martedì 11 ottobre 2011

Medioriente: le condizioni per la pace

È possibile riflettere sulla questione israelo-palestinese in modo razionale e consapevole degli insegnamenti della storia? Gli esempi avanzati in modo propagandistico non aiutano a capire a progredire costruttivamente. È in voga il parallelismo tra il Sudafrica dei “bantustan” e Israele. Pur concedendo che l’isolamento di zone della Cisgiordania presenti aspetti molto spiacevoli e, in una prospettiva definitiva, inaccettabili, non è obiettivo ignorare le motivazioni di sicurezza contingenti di queste situazioni, e ignorare l’evidenza, e cioè che Israele non è un paese basato sulla separazione etnica. Entro i confini del 1967 vivono centinaia di migliaia di cittadini arabi israeliani rappresentati in parlamento. La spiaggia di Tel Aviv evoca immagini opposte alle spiagge sudafricane dove una persona di colore non poteva mettere piede se non rischiando la galera o la vita. Israele è un paese a maggioranza ebraica con una minoranza araba la cui integrazione deve essere migliorata, ma che è elevata, come prova il fatto che essa non si è lasciata sostanzialmente coinvolgere dall’idea di una lotta contro l’“occupante”. Anche a Gerusalemme, secondo recenti sondaggi, la maggioranza della popolazione araba preferirebbe avere la cittadinanza israeliana; e la costruzione di un tram che collega i due lati della città, deprecata con eccesso di zelo da alcune diplomazie europee, è stata accolta con favore dalla popolazione araba. Resta il fatto che le zone di occupazione israeliana della West Bank vivono in una condizione assolutamente provvisoria, ed è banale dire che è qui il nodo della questione.
Come risolverla? Una delle soluzioni messe sul campo evoca ancora quella sudafricana: uno stato binazionale guidato dalla maggioranza con precise garanzie per la minoranza. Ma qui non c’è una minoranza ebraica di dimensioni modeste come quella bianca sudafricana, né una maggioranza palestinese dotata di una leadership moderata come quella del Mandela di un tempo e capace di fare un miracolo che sembra reggere. Di recente un esponente dell’African National Congress ha espresso fastidio per la presenza di troppi “coloured” nel distretto di Città del Capo ventilandone una dispersione sul territorio: un’idea che ha evocato l’antica politica razzista e ha suscitato aspre reazioni. Nel nostro caso invece l’idea di uno stato palestinese dal mare al Giordano “judenrein” (libero da ebrei) è sostenuta da troppi leader palestinesi, non soltanto da Hamas, senza suscitare rigetto nei moderati. In questa situazione, l’idea dello stato binazionale equivale alla formula “gettare gli ebrei in mare”.
Resta quindi sul campo soltanto la formula “due popoli, due stati”. Già, ma qui vanno enunciate senza infingimenti le alternative: o due stati etnicamente “puri” – uno stato palestinese “judenrein” e uno stato ebraico “palestinischerein” – oppure due stati che integrino in modo democratico e tollerante una minoranza dell’altro popolo.
La prima soluzione non è storicamente inedita. Un esempio tra i tanti è l’accordo del 1922 con cui Grecia e Turchia concordarono un enorme scambio di popolazioni secondo il criterio religioso: un milione e mezzo di ortodossi “tornarono” in Grecia e almeno altrettanti musulmani “tornarono” in Turchia. È possibile oggi, dopo i drammi del razzismo del Novecento, fare qualcosa del genere? È possibile disegnare a tavolino nuovi confini e spostare centinaia di migliaia di persone da una parte all’altra per creare due stati etnicamente puri? C’è chi lo vorrebbe: il morbo del razzismo è lungi dall’essere spento. Israele – l’abbiamo detto – è lungi dall’essere un paese etnicamente puro e la sua dirigenza politica non promuove progetti del genere, anche se nel suo ambito c’è chi li coltiva. Purtroppo, da parte palestinese li coltiva l’intera dirigenza politica, e non soltanto Hamas, ma il “moderato” Abu Mazen, che non si stanca di ripetere che mai verrà riconosciuto uno stato ebraico e che il futuro stato palestinese non accetterà alcuna presenza ebraica.
Ma qui sta il nodo: che cosa si deve intendere per “stato ebraico” (o “stato palestinese”)? L’unico modo di intendere questa nozione è quella di stato etnicamente puro? Non è così. Ha senso parlarne come di uno stato in cui esiste una cultura prevalente – anche legata a fattori religiosi – con tutto il corteo delle implicazioni a livello della vita civile, senza che questa prevalenza implichi l’oppressione di chi appartiene a una cultura diversa. In fin dei conti, è lo status di tanti paesi europei. Minoranze ebraiche hanno vissuto e vivono tranquillamente in paesi in cui prevale una cultura cristiana o cattolica accettando che la festività settimanale sia la domenica e riconoscendosi nelle festività civili che esprimono la storia di quel paese. Fino a non molto tempo fa – prima che prevalesse l’integralismo – hanno vissuto così in molti paesi musulmani. Peraltro, la permanenza storica di un’egemonia culturale non è cosa che possa garantirsi a priori. Discutere o programmare percentuali etniche è una perdita di tempo: la permanenza del carattere “ebraico” o “palestinese” di uno stato dipende esclusivamente dalla vitalità della cultura dominante e non si afferma per legge. Essa dipende da processi storici ingovernabili a tavolino. Ma oggi, nella contingenza politica, è necessario dire con forza che la sola via per uscire dal dramma è quella di due stati basati sul dato di fatto attuale di una egemonia dominante che deve rispettare i diritti delle altre componenti.
Pertanto, non solo è legittimo chiedere alla leadership israeliana la massima chiarezza e coerenza su questo punto, ma è necessario chiederla alla dirigenza palestinese. Non è ammissibile fare equilibrismi tra moderatismo e integralismo, da un lato chiedendo due stati – e quindi ammettendo implicitamente il diritto di Israele a esistere – e poi dire che mai verrà riconosciuto uno stato ebraico, mentre lo stato palestinese sarà etnicamente puro. Due popoli e due stati – ebraico e palestinese – etnicamente “impuri”: fuori da questa formula c’è soltanto la prosecuzione di un dramma sempre più fosco.
(Avvenire, 8 ottobre 2011)


Due lettere inviate al direttore di Avvenire Marco Tarquinio:

 Caro direttore, concordo pienamente con quanto scrive Giorgio Israel sulla situazione del conflitto israelo-palestinese e sulle possibili vie di uscita. Dal 1987 mi reco in quella regione e mi sono fatto un'idea sufficientemente chiara attraverso interviste, colloqui e scambi di opinione con ebrei e arabi israeliani e palestinesi, di Samaria, di Giudea e di Galilea. Credo che molto possa ancora essere fatto dai cristiani, dai cattolici in particolare, per capire le ragioni degli uni e degli altri e per aiutare a giungere alla formazione di due Stati sovrani e democratici (uno lo è già ed è Israele, pur con tutte le défaillances presenti in tutti gli Stati democratici), reciprocamente rispettosi e garanti della convivenza.
Maurizio Del Maschio

Gentile direttore, vi ringrazio per la pubblicazione dell'articolo di Giorgio Israel su Avvenire di sabato 8 ottobre, di tutt'altro tenore rispetto all'intervista al politologo egiziano di qualche settimana fa. Qui riconosco lo stile del "mio" quotidiano cattolico: equilibrato, non fazioso, intelligente, curioso, controcorrente (ossia non prono al politicamente corretto imperante sui media nazionali). Continuate a illuminarci, anche voi contribuite a rendere l'aria più respirabile, secondo l'auspicio del cardinale Bagnasco. Buon lavoro. Bruno Gandolfi, Bolzano
Marco Tarquinio risponde:
Proprio per esercitare, come dice il signor Gandolfi, uno sguardo «equilibrato, non fazioso, intelligente, curioso, controcorrente», Avvenire offre spunti di riflessione e cerca e accoglie opinioni significative, non sempre collimanti tra loro (e con le nostre) ma spesso utili per comprendere i motivi del doloroso conflitto che piaga, da più di 60 anni, il Vicino Oriente e la Terra Santa per individuare le vie e le ragioni della convivenza nella libertà e nella giustizia tra i popoli e le comunità religiose. So che non tutti condividono in toto l'analisi di Giorgio Israel, ma io ne apprezzo molto la profondità e credo che possa essere assai utile a chi ha davvero a cuore il bene della pace.


11 commenti:

Gianfranco Massi ha detto...

Quasi mezzo millennio è trascorso da quando nel 1524, l’editto della Dieta di Norimberga sancì il principio della Chiesa territoriale,“cuius regio eius religio”, per porre fine agli strascichi anche violenti che seguirono alla protesta di Lutero con le novantacinque tesi esposte sulla porta della chiesa del castello di Wittenberg (1517).
La formula che sembra stia per passare oggi in Palestina è “due popoli, due stati” che, incentrata sulla voce “popoli”, sembra il massimo della democrazia. Ma, concordo con Giorgio Israel, può invece sviluppare il germe iniquo dell’intolleranza.

alfio ha detto...

non sono sicuro che c'entri col suo scritto, prof., ma le segnalo questa cosa:
http://www.ynetnews.com/articles/0,7340,L-4134091,00.html
non sarà facile trovare un accordo con costoro...

GiuseppeR ha detto...

L'analisi del professore é lucida e porta argomenti che sgretolano i pregiudizi che che si oppongono alla corretta interpretazione di questi fatti. Molti dimenticano infatti che gli israeliani vogliono appartenere ad uno stato "ebraico" non perché si ritengano i discendenti di Abramo e destinatari della terra promessa ("dal Nilo all'Eufrate"). Piuttosto aspirano, più laicamente, ad un stato che, oltre difenderli, si basi su una democrazia rappresentativa, su un diritto di famiglia analogo quelli occidentali, su leggi che garantiscano la libertà di stampa e di opinione, su una economia dinamica basata sull'iniziativa privata e l'innovazione tecnologica. Insomma, il carattere "ebraico" é culturale, la religione é solo una parte di questo. Qualcosa di analogo, purtroppo, non riusciamo a vederlo in uno stato arabo, e neanche si prospetta all'orizzonte.
Un altro pregiudizio é quello che vuole vedere Israele come uno stato etnicamente "puro". Sin dal 1948 gli arabi che hanno voluto restare sono rimasti (con qualche triste eccezione) e, oggi, un milione e mezzo di arabi israeliani godono di diritti civili e politici superiori rispetto a i loro connazionali che vivono sotto altri regimi. La loro situazione é migliorabile, ma non dimentichiamo che si tratta di un paese in stato di guerra.
Questo non vuol dire che uno stato palestinese, pur mantenendosi nel'ambito della cultura araba, non possa
assumere caratteri analoghi. Anzi dobbiamo sperarlo perché sarebbe la vera svolta. Se ci riuscisse cadrebbe anche l'altro pregiudizio che riguarda la presenza dei cosiddetti "coloni". Questi ultimi, fatta la tara delle frange estremiste, sono persone che in decenni di permanenza nei territori occupati hanno costruito delle realtà umane ed economiche che non si capisce per quale motivo debbano essere distrutte qualora fossero inglobate nel nuovo stato paestinese. La pacifica convivenza si potrà basare sulla capacità dei due popoli di rispettarsi come stati e come rispettive maggioranze e minoranze etniche. L'analisi del professore é notevole anche anche per la pacatezza della argomentazione, merce rara quando si parla di questi argomenti.

Nautilus ha detto...

Caro Attento, ci sono cose che non capisco o forse non so riguardo le colonie.
Per esempio: con che diritto sono state fondate, oltre quello ovvio del più forte?
E poi: per quali motivi sono state fondate?
Ma a parte ciò, tu scrivi che i coloni "hanno costruito delle realtà umane ed economiche...che non debbono essere distrutte qualora fossero inglobate nel nuovo stato palestinese" ma qual è, l'alternativa, l'integrazione? Magari...ma mi pare un bel pasticcio.
La loro condizione non può essere equiparata a quella degli arabi residenti in Israele: le colonie sono enclave israeliane nella zona palestinese della quale impediscono la continuità territoriale quindi la loro permanenza non mi pare compatibile con l'esistenza di un vero stato indipendente. D'altra parte non mi pare possibile che possano essere annesse a uno stato palestinese: ammesso di riuscire a risolvere la fondamentale questione della sicurezza, i coloni si assoggetterebbero, pur con qualche statuto speciale e garanzia, a un'amministrazione palestinese? Io penso che assisteremmo a quel che il professore depreca, una migrazione "volontaria" dei coloni nei sicuri (e prosperi) confini della democrazia israeliana.
Se quest'ultima è preferita dagli arabi, figurarsi dagli ebrei.

vanni ha detto...

Certo, egregio Nautilus 10/14/2011 04:09:00 PM, “D'altra parte non mi pare possibile... ammesso di riuscire a risolvere la fondamentale questione della sicurezza ecc.”. Arabi (o musulmani) di qua - con qualche cautela, senza stravolgere l'attuale composizione - si può fare, lo concepiamo. Israeliani di là... brrr...
Come è stato detto; dopo le parole piane e ragionevoli di Giorgio Israel sia una pausa di riflessione. Queste parole sono rivolte a noi, al nostro campo, non a quello di Agramente. L'assunto è che possiamo fare tanto, noi Occidentali, ma si dovrà appunto iniziare intanto a considerare la situazione sotto un'altra ottica.

Giorgio Israel ha detto...

Vorrei chiedere perché non si parli mai del più di un milione di ebrei che sono stati scacciati dai paesi arabi, sequestrando i loro beni e costringendoli all'emigrazione. Molti dei coloni appartengono a questa categoria. Anche questa è un'ingiustizia da sanare e anche questi sono "profughi" che non si vede perché un futuro stato palestinese non debba accogliere, pur rivendicando il carattere arabo e la prevalenza della religione musulmana in questo stato. Altrimenti, i paesi che li hanno cacciati accettino anche loro un "diritto al ritorno" degli ebrei (figurarsi...). Se si parte dal principio che Israele debba dare tutto in ragione di un torto costituito dalla sua stessa esistenza, non si va da nessuna parte, se non dal permanere eterno del conflitto.

Helga ha detto...

Bellissimi concetti i vostri ma: il problema delle maggioranze o minoranze etniche nasconde un problema più grosso: l'acqua. Israele per approvvigionarsi di questo bene preziosissimo non lascerà mai i territori ai palestinesi:il giordano le alture del golan, la cisgiordania gli sono idispensabili. Tutto il resto è una sovrastruttura. Infine, un mio pensiero utopico. Se potessi, renderei Gerusalemme città guardiana delle religioni. Una città senza patria, capitale di tutti e nessun luogo, poiche lo spirito che gli uomini vi cercano non può avere confini. Una Gerusalemme protetta e governata dall’ONU, sarebbe una città senza odio e sangue, una citta aperta come una casa; una vera città di pace. Lorella

Giorgio Israel ha detto...

Tutto il resto e' sovrastruttura.... Il marxismo non muore mai...

Helga ha detto...

gentile Signor Israel, vorrebbe forse negare che esiste una endemica difficoltà di approvvigionamento idrico relativa al problema dei territori occupati da israele? cordiali saluti lorella

Giorgio Israel ha detto...

Non lo nego affatto. Ma sostenere che questa e' l'unica cosa che conta e il resto e' "sovrastruttura" e' un veteromarxismo che lascerei ai mercati delle pulci

mike ha detto...

"Molti dei coloni appartengono a questa categoria"
professore, io sono il miglior amico di israele, e ci ho fatto il volontario in un kibbutz sotto i katiuscia a luglio 2006. e vanto amicizie (e profonde discussioni) con numerosi para' e truppe scelte dell'idf.
ma non puo' negare che la maggior parte dei nuovi coloni, nelle zone piu' sensibili (la direttrice est, volta a tagliare il west bank in due, e hebron/kiriat arba) sono invece ebrei americani, cittadini israeliani da meno di 10 anni, venuti con l'iphone e senza zappa ad abitare (neanche costruirsi da sé) dei fort apache in terra indiana.