Il celebre matematico settecentesco Leonhard Euler conosceva a memoria l’intera Eneide ed era capace, pur divenuto cieco, di calcolare a mente uno sviluppo in serie fino al settimo termine dettando il risultato a un assistente: per chi non conosce la matematica significa fare un mare di calcoli difficili, ritenendo a memoria un numero enorme di risultati parziali. Al confronto, il miglior matematico vivente farebbe la figura di un “discalculico”. La “discalculia” è definita come un disturbo che si manifesta come “difficoltà negli automatismi del calcolo e dell’elaborazione dei numeri”. Se confronto la calligrafia dei miei figli con quella di mio padre constato un crollo di qualità tale da considerarli come affetti da “disgrafia”, la “difficoltà di realizzazione grafica”. Per non dire della “disortografia”.
A pensarci bene, non c’è da stupirsi. Secoli fa il calcolo mentale e l’arte della memoria erano considerati una virtù da coltivare intensamente. Oggi facciamo persino il conto della spesa sulla calcolatrice del cellulare e imparare le tabelline è opzionale. Diciamo, per carità di patria, che usiamo le nostre facoltà mentali in modo diverso. Perciò circola una legione di discalculici, tra cui coloro che non amano i numeri. Per quanto riguarda poi lo scrivere, sarebbe strano stupirsi che siano in aumento esponenziale i “disgrafici”, visto che insegnare a tenere correttamente una penna in mano e a maneggiarla secondo regole efficaci è considerato repressivo e reazionario: vorrei segnalare, al riguardo, le lucide riflessioni di Angelo Panebianco sulla mania nostrana di apprezzare non ciò che è ragionevole ma ciò che è “moderno”. Quanto alla crescita dello stuolo dei “disortografici” c’è chi pretende che sia dovuta a “difficoltà nei processi linguistici di transcodifica”; ma bisognerebbe chiedersi se, anche qui, non intervenga il fatto che stimolare la capacità di tradurre correttamente in testo scritto le parole pensate è ormai considerato una fisima reazionaria.
Sta di fatto che, invece di esplorare ragioni come quelle accennate, ci si è orientati da tempo verso l’approccio “curativo”, raggruppando i detti disturbi, assieme alla classica dislessia, sotto l’acronimo DSA, Disturbi specifici di apprendimento. Il DSA sta per essere riconosciuto da una legge nazionale come... malattia? Per carità. Il DSA – si dice – si manifesta in soggetti con capacità cognitive adeguate, in assenza di patologie neurologiche e di deficit sensoriali. Insomma, è una sindrome in stato di normalità ma che dà problemi. Ma allora tanto varrebbe introdurre acronimi, definizioni e leggi che definiscano o curino la pigrizia, l’obesità, la logorrea, la miopia, la petulanza, la distrazione e via dicendo. Ma nella legge c’è la contraddizione: si dice difatti che la diagnosi di DSA viene effettuata dagli specialisti del Servizio Sanitario Nazionale, ovvero medici, psichiatri e psicologi. E poiché il Servizio Sanitario Nazionale cura le malattie, rispunta surrettiziamente la definizione del DSA come patologia. E che sia una patologia è confermata dal fatto che la discalculia non viene diagnosticata dall’insegnante di matematica, o la disortrografia da quello d’italiano, bensì da medici, psicologi e psichiatri.
È il gioco delle tre carte: da un lato, si nega trattarsi di una malattia – sarebbe arduo definire tale un insieme di “sintomi” generici e disparati – ma al contempo la si considera tale riducendo a trattamento sanitario un problema che anziché DSA può essere piuttosto DSI, come ha fatto rilevare un preside con quarant’anni di esperienza, ovvero Disturbi Specifici di Insegnamento. Il gioco delle tre carte è abile perché, se provi a lamentare la tendenza alla medicalizzazione, ti si risponde che non è vero, in quanto nessuno ha parlato di patologie, e che comunque il problema sarà affrontato con metodi psico-pedagogici. Ma allora, perché un passaggio diagnostico di tipo sanitario? Perché, a dispetto dell’affermazione che il DSA non è dovuto a patologie neurologiche, ci si è ingegnati a trovarne le cause materiali – malnutrizione alla nascita, effetto dei vaccini, mancanza di omega 3 e altre amenità – che stranamente non lascerebbero tracce materiali. Per risolvere la questione sono intervenuti i soliti neuromani, quelli che fanno la risonanza magnetica persino ai salmoni morti, che hanno cercato le “diversità” strutturali dei DSA nel cervello. I risultati sono incerti, qualcuno parla di “anomalie” della corteccia, altri di “zone” del sistema visivo, altri dei neuroni a specchio. Su tutto grava l’assurdità di un metodo che pretende di stabilire correlazioni, per giunta basate su statistiche rozze, tra le mappe di funzioni elementari e comportamenti umani estremamente complessi, correlazioni mai stabilite in modo accettabile.
Si noti che mentre alcuni psichiatri sostenitori dell’esistenza del DSA, ma prudenti, stimano in 0,1% i bambini affetti, i fautori della legge parlano di un 3-5% da cui deriverebbero conseguenze imponenti visto che la legge prevede riduzioni di impegno scolastico e orari flessibili per i genitori. Se a una simile cifra si aggiunge quella dei bambini affetti dall’altra “malattia”, l’AHDH, Attention Deficit Hyperactivity Disorder, la sindrome del bambino agitato, il numero di minori con problemi raggiunge percentuali da capogiro, di che pensare a una degenerazione della specie umana. L’esistenza dell’ADHD fu decretata a maggioranza, nel 1980, dall’Associazione degli psichiatri americani e “poi” ci si è ingegnati a dimostrare la verità di tale delibera. Anche qui, dopo aver ipotizzato anomalie cerebrali di ogni tipo, sono scesi in campo i neuromani, per individuare con risonanza magnetica (e al solito modo fasullo) diversità cerebrali che dimostrerebbero l’esistenza della patologia. Ma quel che è specialmente grave nel caso dell’AHDH è che dagli USA – dove si è arrivati alla cifra da capogiro di 17 milioni di diagnosi – si è diffusa una medicina, il Ritalin, che è nient’altro che un sedativo: è facile intuire quanto possa essere pericoloso somministrare sedativi a un bambino in crescita.
Ma tant’è. Tanti abbiamo visto per decenni, ne “Il pellegrino” di Charlie Chaplin, un bambino iperagitato che picchia tutti, combina guai, incolla la carta moschicida sulla faccia della gente, mentre la madre tenta di calmarlo con inadeguate moine. L’abbiamo visto come paradigma della maleducazione, nel senso stretto del termine. È finita: l’educazione è un processo in via di sparizione, quantomeno nel senso di un rapporto tra persone. Esiste soltanto la diagnosi e la terapia delle anomalie di individui-monadi. Tutto è ridotto a processi biologici. Siamo un aggregato di “diversità” da trattare in termini sanitari, da conformare a criteri di normalità definiti secondo criteri “scientifici”, si fa per dire. La società è vista come una gigantesca clinica che ha come “mission” la modellazione degli individui su quei criteri. La solita ideologia scientista invade ogni aspetto della vita personale: si va dal progetto di confezionare un individuo perfetto fin dalla nascita, alla subordinazione della scuola al sistema sanitario, allo stressometro negli uffici, e via delirando; tutto sotto la dittatura sempre più soffocante degli “esperti”, psicologi, psichiatri, neurologi, misuratori delle qualità. (Il Foglio, 28 aprile 2010)
23 commenti:
Professore, la "inseguo" anche qui, ha trattato il dsa da un punto vista diverso e mi piace confrontarmi con lei anche su questo.
Supponiamo per un momento che io sia d'accordo con lei sui dsa, che io ritenga non sia argomento da ssn.
Supponiamo addirittura che mi lasci convincere da lei dell'inesistenza della discalculia, trovandone le ragioni nel diverso uso della nostra memoria.
Non mi spiego,allora, il perchè ci siano ragazzi in grado di memorizzare tabelline, e ragazzi che non lo sono. Non mi spiego perchè ci siano ragazzi che ad un certo punto non commettono più errori ortografici e altri che non li eliminano mai
(per favore, non invochiamo l'asinite, sarebbe fuori luogo)
Diciamo che a parità di impegno alcuni lo sanno fare altri no.Perchè?
Anche io in un altro commento le ho detto che non siamo tutti uguali, e sono d'accordo.
Sono anche d'accordo che la pratica dell'insegnamento del gesto grafico o dell'insegnamento dell'aritmetica con il pallottoliere vedrebbe diminuire molto i casi di dsa.
Fatto sta che alcuni ragazzini anche con l'insegnamento attuale riescono, altri con questo insegnamento no.
Non si può negare che ci sia "qualcosa".
Fatto sta ancora più gravemente che nessun insegnante di nessuna scuola si applica con il pallottoliere e le stanghette se non gli viene ordinato "dal medico".
E qui arriviamo al ssn.
E qui arriviamo alla necessità di una legge che imponga un insegnamento adeguato.
Non mi interessa che mio figlio abbia la diagnosi, mi interessa che mio figlio impari. E se la diagnosi è l'unico sistema, voglio la diagnosi, è un diritto per lui.
Devo confessare, a mio disdoro, che anch'io ho usato metodi simili, elaborati con i colleghi, per valutare le prove scritte. Devo anche aggiungere, a nostra parziale riabilitazione, che nessuna delle "griglie" inventate da noi ci ha mai soddisfatto.
Quanto all'affermazione del prof. Panebianco, che io stimo molto, "sulla mania nostrana di apprezzare non ciò che è ragionevole ma ciò che è “moderno”", egli non dice nulla di nuovo. Già Molière, nel Seicento, aveva scritto, a proposito dell'ipocrisia, allora come ora molto diffusa: "L'hypocrisie est un vice à la mode et tous les vices à la mode passent pour vertus". (Tutti i vizi di moda passano per virtù)
A fronte di questa situazione e di tante altre cose che ho letto in passato su questo blog la domanda sorge spontanea: ma questa pedagogia di cosa diavolo si occupa se non di questi problemi ora assurdamente demandati alla medicina? Forse di teoria degli insiemi...
Voglio dire, in una situazione normale le associazioni dei genitori che, giustamente, si preoccupano affinché i propri figli, con difficoltà specifiche e particolari, possano imparare a scuola come gli altri bambini, si sarebbero rivolti al Ministero dell'Istruzione magari anche cercando il supporto di pedagogisti, educatori (magari perfino dei medici... ma per certificare che non si tratta di una malattia!).
Tuttavia credo che i genitori in questo caso sono vittime (ma, in buna fede, anche un po' complici) di questa situazione: la "certificazione" della malattia (sindrome, disturbo ecc.) è un grimaldello per obbligare la scuola a fare ciò che altrimenti difficilmente avrebbe fatto e dare un nome, ancorché errato, a qualcosa è perlomeno un maniera per dargli un'esistenza e una visibilità sociale che altrimenti non potrebbe avere.
Per ultimo credo che sia anche corretto evidenziare un aspetto politico ed economico della vicenda. Se si vuole (come è giusto) che la scuola possa estendere e migliorare la sua capacità educativa bisognerebbe forse essere disposti ad investirci di più (che, è ovvio, può anche voler dire in maniera più efficiente). Non mi esce dalla testa che una volta questi bambini sarebbero stati semplicemente classificati come "somari", "cretini", "delinquenti". Gli esempi di Einstein, Mozart Eulero ecc. non calzano molto: avevano tutti alle spalle famiglie ricche, colte e benestanti in grado di provvedere anche diversamente all'educazione dei propri figli. Azzardo l'ipotesi che una classe di 25 e più alunni per una maestra sola potesse andare bene quando ci si poteva "scordare" di un certo numero che tanto erano irrimediabilmente "somari", "scemi" o "delinquenti" e dedicarsi con comodo agli altri che non davano nessun problema.
Per l'appunto ho passato il pomeriggio di domenica con un'amica maestra, che mi ha confermato come certi disturbi esistano. Non è certa per la discalculia, vista ormai la difficoltà generalizzata a far imparare le tabelline, ma dislessia e disgrafia non ha dubbi. In particolare per quest'ultima sostiene che in parte derivi dal fatto che si è smesso di insegnare calligrafia però ha incontrato anche casi "disperati", per cui questa spiegazione non vale. Ha aggiunto che quando i maestri erano due o tre per classe, erano soliti separare i casi difficili facendo loro compiere esercizi più "abbordabili" ma senza che i ragazzi si accorgessero di questa disparità, dato che il lavoro si svolgeva comunque in classe e gli insegnanti ruotavano. Questo non si potrà più fare. Ha ricordato anche qualche singolo caso di bambini verbalmente molto intelligenti che si paralizzavano davanti alla scrittura, tanto da convincersi di essere inferiori agli altri: trattati da specialisti di questa sindrome sono se non guariti molto migliorati, e in breve tempo.
Nessuno ha mai messo in discussione la dislessia. Ma se la discalculia non esiste e la disgrafia è limitata a vasi disperati (nessuno mette in discussione che esistano casi disperati) e se della disortografia nemmeno si parla, cosa resta? Quello che è una straordinaria buffonata scientifica è mettere insieme cose tanto diverse, per inventare un disturbo battezzato DSA e fare della dislessia il veicolo serio per cose poco serie (almeno a livello di massa). Per rispetto umano elementare, prima di definire una persona un caso disperato e passarlo a cure mediche bisognerebbe pensarci duecento volte. Invece ormai il rispetto per le persone sta a zero.
Gentile Professore, leggendo il suo articolo trovo le sue considerazioni molto intriganti e sicuramente potranno contribuire a delineare meglio le problematiche dei DSA. Per quasto motivo la invito a leggere il mio articolo uscito sul quotidiano L'Unione Sarda qualche mese fa e che offre un punto di vista scientifico e sociale diverso al problema.
http://giornaleonline.unionesarda.ilsole24ore.com/Articolo.aspx?Data=20100206&Categ=10&Voce=1&IdArticolo=2426342
Attendo le sue consideazioni in merito. La prego però di tenere conto che, per quanto possa essere messa in discussione l'idea di una legge che tuteli i DSA essa offre lo spunto per una riflessione sulla scuola ad esempio il reclutamento di insegnanti capaci (come minimo con doti empatiche nei confroti degli alunni), o aule meno affollate che permettano una maggiore attenzione al singolo, dislessico o meno. E' sicuramente vero che non dobbiamo trasformare la scuola in ospedale ma almeno trasformimola in una scuola! Un luogo dove i ragazzi possano evolversi, costruire la loro personalità intellettuale e trovare i valori di rispetto e giustizia (come qualcuno ha detto"giustizia non è dare a tutti la stessa cosa ma ad ognuno ciò di cui ha bisogno)
Veronica Latini
gentile Martino si tranquillizzi, è tutto normale, i genitori spontaneamente riuniti o le associazioni che gli stessi hanno costituito, si rivolgono quasi quotidianamente agli interlocutori che lei ha individuato.
Creda è dell'autunno scorso una iniziativa che ha visto coinvolte centinaia di famiglie che hanno scritto, al ministro Gelmini, e ad altri rappresentanti dello Stato, lettere autografate nelle quali con semplicità ed onestà si sono presentati i problemi dei ragazzi con dsa, il loro punto di vista sulla scuola e alcune richieste precise individuate tra le esigenze maggiori, per ottenere il rispetto del diritto di tutti all'istruzione, anche dei soggetti con dsa-
Creda non ci sono famiglie che chiedono diagnosi o certificazioni di comodo per scaricare responsabilità educative o impegno scolastico.
In quanto a quello che dice lei, Professore, mi perdoni, ma non ho capito cosa significa "fare della dislessia il veicolo serio per cose poco serie".
Cosa, Professore, le fa riconoscere l'esistenza della dislessia e non della discalculia? Sì, ha già parlato del diverso utilizzo delle facoltà mentali,ma non basta, perchè la confusione che un dislessico fa con le lettere (per semplificare molto) un discalcuico la fa con i numeri.
Per lei, che differenza c'è?
Appunto, per semplificare molto...
Provi a leggere la definizione di discalculia. Mi rifiuto di proseguire una discussione in cui mentre da un lato si cerca di spiegare per quali motivi non ha senso dare una definizione scientifica di un disturbo composto di sintomi tanto diversi (e così mal definiti) come i quattro messi assieme, e quindi non ha senso la definizione stessa di dsa, si continua a parlare di bambini dsa. È come se spiegassi che non ha senso parlare di fantasmi e si rispondesse discettando del modo di vivere dei fantasmi. Oppure se dice che anche se la diagnosi non ha senso, se la diagnosi serve ben venga la diagnosi. Mi dispiace, ma non sono interessato a questo genere di discussioni.
E quanto a quel che mi propone la sig.ra Latini, il problema è che il titolo stesso del suo articolo rappresenta per me una pregiudiziale. Ho scritto decine di articoli e un libro intero per confutare l'idea dell'uomo-macchina e la pretesa di spiegare il pensiero con le neuroscienze. La ritengo - come del resto molti scienziati - un autentico non senso. Non ho alcuna intenzione di imbarcarmi in una discussione le cui premesse sono che le neuroscienze avrebbero spiegato l'architettura del cervello dei dsa.... anche se molto resta da spiegare... e ci risiamo...
Gentile Irene,
forse non mi sono spiegato, ciò che a me non sembra normale è che la figura (e la scienza) di riferimento per questo tipo di problemi siano i medici, la neurologia (le neuroscienze più in generale) e non la pedagogia e i docenti (oltre, ma questo è ovvio, alle famiglie interessate). Se così fosse non ci sarebbe bisogno per un riconoscimento medico dei DSA, basterebbe il riconoscimento dell'esigenza pedagocica. Ovvero: ci sono alcuni bambini per cui non valgono i metodi di insegnamento tradizionale, è necessario che la scuola si faccia carico del problema. Il mio timore è che il pedagogo (e l'istituzione) non si muovano finché non c'è un medico che certifica l'esistenza di qualcosa che, a quanto pare non e nemmeno in grado di definire (figuriamoci spiegare). Sembrerà una questione di lana caprina ma secondo me è alla base di una grossa (e pericolosa) confusione culturale.
In alcuni casi può andare bene: il medico mette insieme alcuni pezzi e gli da un nome, il pedagogo chiamato all'azione fa quello che avrebbe fatto anche senza l'invenzione medica. In altri può andare peggio, il medico si può arrogare il diritto di risolvere lui la cosa direttamente ad esempio (del resto non è a lui che ci si è rivolti?). Mi perdoni la semplificazione, spero sia chiaro il concetto. Spero sia anche chiaro che non colpevolizzo i genitori, cosa farebbe la maggior parte delle persone vedendo che suo figlio ha dei problemi e ascoltando il medico che gli dice che soffre della sindrome AHDH...?
Mi rimane un dubbio (e qui mi rivolgo sia e lei che al professor Israel): che si voglia parlare di malattia (o sindrome) o che si voglia semplicemente parlare di didattica capace di adattarsi a differenti modalità di apprendimento, far si che la scuola possa fare il suo lavoro in questo campo ha un costo. La mia impressione è che non si vada in questa direzione. Intendiamoci: può andare bene qualsiasi riforma, taglio anche molto scomodo ma solo se sull'altro piatto della bilancia poi metto risorse per creare qualcosa di alternativo, altrimenti si chiama "fare cassa". Spero di sbagliarmi.
Un'ultima nota sulla dislessia: io credo che anche qui (come spesso nelle neuroscienze) si scambi la (pur meritevole) definizione (e investigazione) di un fenomeno con la sua definitiva spiegazione fisiologica che non mi consta esista. Poter diagnosticare un disturbo aiuta perché rende visibile una difficoltà ma può essere pericoloso perché da l'impressione che si sappia perfettamente in cosa consista la difficoltà e come affrontarla mentre non è così.
Gentile Professore, sinceramente speravo in una apertura maggiore da parte sua nei confronti di questo problema. Le faccio comunque notare che il problema dei dsa non si pone come un voler spiegare un problema con le neuroscienze. La capacità di leggere e fare i calcoli non è un "pensiero" ma una abilità strumentale la cui collocazione nel cervello è ben definita e spigata anche dalla attivazione di geni deputati a questo compito dimostrabile con esperimenti di espressione genica universalmente accolti ed usati per studiare meccanismi fisiologici di grande rilevanza. Escludere a priori la possibilità di una diversa conformazione cerebrale dei dsa mi pare azzardato e il non volerne neanche discutere anche peggio. Comunque, se ha ben letto il mio articolo, io non ne faccio un fatto di medicalizzazione ma semplicemente di variabilità di un carattere in una popolazione umana. Quanto al termine DSA, stiamo discutendo appunto di un termine, un modo per raggruppare che certamente può essere rivisto e corretto se non accantonato senza dimenticare però che il problema esiste. Ma mi dica lei come considera questi diagnosticati DSA? Somari? Poco dotati? Vittime del sistema scolastico? Forse l'ultima opzione? E come risolverebbe il problema?
Grazie per la sua attenzione
Veronica Latini
Gentile signora, lei deplora la mia mancanza di apertura alla discussione. E poi pretende che tale discussione si sviluppi sulla base dell'asserzione, data come scientifica, secondo cui leggere e fare calcoli è soltanto un'abilità strumentale la cui collocazione è ben definita e spiegata ecc. In altri termini, calcolare - ovvero un'attività che implica un processo di astrazione simbolica di alta complessità - sarebbe un'attività di tipo motorio come agitare un braccio o una gamba. Non so dove abbia tratto una simile tesi, ma evito, per educazione, di dire cosa penso del livello culturale di chi l'ha enunciata. E sarebbe azzardato e anche peggio non voler accettare per evidente e scientifica una simile piattaforma di discussione? Invece di accusare me di indisponibilità provi lei a fare un serio esame di coscienza e chiedersi che cos'è la modestia e il rigore nel trattare questioni così delicate e complesse. Vede, apertura e disponibilità significa anche non prendere di petto con tanta sicurezza chi non la pensa come lei su argomenti a dir poco opinabili. Neppure un neuroscienziato serio si permetterebbe di dare per scontato che sia perfettamente nota, definita e spiegata (addirittura!) in termini genici l'attività di calcolare. Lasci perdere la pessima divulgazione sensazionalista.
Forse potrebbe iniziare con una lettura della Filosofia delle forme simboliche di Cassirer accompagnata da un accurato studio delle forme con cui emerge nella lontana antichità il concetto di numero. Altro che "abilità strumentale", non-pensiero.
Se le sono sembrata irruenta e ignorante le chiedo scusa. Accetto volentieri i suoi suggerimenti circa le letture sulla filosofia delle forme simboliche, mi suona affascinante. Mi permetto però, visto che di ricerca scientifica non sono digiuna di invitarla a visitare il sito della biblioteca biomedica "medline" (PUBMED)su cui sono indicizzate le migliori riviste scientifiche specializzate che vanno da Nature a Science a Lancet ecc...digiti il termine Dislessia e troverà tutta la bibliografia sull'argomento con articoli di valore e altri meno. Ma mi permetto, solo se le interesserà finalmente, in seguito di inviarle una breve selezione da cui potrà verificare che la base neurobiologica c'è e anche quella genetica (non parlo quindi di articoletti divulgativi su presunte risonanze magnetiche)c'è.
detto questo non parlo di malattia ripeto, ma di variabilità interspecifica, come il colore degli occhi, l'altezza ecc...
E vorrei notare però che non mi ha comunque risposto sulla eventuale soluzione che le proporrebbe per questi ragazzi DSA diagnosticati
Veronica Latini
1) Il calcolo mentale non è un procedimento meccanico (salvo le procedure acquisite in memoria). Vediamo di non passare dalle tesi di Piaget secondo cui la manipolazione dei numeri non inizia prima dei sette anni a quella secondo cui si tratta di strutture innate (genetiche), ispirate alle tesi di Changeux. Si tratta in entrambi i casi di tesi estreme e senza serio fondamento.
2) Non è questione di lavori di genetica o di neuroscienze più o meno seri. Quel che fa problema è la correlazione tra condizioni genetiche o stati neurologici e processi mentali. La pretesa di stabilire queste correlazioni è spesso futile e infondata, ancor peggio quella di dedurre da vaghe correlazioni un rapporto di causa-effetto. Anche articoli pubblicati su riviste di tutto rispetto per la parte che riguarda queste correlazioni o causalità sono del tutto inattendibili. Come del resto le tesi di Changeux - che ispirano recenti sviluppi - neuroscienziato di primo livello, peggio che discutibile quando discetta di tali questioni. Non siamo in grado di descrivere il moto di più di 3 corpi, figuriamoci se ha senso stabilire dei legami di causa-effetto diretti e circostanziati tra il contesto neuronale o genetico e i processi mentali.
3) Oltretutto su questo terreno si apprende poco o niente rispetto a quello che ci da l'esperienza diretta e le conoscenza consolidate dei processi mentali e dell'apprendimento. Ed è quindi a questa esperienza e a queste conoscenze che è più opportuno rifarsi. Nel caso della dislessia, esistono strategie psicopedagogiche collaudate e di successo per trattarla. Si riesce molto spesso a risolvere o migliorare il problema per questa via, anziché medicalizzare il problema in termini neurologici.
4) Quanto agli altri disturbi, la loro definizione è talmente vaga e arbitraria da non poter essere presa sul serio. Peggio ancora la pretesa di raccogliere entro un'unica categoria (Dsa) quattro "sindromi" diversissime, legate a fattori diversi. Mettere insieme tutto questo è peggio che poco serio: è una cialtronata scientifica. Perché non includervi anche la dis-attenzione? O altre dis- di altra natura? Perciò, non accetterò mai di usare questo termine e di parlare di "soggetti Dsa". Tanto varrebbe parlare del sesso degli angeli. Che lo si faccia diffusamente, anche da parte di specialisti, è soltanto sintomo della decadenza scientifica dilagante.
5) A parte il caso della dislessia, che è noto e studiato, gli altri casi di difficoltà di calcolo, di scrittura ecc. vanno in primo luogo e fino che è possibile trattati individualmente come casi didattici, in un rapporto collaborativo tra insegnante e famiglia. Si tratta di cercare di individuare tutte le situazioni specifiche di difficoltà personale o dovute al contesto che rendono difficili al bambino certi aspetti dell'apprendimento. Occorre che insegnante e famiglia analizzino con scrupolo e modestia tutti questi fattori possibili. Occorre mettere in opera strategie didattiche differenziate e articolate (per l'insegnamento della matematica questo è possibile e vi è larga esperienza al riguardo). Occorre analizzare attentamente i possibili fattori derivanti dal contesto familiare e da quello scolastico. Non posso diffondermi in dettagli, ma mi limito a osservare che ho verificato in moltissimi casi che il disordine o il chiasso in classe (purtroppo assai frequente!), determina reazioni molto diverse nei bambini: alcuni reagiscono attivamente, non pochi cadono in veri e propri stati di estraniazione e depressione, quasi di catalessi. E, di certo, dopo sei-otto ore vissute così non si recupera di certo a casa… Sono convinto che la stragrande maggioranza dei casi sia come ha detto quel preside, Dsi, Disturbi specifici di insegnamento… e in altri casi Dsg (Disturbi specifici genitoriali).
5) Solo dopo che tutte le strategie didattiche, pedagogiche e il coinvolgimento attivo della famiglia avranno fallito si potrà considerare un ausilio dello psicologo o del neuropsichiatra, il che significa trattare il caso come un caso di disabilità. Francamente penso che bisognerebbe evitare fino al limite estremo di classificare un bambino come "patologico" e "diverso" (in senso generale siamo tutti "diversi", in senso stretto parlare di "diversità" è pericoloso), tanto più che questi casi sono molto pochi.
6) L'idea di una diagnosi estesa o peggio ancora dello screening di massa di una malattia inesistente nei termini delle definizioni insensate che ne vengono date, è un'idea aberrante e degna di uno stato totalitario incline al razzismo. Sarebbe bene ricordare chi ha per primo propugnato la necessità di uno screening di massa dei bambini a scuola volto a individuare i soggetti "difettosi", o comunque "particolari", compilando delle schede individuali descriventi tutte le caratteristiche del soggetto: i clinici fascisti degli anni trenta.
Aggiungo infine che capisco bene che diversi insegnanti, nello stato di degrado della scuola, sono poco disponibili a impegnarsi su una tematica difficile e preferiscono scaricare subito il problema sullo psicologo. Sappiamo anche che le famiglie, a loro volta, sono troppo spesso insensibili al problema educativo e, quando si trovano di fronte a una difficoltà, preferiscono prendersela con la scuola e chiedono in modo sindacale che qualcuno gli risolva il problema senza rompersi la testa.
Ma questo - la crisi educativa in cui viviamo - non è un buon motivo per inventarsi una realtà parallela.
Tanto per fare una battuta, se i medici con cui si ha a che fare non hanno voglia di curarti il diabete, non è una buona idea rivolgersi a un chimico. Oppure, per fare un esempio più concreto, se un bambino è sbandato perché i genitori si sono separati non è serio ignorare il vero problema e affrontandolo sul "vero" terreno, e medicalizzare la faccenda diagnosticandolo come Ahdh, come depresso o comunque come un disturbato, e imbottendolo di calmanti.
Nella classe di un Istituto privato di suore dove un mio amico manda il bambino, 4 bimbi su venti sono in cura dal neuropsichiatra. Il 20 per cento. Ieri un mio conoscente mi ha detto che suo figlio è stato mandato dallo psicologo in quanto 'non scolarizzato'. Lo psicologo ha consigliato un tutor da affiancare al bambino TUTTO L'ANNO, e, per migliorare le prestazioni scolastiche del minore, far leva sui sensi di colpa. In classe con mio figlio, periodicamente indicato come bisognoso di intervento psicologico, un altro bambino è continuamente vessato per sospette dislessia e sordità, e abbiamo recentemente scoperto, anche una bimba e sua madre sono in cura dallo psichiatra dopo segnalazione della maestra all'USL, cosa che ha provato a fare anche con noi ricevendo un gesto dell'ombrello. Questa è una guerra. Una guerra.
E aggiungo che non mi piace affatto che testimonianze come queste vengano ignorate. E sono tante. È un atteggiamento arrogante che denota scarso rispetto per il prossimo e scarsa attenzione. Proprio quelli che vengono pretesi a gran voce per sé stessi.
http://www.terranauta.it/a1335/spazio_ai_lettori/lettera_aperta_di_un_gruppo_di_insegnanti_e_genitori.html
Lettura consigliata: il libro di Marco Bobbio citato nella homepage. Cfr. in particolare il paragrafo su Ahdh (parla un primario di cardiologia).
A questo punto, prima di rispondere a Martino e a lei, ritengo necessaria una precisazione.
Sono una mamma, senza alcuna cultura scientifica alle spalle, con una scolarizzazione di livello basso, sicuramente, e posso senz'altro essere "messa in difficoltà" o addirittura "in buca" da chi ha una cultura più vasta alle spalle, da chi può infarcire i discorsi con termini per me difficili da capire.
Questo non toglie che io sappia e creda nell'esistenza di tutti i dsa perchè ogni giorno li vedo sui miei figli, ogni giorno noto il loro particolare modo di essere e di fare, e su questo nessuno può mettermi in difficoltà. Vivo il dsa.
Detto questo mi scuso con Martino, in effetti avevo capito male. Sa perchè ci si rivolge anche al medico? Intanto la figura professionale coinvolta è il neuropsichiatra che prima di tutto esegue una valutazione psicologica sul soggetto, per assicurarsi che le sue caratteristiche psichiche siano adeguate all'età (in sostanza, escluda un ritardo mentale) poi valuta se la difficoltà di apprendimento lamentata non sia dovuta a fattori socio ambientali, ed infine sommistra test non certo per valutare l'adeguatezza delle conoscenze riferita alla classe frequentata, ma per valutare come il soggetto acquisisca le conoscenze.
E così tagliamo la testa al toro messo in campo dal prof Israel che giustamente sostiene che in una classe di bambini turbolenti, imparare la matematica sia difficile. E' difficile per tutti in questo caso e non stiamo parlando di questo. Perchè se un bambino senza disturbi di apprendimento riuscirà a fare metà programma dato il rumore, un bambino con disturbi che non possa utilizzare mezzi compensativi e dispensativi previsti riuscirà a fare un quarto del programma dato il rumore e il dsa.
Infine, Professore, ancora lei richiama l'utilizzo di psicofarmai sommistrati ai bambini anche, dice lei, in caso di depressione o altre difficoltà manifestate per, ad, esempio, la separazione dei genitori.
Sottolineando che per i disturbi di apprendimento di per sè non vengono mai prescritti farmaci, vorrei farle notare che un bambino depresso per la separazione dei genitori, è depresso comunque (una volta accertata la patologia, di patologia si tratta in caso di depressione) quindi se la psicoterapia non dovesse essere sufficiente, avrà pure il diritto di essere aiutato quel bambino a ristabilire i livelli di serotonina atti a sostenere ed affrontare lo stress? Ma questo è un dicorso diverso, che quando messo in relazione ai dsa crea confusione e falsa informazione.
Anch'io sono solo una mamma,e parlo con le altre mamme ai giardinetti e a volte anche in casa mentre i pargoli giocano.
Si è fatto un gruppetto , si cercano confronti, ci si scambia giochi.
Io vorrei solo dire che dal confronto con altri genitori ci sono molte caratteristiche uguali nei nostri figli con disabilità diverse :
cose che normalmente sono automatiche per loro non lo sono, (esempio io guardo una parola e collego l'astrazione , loro no) improvvisamente dimenticano tutto; le lezioni che a casa ci ripetono bene il giorno dopo non le sanno,per poi esporle in un altro periodo; sembra vivano in un tempo tutto loro, con nessuna relazione con l'orologio ; sono molto creativi, capiscono le cose con intuizioni personali; non riescono a ripetere un elenco nell'ordine esatto , sembra che le informazioni si perdano nella loro testa e facciano fatica a processarle.
Potrei continuare.
Ecco di questi bambini qualcuno ha la "diagnosi-etichetta" di dislessia , mio figlio di disortografia , altri non ce l'hanno ancora.
Io penso che li abbiano messi nello stesso gruppo "dsa" perchè hanno caratteristiche comuni e poi abbiano voluto distinguere con il nome dis seguito da quello dell'abilità che è piu' evidente non riescono a fare.
Quindi bisogna guardare la persona nell'insieme , non fermarsi a quell'abilità. E poi cercare pero' le strategie per aiutarla e insegnare a conviverci meglio.
Gentili interlocutori,
ero già intervenuto nell'altro post sull'argomento dsa, dal punto di vista di un insegnante di scuola primaria; proprio perché vivo la scuola in prima persona devo confermare che molti disturbi possono avere soluzione didattica. Mi è stata affidata una prima classe come insegnante prevalente con tre bambini preceduti da segnalazioni delle colleghe e da diagnosi preoccupanti; è stato costruito un curricolo ad hoc che permette di individualizzare i percorsi di apprendimento, basato su una metodologia per l'insegnamento della lettoscrittura poco consueta in Italia ma affidabile (ogni bambino ha un suo personale adattamento della lezione). Quando nella mia scuola si è svolto il consueto terribile screening per la valutazione precoce delle dislessie (già significativo che esita un progetto così: la letteratura riporta che test di questo genere danno risultati significativi soltanto a partire dalla seconda classe) e quant'altro, i miei alunni sono risultati tutti "normodotati": nessuno si è accorto che avevano un possibile dsa segnalato nel ciclo precedente. Ovviamente la mia esperienza non può essere esaustiva; ma segnala che molti bambini, frettolosamente individuati come "portatori di dsa", hanno bisogno soprattutto di attenzione individuale e "cure" didattiche ed educative specifiche. Non ho dubbi che esistano difficoltà legate a specifiche esigenze che hanno bisogno del sostegno di specialisti; ma non ho neppure dubbi che una larga parte di ciò che "certifichiamo" come dsa sia la risposta che una scuola in grave difficoltà fornisce a famiglie preoccupate, spesso soltanto dalle parole dell'insegnante che non sa come risolvere i problemi di un bambino che sta imparando in modo diverso dagli altri compagni.
Cordialità, Vincenzo Manganaro
Gentile Professore, sono giunta ad una conclusione leggendo i suoi ultimi messaggi. Innanzi tutto mi trovo completamente daccordo con lei rigurdo a quasi tutti i punti. Ossia condivido il concetto di non ospedalizzazione degli alunni, di agire per tappe nel considerare un disagio di un bambino, di guardare alla totalità dell'individuo nell'affrontare presunte disabilità scavando non solo in modo medico ma soprattutto psicologico, didattico, comportamentale sociale.....ecc..non ho mai condiviso l'idea di screening di massa, di diagnosi approssimative e affrettate, di utilizzo di farmaci antidepressivi e condivido la linea dell'associazione che si occupa della tutela dei bambini rispetto alle cure psichiatriche.
Ma la mia conclusione è questa, in questo blog stiamo parlando di tutto un pò. Io posso parlare di dislessia e non di disturbo da iperattività perchè ancora non ho le conoscenze adeguate. Quindi ritornando alla dislessia....come ben ha detto Irene non vengono dati farmaci ai dislessici, non vengono fatte cure psichiatriche, a scuola non hanno neanche l'insegnante di sostegno. Vengono aiutati in un percorso psicopedagogico dove riprendono alcuni apprendimenti carenti aiutandoli ad attuare strategie compensative e rafforzando l'autostima che in genere è la più compromessa in questo contesto. Tutto questo avviene con un affiancamento di pedagogista o psicologa o logopedista secondo la complessità del problema. I genitori devono collaborare assiduamente aiutando, supportando il percoso così come gli insegnanti che spesso non sono preparati ma altrettanto spesso si cimentano e ottengono ottimi risultati. Questo è il percorso tipico di un dislessico che viene monitorato anche a fine anno scolastico e supportato con audiolibri che leggono per lui, software didattici per produrre mappe concettuali e altri strumenti che gli permettono di svolgere rapidamente i compiti e le consegne in genere. Insomma si tratta di attuare alcune strategie che permettono un apprendimento adeguato. Il confronto è quello con un miope a cui vengono tolti gli occhiali e a cui viene chiesto di leggere alla lavagna, non potrà farlo, bisogna che usi gli occhiali. Quindi come vede la difficoltà continuo a dire è strumentale, ma so che lei non condivide, infatti le garantisco che usando quegli occhiali "accorgimenti" di cui ho parlato sopra il ragazzo dislessico ottiene risultati di eccellenza, si tratta di un insieme di strategie che adottate dai docenti e dai genitori mettono il dislessico in condizioni di apprendere per vie diverse ma ugualmente efficaci, ecco cosa tutela legge che lei tanto critica, non sono regali di voti, non sono trattamenti speciali solo buon senso e un lavoro accurato di grande sensibilità fatto da tutti i protagonisti per far capire a questi ragazzi che possono essere eccellenti, senza farmaci, senza trattamenti particolari e con tanta pazienza. Alla fine di questo percorso oltre allo sguardo soddisfatto di questi ragazzi c'è la soddisfazione dei docenti che vedono sbocciare studenti in gamba che prima non conoscevano.
Ci pensi a queste considerazioni, e tenga conto che l'esperienza di genitori pacati come Irene e altri che hanno scritto in questo blog vale più di tante considerazioni filosofiche, seppure validissime.
La legge può essere rivista e corretta togliendo tutte quelle parti che maggiormente pongono il bambino nella condizione di malato, ma non può essere attacata nella sua totalità perchè c'è del buono che va compreso visto che nasce dalle necessità di tante famiglie, docenti e soprattutto bambini.
Grazie per l'attenzione
Veronica Latini
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