mercoledì 19 maggio 2010

La salute totalitaria


Si sente dire tante volte la frase che «chi non conosce la storia passata è condannato a riviverla» da averne quasi la nausea. Quantomeno proviamo a conoscerla questa storia passata. Ecco alcune reminiscenze che potranno forse suscitare riflessioni attuali.
Negli anni trenta, sull’onda crescente della passione mussoliniana per il tema del miglioramento della “razza italica” un’attenzione particolare si accentrò sugli immigrati, per lo più veneti, che avevano popolato le paludi pontine bonificate.  Era la grande occasione – si disse – per sperimentare un miglioramento scientificamente guidato di un gruppo umano che poteva diventare il modello di una nuova razza italica rigenerata. Il mondo scientifico – biologi, antropologi, demografi – si lanciò compatto nell’impresa e si parlò di un «grande laboratorio di biologia umana» che doveva basarsi su un censimento, un’indagine delle caratteristiche somatiche e demografiche degli immigrati. Fu la sagra delle schedature volta a formare un grande archivio delle famiglie. Vi fu il “foglio antropografico” dell’antropologo Sergio Sergi, consistente in un cartoncino contenente (sono parole sue), «brevi note anamnestiche e morfofisiologiche del soggetto, alcuni dati antropometrici e antropografici, tra cui il gruppo sanguigno, le impronte digitali, la fotografia», corredato di una piccola busta, incollata al cartoncino, contenente un campione di capelli. Vi fu la scheda antropometrica o costituzionalista di Corrado Gini, per raccogliere dati sulla costituzione somatica dei genitori. Poi una scheda che descriveva le abitudini alimentari. E, infine, la scheda biotipologica di Nicola Pende, volta a registrare (anche qui sono parole sue) «tutte le caratteristiche somatiche e psichiche, buone e cattive del soggetto, e le sue tendenze ereditarie, e la sua particolare maniera di reagire e di adattarsi all’ambiente cosmico ed all’ambiente sociale e la sua produttività ed i suoi valori, che io classifico in: resistenza vitale generale, attitudini specifiche al lavoro manuale od intellettuale, attitudini specifiche nell’ambito muscolare in genere, valore economico, valore riproduttivo per la specie, valore sociale» Insomma, «la scheda della personalità completa in azione». Tutto il mondo della scienza addosso ai poveri contadini veneti immigrati…
In verità, Pende era il più lungimirante, perché la sua schedatura biotipologica mirava a tutto il paese, altro che Bonifica pontina. Essa era concepita come il «registro indispensabile per lo Stato Fascista, perché esso possa in ogni momento conoscere lo stato del bilancio della sua più grande e solida ricchezza, il capitale umano nazionale». E Pende la descriveva così: «La cartella deve contenere l’accertamento completo della personalità psico-fisica normale e sub-morbosa o pre-morbosa, cioé il documento personale del biotipo individuale a scopo di ortogenesi. Tale cartella deve diventare il fondamento dell’allevamento nazionale dell’infante, del fanciullo, dell’adolescente fino all'età adulta; sarà insomma il vero serio documento individuale di identificazione, di salute e di valutazione di un cittadino che, come il cittadino del Regime Fascista, deve essere veramente una cellula produttiva ingranata armonicamente e consensualmente nel complesso cellulare unitario dello Stato Mussoliniano».
A parte la retorica fascista finale, la scheda di Pende, nel linguaggio contemporaneo, è un “portfolio”? Ma, si dirà, il “portfolio” odierno è un documento che attesta le prestazioni scolastiche del soggetto e non le sue caratteristiche psico-fisiche. In verità, i solerti scienziati fascisti avevano pensato anche a questo. Per esempio, il clinico Banissoni aveva pensato di istituire un libretto personale scolastico “ai fini della valutazione individuale negli impieghi e nel lavoro”. Era un “portfolio” a metà tra la valutazione delle competenze delle abilità (nella terminologia euroburocratica odierna) e la valutazione della personalità psico-fisica. Difatti, Banissoni sosteneva energicamente che la medicina dovesse mettere piede nella scuola – autentico vivaio della nazione – per contribuire in prima linea alla formazione di una generazione sana e forte. Per far questo occorreva che la medicina cambiasse volto e non si occupasse soltanto di malati, ovvero di limitarsi a soccorrere quello che egli chiamava sprezzantemente «l’individualismo egocentrico del malato e del sofferente». Occorreva che si occupasse dei sani, che investisse «le masse di popolo» per preparare generazioni sempre più sane ed efficienti. Una medicina del genere doveva ampliare i suoi interessi all’igiene del corpo e della psiche: non a caso si predicava la necessità di un incremento esponenziale delle cattedre universitarie e scolastiche di psicologia. In particolare, era necessaria una schedatura di massa nelle scuole che doveva raggiungere in pochi anni la cifra vertiginosa di 8-10 milioni di schede.
Fermiamoci qui. Si dirà: cosa c’entrano i “portfolio” con le schedature di un regime totalitario? cosa c’entra la medicina fascista “ortogenetica” con l’encomiabile desiderio di soccorrere i disabili? Nulla, apparentemente. Il fascismo aveva un’attenzione particolare per i soggetti “sani” e mirava a individuare i soggetti “difettosi”, nelle intenzioni peggiori per isolarli, nelle migliori per “bonificarli”. L’obbiettivo era eugenetico: migliorare la qualità della razza. E per questo servivano le schedature di massa e l’allargamento della concezione della medicina.
Oggi siamo tutti buoni e la nostra principale cura sono i malati. Anzi, siamo talmente buoni che, per aver cura di quante più persone sia possibile, allarghiamo il concetto di malattia a quello di disturbo. Così, ai disabili propriamente detti si aggiungono i dislessici, stimati in tre milioni e mezzo, di cui i bambini, aggiungendovi i Dsa (Disturbi specifici di apprendimento), rappresentano il 5% della popolazione infantile. A questi vanno aggiunti i bambini Ahdh (Attention Deficit Hyperactivity Disorder, sindrome del bambino agitato) per raggiungere cifre apocalittiche. In realtà, siamo ancora più buoni perché, non volendo considerarli malati, li definiamo “diversi” (i disabili sono diversamente abili), al pari degli immigrati, degli omossessuali e degli ebrei. E poiché la “diversità”, se riferita a una “normalità”, è una cosa brutta, occorre dire che siamo tutti “diversi”. In un gioco di specchi vertiginoso la diversità e la malattia diventano normalità e la normalità diventa diversità o malattia. Naturalmente servono specialisti: di qui l’esigenza di avere sempre più psicologi, psichiatri, neuropsichiatri infantili, cognitivisti, sociologi, ecc. Dove opereranno costoro? Nel Servizio Sanitario Nazionale, non più ristretto alla misera, piatta, individualistica funzione di curare le malattie, bensì investito del compito globale e sociale di promuovere il benessere e la felicità della popolazione. Questo stato maggiore del benessere viene caricato di tante funzioni – come l’accertamento dello stress negli uffici, mediante stressometro, prescritto per legge, o la diagnosi di Dsa e Ahdh – che non deve soltanto crescere di numero ma avere gli adeguati strumenti di conoscenza. Di qui l’insistente richiesta di “screening” di massa per accertare i vari stati di diversità da registrare scrupolosamente. Così, per esempio, se uno si becca la diagnosi di Dsa se la porta a vita e viene identificato come tale anche quando si presenta quarantenne a un colloquio di lavoro.
Censimenti di massa e allargamento del concetto di medicina. Ricorda qualcosa? Vi è qualcosa che sa di totalitario in questa medicalizzazione della società? Per carità, è soltanto “bontà”. Anche Nicola Pende era animato dalle migliori intenzioni quando perseguiva la “bonifica umana razionale”. Di certo, siamo agli antipodi dal motto liberale di John Stuart Mill: «Ciascuno è l’unico autentico guardiano della propria salute sia fisica sia mentale e spirituale».
(Il Foglio, 15 maggio 2010)

1 commento:

Caroli ha detto...

Felicità della popolazione? Welcome home, mister Orwell...