Con
coraggio e chiarezza il Presidente Napolitano non ha usato mezzi toni davanti
all’Europarlamento. Ha parlato di crisi strutturale senza precedenti della
costruzione europea e ha denunciato sia le agitazioni distruttive e i meschini
egoismi, che le «gravi carenze e storture» del cammino comunitario: i cittadini
non devono essere costretti a scegliere una di queste alternative. Come
scriveva Alessandro Campi su queste pagine, per frenare l’onda del populismo
antieuropeo serve un europeismo finalmente autocritico. Ma l’autocritica sulle
politiche economiche non basta. Per andare fino in fondo occorre dire che sono
state fatte scelte sbagliate su un tema ancor più importante: la cultura e l’istruzione.
Difatti, proprio qui si gioca il difficile rapporto tra la costruzione di un
tessuto comunitario e culture e identità nazionali, che non possono essere
liquidate rozzamente senza alimentare reazioni euroscettiche e ridare smalto
alla formula gollista dell’Europa delle patrie.
La
sfida di ridare anima alla costruzione europea non si gioca soltanto
abbandonando l’austerità ad ogni costo, ma sul terreno della cultura e dell’istruzione.
Per chiarire a quale immiserimento si sia giunti su questo terreno, partirò da
esempi concreti. Scrive un genitore che, alla presentazione di un liceo di
fama, il dirigente avrebbe detto: «Qui non s’insegnano conoscenze, ma si
formano solo competenze». Udito ciò il genitore si chiedeva se fosse il caso di
iscrivere il figlio a un istituto del genere. Se la ragione avesse corso la
risposta sarebbe un tondo “no”. Bel liceo quello in cui si apprende a risolvere
problemi di matematica senza studiare teoremi, problemi di fisica senza
conoscerne le leggi, a scrivere in italiano senza aver mai letto i classici della
letteratura, e così via. Eppure, basta constatare quanto l’addestramento alla
risoluzione di quiz stia spodestando lo studio ordinario per capire che
l’andazzo è proprio questo, sotto il vessillo delle “competenze”. Se non si
vuol fare la figuraccia del rudere attaccato alla “vecchia” scuola delle
conoscenze disciplinari, bisogna riempirsi la bocca della parola “competenze”, anche
non sapendo di cosa si tratti. Alcuni anni fa, l’analista di questioni dell’istruzione
Norberto Bottani, pur accreditando la tesi che la nozione di competenze è una
caverna di Alì Babà concettuale in cui sono accatastati tutti i punti di vista
della psicologia moderna, anche i più contrari tra loro, sosteneva che la sua
voga “travolgente e stravolgente” era dovuta al fatto che la rivoluzione
scientifica degli ultimi due secoli ha mandato in frantumi un’organizzazione
della conoscenza bimillenaria basata sull’“epistemologia disciplinare
aristotelica”. È sorprendente la leggerezza con cui si possono avanzare tesi
tanto inconsistenti. Non c’è epoca della storia dell’umanità in cui
l’istruzione non sia stata articolata per discipline. La modernità ha proposto
una sua epistemologia disciplinare ancor più strutturata di quelle del passato
e l’idea di abolire la ripartizione disciplinare è priva di senso. Più in
generale, occorre sempre diffidare dei discorsi sulle “rivoluzioni epocali
senza precedenti” che sconvolgerebbero l’intero corso della storia. È quel che
accade con la faccenda dell’era digitale e dell’istruzione 2.0. Si fanno
convegni in cui si proclama l’avvento di una nuova epoca nella storia della
cultura e dell’istruzione determinata dalle nuove macchine, ma non si dice una
parola sul “perché e come”: tablet, smartphone, Lim, per fare cosa? Eppure neanche
l’avvento della tipografia sarebbe stato così importante se non vi fosse stato
nulla da comunicare. Le macchine da sole non producono niente. La risposta
strampalata è che non si deve più trasmettere alcuna “conoscenza”, bensì solo
fornire strumenti per formare “competenze”, anzi per lasciare che i giovani se
le formino da soli.
In
Europa queste visioni sono state alimentate dal tentativo di aggirare la
difficoltà di creare una cultura e un’istruzione europea unificata, dovuta all’esistenza
di culture fortemente identitarie e strutturate: tutti i paesi europei hanno un
imponente lascito di letterature, filosofie, culture scientifiche nazionali di straordinaria
consistenza. Come venirne fuori? Nella dichiarazione di Sorbona del 1998, i
ministri dell’istruzione dei principali paesi europei non trovarono di meglio
che proporre l’armonizzazione dei sistemi d’istruzione nazionali sul modello
delle università medioevali: «a quei tempi gli studenti e gli accademici
potevano circolare liberamente e diffondere rapidamente il sapere attraverso
l’Europa». Lodi assai inopportune di un tempo che fu, che non era barbarie come
si pretese, ma in cui la cultura era privilegio di pochissimi, in cui la
circolazione era spesso fuga dall’intolleranza, e continuò ad esserlo fino al
Seicento. Era un’epoca in cui le università avevano una struttura disciplinare
incompatibile con la condizione moderna: facoltà teologiche, medicina, scienze
giuridiche e poco altro. Perché mai ignorare il modello ottocentesco, tanto più
vicino a noi, basato sugli assi delle facoltà umanistiche e scientifiche, con
un rilievo senza precedenti per le scienze e la tecnologia, e in cui la
circolazione del sapere era infinitamente più intensa? Si è preferito ignorarlo
perché quella circolazione non era astratto universalismo ma rapporto tra
identità culturali nazionali forti, che è ormai moda superficiale identificare
con i nazionalismi. Chi conosca un minimo la storia sa che gli scienziati
dell’Ottocento erano assai capaci di superare le barriere linguistiche senza
rinunciare alle loro identità culturali. Invece di approfondire questo modello,
per perfezionarlo e superarne i difetti, si è seguita l’idea che una visione
europea debba basarsi sulla demolizione delle identità nazionali. Invece di
affrontare la via difficile ma ineludibile di far dialogare tra loro le culture
nazionali si è pensato di accantonarle a profitto della formazione di un
cittadino europeo fornito di capacità di base minime riconoscibili ovunque,
tali da facilitare la sua “occupabilità” e la circolazione della forza-lavoro.
La codificazione della figura di questo cittadino europeo – basata su un penoso
minimalismo economicista – è data dalle famose otto “competenze chiave di
Lisbona per l’apprendimento permanente”, varate dal Parlamento europeo nel 2006.
È un’esperienza deprimente leggere le quattro vacue banalità con cui sono
definite le competenze in campo matematico, scientifico e tecnologico; e constatare
con quale rozzezza lo straordinario spessore delle culture umanistiche
nazionali europee è stato ridotto a competenze linguistiche.
Sulla
cultura e l’istruzione si misura la capacità di correggere le gravi storture
della costruzione europea. Se, al contrario, si continua come prima, delle due
l’una: o si riuscirà davvero a spianare a zero culture secolari per realizzare
un deserto di cui già si vedono i segni nell’imbarbarimento dei linguaggi e
nell’ignoranza della propria storia; oppure queste culture saranno difese a
oltranza da movimenti radicali che riusciranno a veicolare il loro estremismo ricorrendo
a buone ragioni abbandonate dagli altri. La storia insegna a cosa portano le degenerazioni
patologiche dell’universale e del nazionale. Ma se, in nome delle “competenze”,
avremo distrutto anche la conoscenza della storia nessuna luce aiuterà a imboccare
la via della ragione.
(Il Messaggero, 5 febbraio 2014)