficace sistema di valutazione. Ma anche qui è necessario alleggerire al massimo le regole e pensare a controlli a valle piuttosto che a tante prescrizioni a monte. Per esempio, per quanto riguarda il reclutamento, l’esperienza suggerisce che non esiste sistema, per quanto stringente, che non possa essere aggirato. È assai meglio concedere molta libertà nel reclutamento e poi valutare ex post i risultati ottenuti. Un esempio tipico di inutili controlli a monte è la norma della quantificazione dell’impegno dei docenti in 1500 ore annue. Può forse avere senso per un’équipe di laboratorio. Ma chi debba fare una ricerca in una biblioteca come sarà controllato? Con una cimice appesa alla giacca o con attestati dei bibliotecari che garantiscano anche che non abbia passato il tempo a fare videogiochi sul computer? Si dice che simili norme sono suggerite dall’Europa: ma non ogni stupidaggine deve essere accolta soltanto perché porta un timbro comunitario.
La scelta del sistema di valutazione non può essere lasciata nel vago in attesa che la costituenda agenzia di valutazione la costruisca chissà come e chissà quando. Per esempio, bisogna dire con chiarezza se il sistema di valutazione deve fondarsi tutto su procedure di valutazione numerica oppure su ispezioni incrociate capillari, ovvero su un severo sistema di autovalutazione di contenuto fatto dalle persone e non basato su procedure automatiche. Sarebbe bene non chiudere gli occhi di fronte alla crescente consapevolezza che certe tecniche di valutazione cosiddette “oggettive” – come l’indice delle citazioni (“citation index”) – funzionano bene soltanto in certi settori come la medicina, mentre danno risultati inattendibili o addirittura disastrosi nei settori delle scienze di base, per non dire delle scienze umane. Andrebbe evitato l’ennesimo errore di importare in ritardo un sistema in vigore all’estero, proprio mentre iniziano a evidenziarsi i suoi limiti. C’è qualcosa di puerile nell’idea – cara agli “esperti” di valutazione, per lo più esperti di tecniche aziendali che non hanno mai insegnato o fatto ricerca un’ora in vita loro – secondo cui la valutazione sarebbe una sorta di novità dei nostri giorni. La valutazione dei risultati della ricerca è inerente allo sviluppo stesso della scienza come attività organizzata e professionalizzata fin dall’Ottocento – inerente in quanto esprime il confronto culturale all’interno della comunità scientifica, un confronto che ha senso soltanto se si manifesta in modo aperto, rigoroso, non anonimo e mirante ai contenuti e non a parametri meramente formali. Un buon sistema di valutazione è soltanto quello che restaura un confronto culturale all’interno della comunità universitaria sui contenuti e sulla qualità della ricerca e della didattica. Ogni approccio che si affidi a meccanismi automatici è una concessione alla pigrizia mentale, penalizza la ricerca di base e stimola alle promozioni facili pur di mostrare che l’università laurea tutti in tempo.
La scelta del sistema di valutazione non può essere lasciata nel vago in attesa che la costituenda agenzia di valutazione la costruisca chissà come e chissà quando. Per esempio, bisogna dire con chiarezza se il sistema di valutazione deve fondarsi tutto su procedure di valutazione numerica oppure su ispezioni incrociate capillari, ovvero su un severo sistema di autovalutazione di contenuto fatto dalle persone e non basato su procedure automatiche. Sarebbe bene non chiudere gli occhi di fronte alla crescente consapevolezza che certe tecniche di valutazione cosiddette “oggettive” – come l’indice delle citazioni (“citation index”) – funzionano bene soltanto in certi settori come la medicina, mentre danno risultati inattendibili o addirittura disastrosi nei settori delle scienze di base, per non dire delle scienze umane. Andrebbe evitato l’ennesimo errore di importare in ritardo un sistema in vigore all’estero, proprio mentre iniziano a evidenziarsi i suoi limiti. C’è qualcosa di puerile nell’idea – cara agli “esperti” di valutazione, per lo più esperti di tecniche aziendali che non hanno mai insegnato o fatto ricerca un’ora in vita loro – secondo cui la valutazione sarebbe una sorta di novità dei nostri giorni. La valutazione dei risultati della ricerca è inerente allo sviluppo stesso della scienza come attività organizzata e professionalizzata fin dall’Ottocento – inerente in quanto esprime il confronto culturale all’interno della comunità scientifica, un confronto che ha senso soltanto se si manifesta in modo aperto, rigoroso, non anonimo e mirante ai contenuti e non a parametri meramente formali. Un buon sistema di valutazione è soltanto quello che restaura un confronto culturale all’interno della comunità universitaria sui contenuti e sulla qualità della ricerca e della didattica. Ogni approccio che si affidi a meccanismi automatici è una concessione alla pigrizia mentale, penalizza la ricerca di base e stimola alle promozioni facili pur di mostrare che l’università laurea tutti in tempo.
(Il Messaggero, 10 marzo 2010)
9 commenti:
L'unica vera riforma da fare e' quella su cui tutti si dicono d'accordo ma che nessuno osa portare avanti: l'abolizione del valore legale del titolo di studio. Tutto il resto, compresa la cancellazione dei settori scientifico-disciplinari, ne sarebbe un corollario.
Lucio Demeio.
L'abolizione del valore legale del titolo di studio avrebbe tante conseguenze: la principale sarebbe la proliferazione di para-corsetti pseudo-scientifici, capaci solo di millantare pseudo-competenze...La solita soluzione all'italiana...
Onestamente preferisco il sistema di accreditamento e di valutazione dell'efficienza, dell'efficacia e del merito dei singoli corsi di laurea...Sarebbe opportuno premiare e accreditare quei settori che hanno un immediato, o quasi immediato, riscontro nel mondo del lavoro, e valutare (e ridimensionare) i settori che preferiscono cullarsi sugli allori...Io, laureato in Filologia Classica e docente precario abilitato SSIS, critico Lettere e Filosofia (non in tutte le sedi, ovviamente): le facoltà umanistiche hanno sempre privilegiato la didattica finalizzata alla ricerca teorica,di base, che è certamente importante, ma che ora, nell'università di massa, deve essere affiancata dalla didattica e dalla ricerca operative...Ora la riforma delle superiori e l'incertezza nell'avvio dei sistemi di formazione docenti stanno mettendo in seria crisi i settori umanistici: è necessario che questi prendano la decisione di svegliarsi e di affiancare alle competenze tradizionali una formazione più professionalizzante...
Grazie e buon lavoro,
Enrico Maria Polizzano
Caro Professore,
alcune cose mi lasciano perplesso in questa riforma:
(a) il costo zero. Mi riesce difficile credere che una qualunque riforma di un sistema possa funzionare senza un massiccio investimento, a meno di violazioni del II principio della termodinamica.
(b) La gestione del transiente; la "tenure track" può essere una soluzione interessante nel lungo termine, ma nel medio termine come si gestisce la progressione in carriera dei ricercatori attuali? La si congela? La si sottopone ad "ope legis" (non sia mai!) ? Li si lascia avvizzire nel limbo del "ti chiedo poco, poco ti dò?" Le conseguenze sulla didattica potrebbero essere pesanti!
(c) La ricerca; che ruolo avrà nelle Università? Sarà tollerata o incoraggiata? La predominanza di non accademici nei consigli di amministrazione fa temere che la ricerca di base verrà penalizzata. Ma è proprio la ricerca di base quella che traina maggiormente tutto il resto, debbo citare il world wide web nato al CERN? Questo non credo che venga compreso, nel paese in cui si spaccia per "innovazione" l'acquisto di una nuova generazione di PC per l'azienda.
Onestamente, l'impressione che si ricava è che chi ha scritto la riforma abbia in mente il modello americano, ma non lo conosca bene.
Ad esempio dimentica che negli Stati Uniti le rette vanno dai 5.000$ nelle università pubbliche, ai 25.000$ annui o più in quelle private, con valori ancora più elevati per facoltà come medicina.
Ancora, dimentica che generosi incentivi fiscali rendono conveniente effettuare copiose donazioni a favore degli atenei, che vanno a costituire enormi capitali e rendono bene, almeno quando la borsa tira.
Per carità con ciò non voglio dire che tutto debba restare come prima! Il sistema universitario italiano ha moltissimi difetti e ha generato mostri come le facoltà di "Scienza della Comunicazione" che non si sa bene a quale bisogno della società rispondano.
Però io temo che riformarlo davvero richiederebbe delle scelte ben più coraggiose; ad esempio, riconvertire gli Atenei minori a "colleges" senza velleità di ricerca, e concentrare le risorse sugli Atenei migliori, anche attraverso una politica seria di mobilità del personale docente.
Una ennesima riforma inefficace davvero mi sembra che non possiamo permettercela, ma temo ormai che ci verrà inflitta.
Cordialmente
Andrea Viceré
Sono d'accordo su gran parte delle cose che dice e infatti le richieste di modifica vanno in tal senso
Complimenti per il tuo blog innanzitutto! Mi farebbe piacere fare uno scambio di link con il mio Psicologia e Salute (www.latuapsicologia.blogspot.com). Ciao
Francesco
Il tuo commento è in attesa di moderazione, grazie!
gentile Professore,
ho sempre sostenuto che nessun sistema di valutazione di merito sia da considerarsi esatto. In realta', la moltiplicazione dei criteri valutativi non fa che peggiorare le cose e, sebbene il curriculum sia sempre la base di una valutazione, questo non puo' che essere una guida per una decisione finale che inevitabilmente si basa su parametri poco o nulla misurabili. In altre parole, io posso benissimo voler scegliere il candidato X, anche se ha 3 pubblicazioni in meno del candidato Y, semplicemente perche' penso che X sia piu' adatto. Ma devo anche dire che, almeno nelle aziende private, questa arbitrarieta' di scelta e' compensata dal fatto che il selezionatore e' poi chiamato a rispondere delle proprie scelte, ed in prima persona - se io mi dimostro un ingegnere maldestro ed inaffidabile, il primo a rimetterci le penne e' il manager che mi ha assunto.
Lei pensa sia possibile introdurre meccanismi simili nell'universita'?
Alfredo: in teoria quello che lei dice non fa una grinza. Però ha mai visto, in Italia almeno, un manager "rimetterci le penne"? I decantati manager privati cadono più in piedi dei prof. universitari, mi creda.
Cara Ilaria, sarei tentato dal rispondere "e' per questo che sono andato via dall'Italia 2 volte" (una volta per l'accademia, una volta per l'industria).
Ma poi devo dire che anche qui, come in Italia ed altrove, i manager privati spesso cadono in piedi. Famoso e' il caso di "sir" Fred Goodwin, che dopo aver fatto fallire la Royal Bank of Scotland si e' preso una buonuscita scandalosa che ha tenuto banco sulle prime pagine dei giornali per mesi. La differenza e' che costui adesso e' in esilio in Francia, e sta trattando una riduzione massiccia della sua pensione per poter rientrare in patria (Scozia) senza essere impeciato e impiumato.
cordiali saluti,
A.G.
Caro Alfredo,
non è impossibile rendere chi seleziona responsabile del lavoro di chi viene assunto, anche nelle Università.
Basta abolire il meccanismo di reclutamento per concorso, o come la si chiama ora valutazione comparativa, volutamente costruito in modo da spersonalizzare la responsabilità dell'assunzione.
In questo senso, una riforma che prevede una abilitazione nazionale e poi una scelta (ma che sia trasparente!) a livello locale è un passo nella giusta direzione, purché ci siano risorse sufficienti per la mobilità, per finanziare lo startup dell'attività di ricerca, per immettere in ruolo ogni anno i migliori e non ogni dieci anni chi si trovava a passare di lì per caso.
Mi spiace ma si torna sempre sullo stesso punto; se un sistema educativo e di ricerca è sotto-finanziato, i migliori (potendo) fuggiranno e non varrà la pena di valutare chi resta.
Cordialità
Andrea Viceré
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