Condivido poco dell’azione riformatrice dell’ex-ministro dell’istruzione Luigi Berlinguer. Con l’eccezione del tentativo di valutare gli insegnanti, ritengo che i suoi interventi sull’università (soprattutto la famigerata laurea 3 + 2) e sulla scuola abbiano prodotto soprattutto disastri. Ma Berlinguer è persona squisita, che sa discutere civilmente e alimentare un confronto costruttivo. L’ho verificato sulla questione della diffusione dei laboratori nelle scuole. La Commissione ministeriale per lo sviluppo della cultura scientifica e tecnologica da lui presieduta produsse un documento che si scagliava violentemente contro il fatto che «in Italia la scienza è oggetto di apprendimento scolastico, cartaceo, nozionistico, deduttivistico». Il documento suscitò molte polemiche, tra cui una critica puntuale del matematico Enrico Giusti che criticò l’uso denigratorio del termine “scolastico” (come se l’apprendimento non si facesse comunque a scuola) e la proposizione di un’immagine empiristica della scienza che nulla ha a che fare con la ricchezza e complessità dei suoi approcci. Ma non è qui la sede né vi sarebbe lo spazio per entrare nel dettaglio di queste polemiche.
Quel che voglio rilevare è che nel dibattito che ne è seguito, e nel corso del quale ho avuto parecchi scambi diretti con Luigi Berlinguer, le posizioni si sono smussate, ed egli stesso ha ammesso che quel documento era eccessivamente radicale. Si è trovato un terreno di accordo, sia pure parziale, sull’idea che il laboratorio è uno strumento essenziale nell’apprendimento delle materie scientifiche, ma che il lavoro in laboratorio deve consistere in un continuo confronto tra teoria e pratica, che non si entra in laboratorio per pasticciare a caso, ma con un bagaglio preventivo di conoscenze teoriche; se non altro perché, nel procedere storico della scienza, le scoperte sono avvenute sempre sulla base di ipotesi concettuali e mai per manipolazioni a caso. Ho trovato molto positivo (e raro) che si potesse discutere pacatamente cercando convergenze, perché di questo, e non di liti, ha bisogno la nostra scuola.
Tanto più sono rimasto stupito leggendo una recente intervista di Berlinguer in cui, dopo aver patrocinato il passaggio dal linguaggio verbale a quello multimediale, alla domanda del perché ancora la scuola si basi sul linguaggio verbale, ha risposto: «Perché si vuole ammazzare la scuola, quelli che vogliono questo hanno il monopolio, sono dei “gentiliani”, che vanno cacciati spietatamente!!», con due punti esclamativi.
Ecco, questo è pessimo, oltre che curioso da parte di chi non ho mai visto far uso se non del linguaggio verbale. Per tre decenni la scuola italiana è stata in preda di persone che hanno imposto (altro che egemonia “gentiliana”!) ideologie di stato basate sul primato della metodologia e il discredito delle discipline. Prima, sotto il periodo berlingueriano, si è avuta l’ideologia delle nuove tecnologie come “grimaldello per scardinare i saperi tradizionali” e “avvelenare” l’assetto istituzionale della scuola tradizionale. Poi è venuta l’era dell’insegnamento “olistico”. Infine, quella della complessità e delle “teste ben fatte” alla Edgar Morin. È giunto il momento di rovesciare questa tendenza infernale. Le uniche prescrizioni devono riguardare la serietà dei contenuti disciplinari. Per il resto, basta con le imposizioni ideologiche. Ognuno insegni come meglio crede, con piena libertà metodologica, alla maniera moriniana o gentiliana che sia, verbalmente o con mezzi multimediali e poi sia valutato sui risultati. Non si deve neppure parlare di “cacciare” qualcuno per le proprie idee. Questo è un modo di pensare degno di un regime totalitario.
3 commenti:
"Le uniche prescrizioni devono riguardare la serietà dei contenuti disciplinari."
Condivido, Ottimo !
Tuttavia la mia convinzione e' che, con il mutare del metodo didattico,
la maggioranza di noi, tema di perdere il controllo sulla serieta' dei contenuti disciplinari.
La rigidita' che incontriamo deriva da questa umana terrificante paura.
Grazie.
A volte viene da credere che quando le ideologie vengono immagazzinate nella mente senza un adeguato spirito critico, finiscono per riflettersi, anche inconsciamente, sulle scelte quotidiane. Ecco perché lo studio del pensiero umano e del suo progredire può diventare una vera palestra di critica per i giovani.
Mi lasci dire Professore, che è ammirevole la sua battaglia per la libertà di insegnamento e, al contempo, per una seria e credibile valutazione dei risultati conseguiti dai docenti.
Nella libreria di un insegnante di fisica non dovrebbe mancare il libro della Diver: Allievo come scienziato? (Zanichelli, 1990). Riporto alcuni brani che aiutano la riflessione sull’uso del laboratorio didattico di fisica.
Purtroppo non ho potuto reperire il documento della Commissione presieduta da Berlinguer, ma immagino che l’impostazione si rifaccia alla “didattica per scoperta”.
Nel brano che riporto ci sono solo dichiarazioni di principio, ma ci vorrà potrà constatare che nel resto del libro queste tesi sono ampiamente argomentate sulla base di una ricerca “sul campo”.
“Un’altra caratteristica del modo in cui si è sviluppato il curricolo di scienze negli ultimi decenni è stato il rilievo dato al metodo euristico. Questo era ispirato alla lodevole preoccupazione di far sì che i ragazzi sperimentassero almeno in parte il carattere stimolante della scienza, di “essere per una volta scienziato”. Stiamo ora riconoscendo le trappole della traduzione di questa impostazione nella pratica delle classi e dei laboratori. Gli allievi della scuola secondaria si dimostrano pronti a cogliere le regole del gioco quando chiedono “È questo che doveva succedere?” o “Ho ottenuto il risultato giusto?” La disonestà intellettuale dell’impostazione è dovuta alla pretesa di ottenere dalle attività di laboratorio degli allievi due risultati probabilmente incompatibili. Per un verso si pretende che i ragazzi esplorino da soli un determinato fenomeno, raccolgano dei dati a traggano delle conclusioni su tali basi; per altro verso si vuole che questo procedimento conduca al principio o alla legge scientifica attualmente ritenuti validi. […]
“Le impostazioni più semplicistiche dell’impostazione dell’insegnamento scientifico basata sulla scoperta ipotizzano che noi dobbiamo semplicemente fornire agli alunni l’opportunità di esplorare eventi e fenomeni di prima mano e che essi saranno capaci di indurre da soli le generalizzazioni e i principi. Ciò che ipotizza questo libro è che i ragazzi fanno generalizzazioni a partire dalle loro esperienze dirette, ma che tali generalizzazioni possono non essere quelle che l’insegnante ha in mente. Le spiegazioni non balzano evidenti e uniformi dai dati. […] Se vogliamo che i ragazzi sviluppino una certa comprensione dei concetti e dei principi scientifici convenzionali dobbiamo fornir loro qualcosa di più delle semplici esperienze pratiche. I modelli teorici e le convenzioni scientifiche non saranno “scoperti” dai ragazzi mediante la loro attività pratica. Essi devono essere presentati. È perciò necessaria una guida per aiutare i bambini ad incorporare le loro esperienze pratiche in quello che costituisce presumibilmente un nuovo modo di pensare riguardo ad esse.”
Ma allora se nel laboratorio didattico non si va per scoprire le leggi fisiche, e non si va neppure per verificarle (come è fin troppo evidente dalla critica al verificazionismo di tutta l’epistemologia del ‘900), cosa si va a fare?
“L’obiettivo di tali attività non sono i risultati ottenuti bensì i passaggi nel corso del loro svolgimento: il progetto dell’esperimento, la scelta e l’uso della strumentazione, la registrazione accurata e l’interpretazione dei risultati. […] Chi vuole inserire esercitazioni di questo tipo nelle lezioni di scienze non mira ad esemplificare i procedimenti della scienza stessa, ma ad incoraggiare il pensiero razionale in generale, e a dare agli allievi un senso di fiducia nelle proprie capacità.”
Pietro Cacciatore
Liceo T Livio, Padova
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