mercoledì 5 febbraio 2014

AUTOCRITICA DELL'EUROPA ANCHE SULL'ISTRUZIONE E LA CULTURA

Con coraggio e chiarezza il Presidente Napolitano non ha usato mezzi toni davanti all’Europarlamento. Ha parlato di crisi strutturale senza precedenti della costruzione europea e ha denunciato sia le agitazioni distruttive e i meschini egoismi, che le «gravi carenze e storture» del cammino comunitario: i cittadini non devono essere costretti a scegliere una di queste alternative. Come scriveva Alessandro Campi su queste pagine, per frenare l’onda del populismo antieuropeo serve un europeismo finalmente autocritico. Ma l’autocritica sulle politiche economiche non basta. Per andare fino in fondo occorre dire che sono state fatte scelte sbagliate su un tema ancor più importante: la cultura e l’istruzione. Difatti, proprio qui si gioca il difficile rapporto tra la costruzione di un tessuto comunitario e culture e identità nazionali, che non possono essere liquidate rozzamente senza alimentare reazioni euroscettiche e ridare smalto alla formula gollista dell’Europa delle patrie.
La sfida di ridare anima alla costruzione europea non si gioca soltanto abbandonando l’austerità ad ogni costo, ma sul terreno della cultura e dell’istruzione. Per chiarire a quale immiserimento si sia giunti su questo terreno, partirò da esempi concreti. Scrive un genitore che, alla presentazione di un liceo di fama, il dirigente avrebbe detto: «Qui non s’insegnano conoscenze, ma si formano solo competenze». Udito ciò il genitore si chiedeva se fosse il caso di iscrivere il figlio a un istituto del genere. Se la ragione avesse corso la risposta sarebbe un tondo “no”. Bel liceo quello in cui si apprende a risolvere problemi di matematica senza studiare teoremi, problemi di fisica senza conoscerne le leggi, a scrivere in italiano senza aver mai letto i classici della letteratura, e così via. Eppure, basta constatare quanto l’addestramento alla risoluzione di quiz stia spodestando lo studio ordinario per capire che l’andazzo è proprio questo, sotto il vessillo delle “competenze”. Se non si vuol fare la figuraccia del rudere attaccato alla “vecchia” scuola delle conoscenze disciplinari, bisogna riempirsi la bocca della parola “competenze”, anche non sapendo di cosa si tratti. Alcuni anni fa, l’analista di questioni dell’istruzione Norberto Bottani, pur accreditando la tesi che la nozione di competenze è una caverna di Alì Babà concettuale in cui sono accatastati tutti i punti di vista della psicologia moderna, anche i più contrari tra loro, sosteneva che la sua voga “travolgente e stravolgente” era dovuta al fatto che la rivoluzione scientifica degli ultimi due secoli ha mandato in frantumi un’organizzazione della conoscenza bimillenaria basata sull’“epistemologia disciplinare aristotelica”. È sorprendente la leggerezza con cui si possono avanzare tesi tanto inconsistenti. Non c’è epoca della storia dell’umanità in cui l’istruzione non sia stata articolata per discipline. La modernità ha proposto una sua epistemologia disciplinare ancor più strutturata di quelle del passato e l’idea di abolire la ripartizione disciplinare è priva di senso. Più in generale, occorre sempre diffidare dei discorsi sulle “rivoluzioni epocali senza precedenti” che sconvolgerebbero l’intero corso della storia. È quel che accade con la faccenda dell’era digitale e dell’istruzione 2.0. Si fanno convegni in cui si proclama l’avvento di una nuova epoca nella storia della cultura e dell’istruzione determinata dalle nuove macchine, ma non si dice una parola sul “perché e come”: tablet, smartphone, Lim, per fare cosa? Eppure neanche l’avvento della tipografia sarebbe stato così importante se non vi fosse stato nulla da comunicare. Le macchine da sole non producono niente. La risposta strampalata è che non si deve più trasmettere alcuna “conoscenza”, bensì solo fornire strumenti per formare “competenze”, anzi per lasciare che i giovani se le formino da soli.
In Europa queste visioni sono state alimentate dal tentativo di aggirare la difficoltà di creare una cultura e un’istruzione europea unificata, dovuta all’esistenza di culture fortemente identitarie e strutturate: tutti i paesi europei hanno un imponente lascito di letterature, filosofie, culture scientifiche nazionali di straordinaria consistenza. Come venirne fuori? Nella dichiarazione di Sorbona del 1998, i ministri dell’istruzione dei principali paesi europei non trovarono di meglio che proporre l’armonizzazione dei sistemi d’istruzione nazionali sul modello delle università medioevali: «a quei tempi gli studenti e gli accademici potevano circolare liberamente e diffondere rapidamente il sapere attraverso l’Europa». Lodi assai inopportune di un tempo che fu, che non era barbarie come si pretese, ma in cui la cultura era privilegio di pochissimi, in cui la circolazione era spesso fuga dall’intolleranza, e continuò ad esserlo fino al Seicento. Era un’epoca in cui le università avevano una struttura disciplinare incompatibile con la condizione moderna: facoltà teologiche, medicina, scienze giuridiche e poco altro. Perché mai ignorare il modello ottocentesco, tanto più vicino a noi, basato sugli assi delle facoltà umanistiche e scientifiche, con un rilievo senza precedenti per le scienze e la tecnologia, e in cui la circolazione del sapere era infinitamente più intensa? Si è preferito ignorarlo perché quella circolazione non era astratto universalismo ma rapporto tra identità culturali nazionali forti, che è ormai moda superficiale identificare con i nazionalismi. Chi conosca un minimo la storia sa che gli scienziati dell’Ottocento erano assai capaci di superare le barriere linguistiche senza rinunciare alle loro identità culturali. Invece di approfondire questo modello, per perfezionarlo e superarne i difetti, si è seguita l’idea che una visione europea debba basarsi sulla demolizione delle identità nazionali. Invece di affrontare la via difficile ma ineludibile di far dialogare tra loro le culture nazionali si è pensato di accantonarle a profitto della formazione di un cittadino europeo fornito di capacità di base minime riconoscibili ovunque, tali da facilitare la sua “occupabilità” e la circolazione della forza-lavoro. La codificazione della figura di questo cittadino europeo – basata su un penoso minimalismo economicista – è data dalle famose otto “competenze chiave di Lisbona per l’apprendimento permanente”, varate dal Parlamento europeo nel 2006. È un’esperienza deprimente leggere le quattro vacue banalità con cui sono definite le competenze in campo matematico, scientifico e tecnologico; e constatare con quale rozzezza lo straordinario spessore delle culture umanistiche nazionali europee è stato ridotto a competenze linguistiche.

Sulla cultura e l’istruzione si misura la capacità di correggere le gravi storture della costruzione europea. Se, al contrario, si continua come prima, delle due l’una: o si riuscirà davvero a spianare a zero culture secolari per realizzare un deserto di cui già si vedono i segni nell’imbarbarimento dei linguaggi e nell’ignoranza della propria storia; oppure queste culture saranno difese a oltranza da movimenti radicali che riusciranno a veicolare il loro estremismo ricorrendo a buone ragioni abbandonate dagli altri. La storia insegna a cosa portano le degenerazioni patologiche dell’universale e del nazionale. Ma se, in nome delle “competenze”, avremo distrutto anche la conoscenza della storia nessuna luce aiuterà a imboccare la via della ragione.

(Il Messaggero, 5 febbraio 2014)

lunedì 27 gennaio 2014

RIPENSARE IL GIORNO DELLA MEMORIA

Sono passati tredici anni dall’istituzione per legge del Giorno della Memoria, volto a ricordare la Shoah (lo sterminio del popolo ebraico) e i deportati italiani nei campi nazisti con «cerimonie, iniziative, incontri … in modo particolare nelle scuole», per «conservare nel futuro dell’Italia la memoria di un tragico ed oscuro periodo della storia nel nostro Paese e in Europa, e affinché simili eventi non possano mai più accadere».
Propositi ineccepibili, ma invece di aggiungere altre voci al coro che, di anno in anno, ha assunto le sembianze di una rotolante valanga – l’elenco delle iniziative in corso può riempire un volume – è più opportuno fare un bilancio e chiedersi se al moltiplicarsi di cerimonie e incontri abbia corrisposto un declino del razzismo e dell’antisemitismo. Purtroppo è accaduto il contrario: anche il razzismo e l’antisemitismo crescono a valanga.
L’invio di teste di maiale a tre luoghi simbolo dell’ebraismo a Roma è soltanto l’ultimo episodio. Basti pensare al dilagare nella rete, nei movimenti di protesta e nelle sortite di non isolati rappresentanti politici, della vecchia leggenda della congiura mondiale pluto-giudaica che sarebbe responsabile della presente crisi economico-sociale. L’antisemitismo è altresì contrabbandato sotto le spoglie dell’antisionismo: una vecchia mistificazione già denunciata decenni fa da Martin Luther King. Poi c’è il grande paradosso: sebbene pochi eventi storici come la Shoah abbiano il sostegno di una letteratura e di una documentazione imponente, viene fatto circolare il dubbio che non basti, che in realtà nulla sia provato. S’impancano a direttori d’orchestra di questo negazionismo alcuni “intellettuali” (i soliti “chierici traditori”, secondo la locuzione di Julien Benda) che voltano lo sguardo dall’altra parte di fronte ai documenti, come se tutto fosse ancora da dimostrare; o addirittura lasciano intendere che i Protocolli dei Savi di Sion potrebbero essere autentici; e che possono seminare questi veleni senza pagare pegno, continuando a essere coccolati, riveriti e invitati a tante iniziative culturali, come se nulla fosse.
Se questo è il risultato della valanga del 27 gennaio, allora sì che occorre fare una pausa di riflessione. In verità, i rischi erano evidenti dall’inizio. Ha sbagliato gravemente chi ha presentato la Shoah come un evento unico, impossibile da confrontare e persino da accostare a qualsiasi altro evento storico, fino al punto di imbastire una metafisica e una teologia della Shoah. Gli effetti di tale assolutizzazione si sono puntualmente verificati. Anche nelle menti non corrotte dall’ideologia è emerso un rigetto istintivo nei confronti di qualcosa che, non appartenendo alla storia terrena, appare estraneo e persino antipatico. Oppure, al contrario, è emersa una sorta di gelosia. Cosa di più appagante che far salire altre ingiustizie, anche di modesta portata, allo stesso rango di un crimine tanto grande da essere al di sopra di ogni accostamento? Così quando qualcosa va male, o è semplicemente spiacevole, è d’uso chiamarlo Olocausto o Auschwitz. Tre anni fa, un corteo di insegnanti sfilò con la stella gialla appuntata sul petto per protestare contro un provvedimento legislativo: era la loro Shoah. Si trattava piuttosto di un esempio da manuale di come il mito dell’unicità della Shoah porti al suo uso improprio e alla sua banalizzazione. Ma attenti a dirlo: i cattivi maestri sono pronti a colpirvi (come è accaduto a me) con l’accusa di “sacralizzare” la Shoah... La faziosità ideologica arriva al punto di legittimare confronti insensati e tragicomici, mentre rigetta accostamenti ben più fondati; come quello tra Lager e Gulag proposto dallo storico ebreo Victor Zaslavzky, emigrato dall’Unione Sovietica. Egli descrisse il massacro di Katyn come un caso emblematico della politica di “pulizia di classe”, come Auschwitz lo era della politica di “pulizia etnica”. E aggiunse: «Il terrore ideologico basato sull’idea della purificazione della società dai corpi estranei e nocivi, dai parassiti sociali, definiti in base all’appartenenza alla classe sociale antagonista oppure al gruppo etnico nemico, rappresenta il denominatore comune del regime nazista e di quello sovietico». Eppure c’è chi si scandalizza di fronte all’accostamento di Zaslavsky mentre trova naturale dire che Lampedusa è come Auschwitz.
Se l’analisi storica razionale cede il passo al mito o all’ideologia, la porta è spalancata per i mostri. Anche i viaggi scolastici ad Auschwitz possono essere controproducenti se non sono preparati da un approfondimento storico razionale. Altrimenti, di fronte a tanto orrore, di cui non sono chiare le cause, nella mente del ragazzo sorgerà la domanda: “se si è arrivati a tanto qualche colpa doveva essere stata commessa”. Purtroppo la scuola non fornisce l’ombra dei fondamenti storici necessari a capire i drammi totalitari del Novecento e il loro tragico lascito. Né potrebbe farlo, visto lo stato dell’insegnamento della storia, vittima di un implacabile attacco alla cultura umanistica, il quale è incurante del fatto che la morte della cultura umanistica è la morte della democrazia: me lo son sentito dire da uno storico sudafricano, qui dirlo comporta il rischio di essere messo alla gogna. Se poi lo svilimento della cultura si accompagna al deserto morale di una società senza ideali, che non crede nel proprio futuro e abbandona i giovani al culto del consumismo e alla derisione dei valori morali, non basteranno dieci Giorni della Memoria. Raccontano che, dopo la morte di Mandela, in alcune scuole è stato proiettato il film “Invictus” e che l’attenzione si è concentrata solo sulle partite di rugby nel totale disinteresse per la “noiosa” tematica dell’apartheid e del razzismo. Non c’è da stupirsi: come altrimenti potrebbe reagire chi è privo di coordinate storiche ed è stato educato a credere che il vertice della piramide sociale sia riservato a chi guadagna tanti quattrini, come i calciatori, mentre la cultura non si mangia e i principi morali sono roba da rottamare?
Commemorazione e memoria storica sono livelli distinti. Per la prima il migliore contesto è un silenzioso raccoglimento, poche iniziative mirate che non diano spazio ai presenzialisti che sgomitano per esibirsi. La seconda richiede un’opera complessa e di lungo respiro, in cui il ruolo centrale appartiene alla scuola, con un rafforzamento imponente dello studio della storia, condotto secondo una visione critica aliena da ogni ideologia. Neanche questo può bastare se la società considera la cultura non come strumento di libertà ma come una perdita di tempo e denaro, e il senso morale un orpello inutile da sostituire con le regolette del politicamente corretto. Se questo andazzo non cambierà, non basteranno leggi e divieti o cento Giorni della Memoria per evitare gli striscioni razzisti negli stadi contro i “negri” e gli “ebrei”.
(Il Messaggero, 27 gennaio 2014)

venerdì 24 gennaio 2014

QUALE MATEMATICA INSEGNARE

Sul blog "Pensare in matematica"
http://pensareinmatematica.blogspot.it/2014/01/quale-matematica-insegnare.html

lunedì 20 gennaio 2014

Mandela e il senso della storia

Penso che la saggistica postmoderna che addebita alla cultura occidentale “essenzialista” tutti i mali del mondo sia un prodotto ideologico deteriore. A tale categoria appartiene il celebre saggio “Orientalism” di Edward Said che riduce tutte le manifestazioni culturali dell’occidente a espressioni di una mitologia razzista che vede le culture “diverse” come un folklore “orientale” e, mette nel mirino soprattutto il sionismo visto come somma manifestazione di questo razzismo. Le generalizzazioni sfociano sempre nella più rozza intolleranza, ma il rigetto di quegli eccessi non può farci chiudere gli occhi di fronte alle manifestazioni di razzismo della cultura europea che racchiudono i germi delle tragedie del Novecento.
Lasciano esterrefatti i passaggi dedicati da Georg Wilhelm Friedrich Hegel all’Africa, che egli considerava come un continente privo di storia. Egli scriveva: «Nell’Africa vera e propria (l’Africa subsahariana) è la sensibilità il punto a cui l’uomo resta fermo: l’assoluta incapacità di evolversi. […] È il paese dell’oro, che resta concentrato in sé: il paese infantile, avviluppato nel nero colore della notte al di là del giorno della storia consapevole di sé. [...] 
 
In questa parte principale dell’Africa non può aver luogo storia vera e propria. Sono accidentalità, sorprese, che si susseguono. Non vi è un fine, uno stato, a cui si possa mirare: non vi è una soggettività, ma solo una serie di soggetti che si distruggono». E a proposito degli africani: «Nel caso dei negri, l’elemento caratteristico è dato proprio dal fatto che la loro coscienza non è ancora giunta a intuire una qualsiasi oggettività – come, per esempio, Dio, la legge: mediante tale oggettività l’uomo se ne starebbe con la propria volontà e intuirebbe la propria essenza. Nella sua unità indistinta, compressa, l’africano non è ancora giunto alla distinzione fra se stesso considerato ora come individuo ora come universalità essenziale, onde gli manca qualsiasi nozione di un’essenza assoluta, diversa e superiore rispetto all’esistenza individuale. […] il negro incarna l’uomo allo stato di natura in tutta in tutta la sua selvatichezza e sfrenatezza. Se vogliamo farci di lui un’idea corretta, dobbiamo fare astrazione da qualsiasi nozione di rispetto, di morale, da tutto ciò che va sotto il nome di sentimento: in questo carattere non possiamo trovare nulla che contenga anche soltanto un’eco di umanità».
È anche ben nota la lettera in cui Hegel raccontava le sue impressioni di fronte a Napoleone che entrava a cavallo in Jena alla testa delle truppe francesi vittoriose: «Ho visto l’imperatore – quest’anima del mondo – cavalcare attraverso la città per andare in ricognizione: è davvero un sentimento meraviglioso la vista di un tale individuo che, concentrato qui in un punto, seduto su di un cavallo, abbraccia il mondo e lo domina».
Sarebbe interessante chiedere a Hegel redivivo quali sentimenti desta la fotografia di Nelson Mandela che stringe la mano al capitano degli Springboks, la squadra di rugby sudafricana, che era uno dei simboli dell’apartheid, mentre ne indossava egli stesso la maglia. Forse è un’immagine meno pomposa di un uomo a cavallo. Ma non è una straordinaria espressione dell’anima del mondo, di un mondo che vuole rompere le barriere dell’odio con un atto di suprema generosità? Non diremmo che in quella persona e in quel luogo africano si è avuta una delle massime manifestazioni della storia? Altro che continente e uomini senza storia! È piuttosto il nostro continente a essersi svuotato di storia, prima per aver coltivato i miti dell’igiene razziale e sociale, e ora per l’incapacità di vivere grandi sentimenti e ideali e per la miseria di credere che sia possibile sopravvivere appesi ad aride manipolazioni tecnocratiche. Oggi il Sudafrica è un paese attraversato da terribili contraddizioni che potrebbero far fallire il progetto di Nelson Mandela, ma gli resta lo spirito impresso dal suo messaggio e cioè una voglia fortissima di andare avanti e costruire, qualcosa di cui le nostre stanche società sono sempre più povere.
Il rischio della retorica è sempre in agguato e v’è chi ha messo in guardia contro di esso in questi tempi di commemorazione della figura di Mandela, ma questo non può essere un pretesto per sminuirne la grandezza in tempi così poveri di ideali e della loro realizzazione. L’esempio concreto dell’abbattimento di barriere di odio che erano state consolidate per tanto tempo in modo implacabile non può non essere a cuore di chi, come gli ebrei, è stato vittima per eccellenza dell’odio razziale. Fa piacere leggere l’analisi documentata con cui si è mostrato che il famoso parallelismo tra palestinesi e neri sudafricani non è stato mai pronunciato da Mandela, ma anche se egli avesse commesso questa scivolata il giudizio su di lui non sarebbe potuto essere diverso e una presenza ai massimi livelli del governo israeliano ai funerali sarebbe stata una scelta giusta. Sappiamo bene che il parallelismo tra la condizione palestinese e l’apartheid ha attecchito, soprattutto in parecchie università sudafricane (pur con significative prese di distanza), ma questo è un motivo di più per combattere senza quartiere la propaganda che tenta di alimentare l’odio e le divisioni. Una persona mi ha scritto chiedendosi perché non vi sia un Mandela nel mondo arabo. In verità, vi è stato, nella persona del presidente egiziano Sadat, e si sa quale ne fu la sorte. Si sa anche quale fu la risposta da parte israeliana, a dimostrazione che il riconoscimento del diritto all’esistenza di Israele è la chiave che apre tutte le porte. È un esempio che andrebbe ricordato continuamente per far capire quanto sia sbagliato ogni paragone con l’apartheid e quanto sarebbe facile aprire le porte della pace. Tanto quanto è difficile che nasca un Mandela dove manca un autentico senso della storia.

(Shalom, gennaio 2014)

giovedì 9 gennaio 2014

La medicalizzazione della pedagogia

Sono anni che mi batto su questa faccenda e, troppo spesso, inascoltato.
È bene che si inizi a rendere conto da più parti, come in questo articolo, del disastro che si sta combinando.

lunedì 23 dicembre 2013

Aberranti idee che a volte ritornano

Chi si sognerebbe di considerare Emile Zola, lo scrittore francese che fu uno dei massimi difensori del capitano Dreyfus, durante il celebre “affaire”, al punto da dover fuggire per evitare la prigione? In un articolo del 1896 pubblicato su Le Figaro, egli descriveva lucidamente la connessione tra antisemitismo e pregiudizi razziali: «Non vi è nulla da rispondere a coloro che vi dicono: “Li detesto perché li detesto, perché soltanto la vista del loro naso mi mette fuori di me, perché tutta la mia carne si rivolta a sentirli diversi e contrari». Torniamo allora nelle profondità dei boschi, ricominciamo la guerra barbara fra specie e specie, divoriamoci perché non emettiamo lo stesso grido o perché abbiamo il pelo piantato diversamente. Lo sforzo delle civiltà è proprio quello di cancellare questo bisogno selvaggio di scagliarsi sul proprio simile, quando non è del tutto simile. Nel corso dei secoli, la storia dei popoli è una lezione che chiama alla mutua tolleranza […]. Ai nostri tempi, odiarsi e mordersi perché non abbiamo il cranio assolutamente costruito nello stesso modo, inizia ad essere la più mostruosa delle follie.»
Eppure, chi conosca a fondo l’opera letteraria di Zola sa che anche l’autore di quelle nobili parole fece qualche scivolata. Nel romanzo Nanà il banchiere ebreo Steiner offre alla protagonista una busta con mille franchi. «Mille franchi! Chiedo forse l’elemosina? Ecco cosa faccio dei tuoi mille franchi!», grida Nanà, tirandogli la busta in faccia. E Steiner «da ebreo prudente, la raccoglie penosamente». Peggio ancora ne Le bonheur des dames: il protagonista Mouret «lascia correre la brutalità di un ebreo che vende la donna a un tanto la libbra».
Che cosa ci insegnano queste “scivolate” da parte dell’autore del celebre manifesto J’accuse che segnò l’inizio della sconfitta di una delle più grandi campagne antisemite della storia? In primo luogo, che dobbiamo avere la capacità di distinguere tra espressioni antisemite che sono come la risacca di onde che vengono da lontano e che emergono persino in modo inconscio, e l’antisemitismo violento, consapevole, programmatico. Troppi ci sono caduti – persino un Benedetto Croce – e sarebbe irresponsabile fare di ogni erba un fascio, come accade ad alcuni pseudo-storici alla ricerca dello scandalo più che di analisi meditate. In secondo luogo, che la capacità del pregiudizio antisemita di infiltrarsi ovunque, come effetto di sedimenti accumulatisi nei secoli, deve chiamare alla massima vigilanza intellettuale. La vigilanza più importante di tutte – come chiarì bene Zola nelle frasi citate – è quella contro il pregiudizio razziale. Al razzismo non dobbiamo concedere neppure un millimetro, e i più vigilanti, al riguardo, debbono essere proprio gli ebrei che di tale pregiudizio sono stati vittime come pochi altri.
Da questo punto di vista debbono preoccupare al massimo grado le derive di certe ossessioni pseudoscientifiche contemporanee, tendenti a ridurre ogni caratteristica mentale e culturale a differenze genetiche, riproponendo, sotto neppure tanto mentite spoglie, la famigerata eugenetica. Lascia sconcertati che vi sia chi si diletta di ricercare le radici genetiche di una pretesa superiorità intellettuale degli ebrei ashkenaziti sugli altri ebrei o degli ebrei sugli altri popoli. Alcuni anni fa Harry Ostrer, genetista e professore presso l’Albert Einstein College of Medicine di New York, ha pubblicato un libro su “Eredità, storia genetica del popolo ebraico” volto a dimostrare che «ricchezza, privilegi, educazione non sono sufficienti a spiegare che molti ebrei siano destinati a diventare avvocati o fisici eccezionali». Insomma, sarebbe un gioco un determinismo biologico. A sua volta, un noto genetista israeliano. Raphael Falk, ha sostenuto in un libro su “Il sionismo e la biologia degli ebrei” una tesi che mette in gioco il sionismo: la biologia andrebbe considerata come un collante, uno strumento atto a definire gli ebrei come un popolo avente una sua identità biologica e che «giustificherebbe i legami tra gli ebrei attuali e la terra che da secoli, in modo inequivocabile, è la colla dei loro legami socio-culturali». Secondo Falk «mentre l’eugenetica aspira a redimere la specie umana guardando in faccia le realtà della sua natura biologica, il sionismo aspira a redimere il popolo ebraico guardando in faccia le sua antica e distinta identità “razziale”». Il sionismo, raggruppando gli ebrei come nazione «avrebbe conseguenze eugenetiche profonde, arrestando la degenerazione di cui essi sono caduti preda per le condizioni imposte nel passato». Mentre Falk considera la biologia come un collante, Ostrer parla di “orgoglio di stirpe”: «avere 3000 anni di patrimonio genetico può essere una fonte d’identità, e di orgoglio, come lo è avere una storia condivisa, la cultura e la religione». Gli ebrei sono una “razza”, insiste Ostrer. Falk guarda al sionismo come un mezzo per realizzarne la purezza.

Sono tesi che hanno suscitato polemiche e anche recensioni fortemente critiche, come quella del noto biologo Richard Lewontin. Lascia soprattutto sconcertati che, dopo lo sforzo poderoso di Luigi Luca Cavalli Sforza di mostrare la totale inconsistenza scientifica del concetto di razza, vi sia ancora gioca con simili pericolose elucubrazioni. Molti genetisti avvertiti ripetono che la tesi che le manifestazioni mentali e culturali siano tutte iscritte nei geni non ha il minimo fondamento. Niente da fare. L’ideologia è più forte di qualsiasi discorso scientifico, ed essa è la compagna inseparabile del pregiudizio. Sarebbe almeno auspicabile che simili irresponsabili scivolate verso il razzismo non venissero mai da parte ebraica.
(Shalom, dicembre 2013)

domenica 15 dicembre 2013

INVALSI: BASTA CON LA SOLITA SCENEGGIATA INTIMIDATORIA

UNA LETTERA INVIATA AL SUSSIDIARIO:

Caro Direttore,
è mia ferma convinzione che se uno viene nominato a una funzione che deve essere quanto mai imparziale – e mi riferisco alla mia nomina a membro del Comitato per la selezione della rosa di candidati per la nuova presidenza dell’Invalsi – è bene che taccia e operi, non curandosi dei clamori. Per questo ho ritenuto sufficiente che fosse il presidente del Comitato professor Tullio De Mauro (e il professor Benedetto Vertecchi) a rispondere all’articolo del professor Andrea Ichino che, sul Corriere della Sera, ha interpretato la nostra nomina come un evidente tentativo di stravolgere l’indirizzo dell’Invalsi. E ciò nonostante questo articolo fosse in contraddizione con i propositi tenuti dal professor Ichino nel corso di un recentissimo convegno al Liceo Mamiani a Roma. Né ho considerato che occorresse rispondere alle valutazioni di Giavazzi e Alesina, che riprendevano testualmente quelle di Ichino, e neppure a quelle (espresse in linguaggio identico) da Gianni Bocchieri sul Sussidiario.
Anche se si hanno tutte le perplessità del mondo sulla composizione di una commissione non penso che sia una buona idea attaccarne a priori i membri, facendo processi alle intenzioni e mettendone in dubbio l’imparzialità. Non mi risulta che questo sia stato fatto in occasione delle precedenti nomine dei presidenti dell’Invalsi. E tuttavia meglio tacere e non entrare nella polemica.
Tuttavia, anche se occorre tener saldo il principio di tacere e lavorare in modo serio e imparziale, c’è un limite oltre il quale qualche parola va detta: ed è quando il deprecabile stile italico della denigrazione e del pregiudizio rissoso assume il carattere dell’attacco personale, dell’attacco con nome e cognome. Leggo sul sito dell’associazione ADI – che con spirito squisitamente alieno da faziosità si augura che Renzi rimetta in riga il ministro Carrozza – che saremmo un quintetto di “revenants” (i.e. zombie, in linguaggio più giovanile), una vera finezza che mostra il livello di chi vorrebbe presentarsi come il nuovo che avanza. Ci si chiede se il sottoscritto («il più virulento oppositore delle valutazioni standardizzate») non sia «in quota centrodestra». Una insinuazione volgare, tanto per screditare, e che si commenta da sola: chi mi conosce sa bene che sono soltanto in quota di me stesso, ovvero (ne sono consapevole) in quota del poco o del nulla che contano le semplici idee.
Mi dispiace che, nella tentazione di uno screditamento personale sia caduta anche una persona che ha una posizione istituzionale autorevole e influente come Mariella Ferrante, quando scrive sul Sussidiario che io, come gli altri membri del Comitato, sarei «un personaggio famoso per le posizioni variamente critiche nei confronti della valutazione». Un vecchio, consunto, scorretto – ma evidentemente ancora ritenuto efficace – stratagemma per screditare è far credere che chi critica una particolare concezione della valutazione sia nemico della valutazione tout court. Trovo persino umiliante dover ribadire – come quegli imputati che nei processi staliniani protestavano invano la loro fede comunista – che non sono affatto critico della valutazione. Al contrario. Ho difeso in innumerevoli occasioni la necessità assoluta di una valutazione seria per riqualificare l’istruzione. Semplicemente, ho le mie opinioni al riguardo, contestabili ma che spero sia ancora legittimo avanzare, a meno che non si sia entrati in un regime di pensiero unico, in cui o la si pensa in un certo modo o si è un nemico sociale, una persona pericolosa. Mariella Ferrante aggiunge pure che «oltre ad essere uno dei maggiori critici delle prove di valutazione» – il che è un altro falso dello stesso genere di quello precedente, perché non esiste un unico genere di prove di valutazione a meno che non si sia deciso di dare il cervello all’ammasso – sarei «un sostenitore della necessità di concentrare l’attenzione sulla selezione delle eccellenze». Sarebbe da ridere se non vi fosse da piangere nel vedere il confronto di idee ridotto a un simile livello. La penso esattamente al contrario e da anni predico che stiamo costruendo nei fatti la tanto deprecata “scuola di classe”, in cui avanzano soltanto le eccellenze (per censo, ceto o altri privilegi) e il resto viene appiattito verso il basso. Sono fermo sostenitore di un’istruzione che faccia avanzare tutti verso il livello più alto possibile – altro che “selezionare” le eccellenze! – e trovo deprecabili alcuni modelli stranieri che puntano verso questo modello di tipo aristocratico e classista. Quale è il senso di dare simili presentazioni caricaturali delle opinioni altrui?
Una sommessa richiesta: per favore, smettetela di strattonare in questo modo scorretto, con smaccati tentativi di screditare e condizionare. Un conto è esprimere le proprie opinioni in merito alle modalità della valutazione e, com’è legittimo, difenderle. Altro conto è screditare a priori chi si ritiene non la pensi come te dando un’immagine totalmente falsata e storpiata delle sue opinioni. Se i membri del Comitato hanno – come concede Ferrante – indubbia competenza scientifica e interesse per la scuola, sarebbe il caso di lasciarli lavorare in pace e giudicare dopo. Per parte mia, dopo aver detto quanto precede non interverrò più in nessun caso. Neppure in presenza di ingiurie. Tanto peggio per chi vorrà indulgere al costume nazionale di mettere in piedi la solita insulsa contrapposizione tra guelfi e ghibellini, che oltretutto qui non si capisce neppure chi siano, visto che sono dispersi disordinatamente da tutte le parti.

                                                                                                         Giorgio Israel