Mi è stato segnalato un commento audiovisivo di un collega pedagogista, il professor Fabio Bocci (Università di Roma Tre) a un mio articolo comparso circa un mese e mezzo fa sul Messaggero: http://vodpod.com/watch/1124443-il-prof-bocci-risponde-a-giorgio-israel-riguardo-la-riforma-gelmini.
Ringrazio il collega per questa polemica aperta e leale. In linea generale, ho avuto confronti privati con pedagogisti (anche molto autorevoli) per lo più molto pacati e comprensivi ma nessuna risposta pubblica, mentre mi sono state segnalate diverse scariche di insulti volgari profferiti in taluni locali universitari. Tanto più trovo apprezzabile che questo collega abbia manifestato il suo dissenso in modo tanto aperto quanto civile.
L'ascolto delle sue parole mi ha colpito. Difatti, il collega Bocci si è sostanzialmente limitato a leggere il mio articolo senza sviluppare contestazioni di merito - argomenti contro argomenti - bensì sottolineando con addolorato stupore le mie tesi come se dovesse essere assolutamente evidente di per se, senza alcun bisogno di dimostrazione, la loro assurdità. Insomma, pare che leggere il mio articolo e sottolineare certi passaggi sia di per se sufficiente a suscitare il rigetto dell'ascoltatore.
Nella sostanza, quel che Bocci mi rimprovera è di "denigrare" la scuola e la pedagogia, asserendo che la prima va male (mentre a lui pare che sia sufficiente asserire che è "falso" che vada male) e che la seconda è responsabile di questo sfascio (che non ci sarebbe), da cui l'assurdità del mio sillogismo.
Il guaio è che il suo è un sillogismo basato su certezze date per evidenti e che non abbisognano di essere dimostrate. E quindi, se tali postulati sono falsi, crolla all'istante. Il problema è dato proprio da quelli che Bocci tratta come postulati e verità evidenti.
1) Lo stato della scuola. La discussione verte ovviamente su quella primaria, dato che nessuno osa mettere in discussione che quella secondaria vada male (se non altro per i famosi test Ocse-Pisa). Ma anche qui, dare per ovvio che la primaria italiana vada bene non è molto ragionevole e qui (come è stato abbondantemente spiegato non esistono test di analogo significato). Esistono invece innumerevoli analisi che vanno nella direzione opposta. Il collega Bocci mi farà la cortesia di non dover ripetere quel che ho scritto in un numero ormai sterminato di articoli, e soprattutto nel mio libro "Chi sono i nemici della scienza?" e di non dover ripetere tutte le referenze ai tanti scritti che avanzano tesi analoghe, ovvero volte a mostrare che il disastro inizia proprio nella scuola elementare. Esiste ormai un'ampia letteratura al riguardo, incluso un gran numero di libri scritti da maestri e professori. Esiste poi un gran numero di testimonianze dirette di genitori e maestri, alcune delle quali contenute sul mio blog e su tanti blog di insegnanti, e che sono ormai tante da poterle raccogliere in un libro. Non credo che sia una buona idea chiudersi nell'autoreferenzialità e nelle proprie sicurezze teoriche invece di guardare con occhi aperti, spirito critico e libertà di pensiero ai fatti.
Mi limito agli ultimissimi episodi raccolti. C'è l'insegnante che, dopo aver scritto sul mio blog che i suoi alunni (delle secondarie) non sanno che un chilometro vale mille metri, perché non sanno che "chilo" è "mille" si chiede se ciò non sia colpa di elementari in cui circolano maestri che emettono simili sentenze: "Si è passati dalla scuola nozionistica ad una scuola che potenzia le capacità di pensare, di dedurre. Il maestro non trasmette solo conoscenze, ma crea strutture di apprendimento". È la vulgata corrente, è la parola d'ordine della scuola degli ignoranti e del paese dei balocchi.
Un'ora fa ho raccolto questa testimonianza da amici che hanno partecipato ieri a una riunione di classe. La maestra di italiano ha proclamato: "Non ha alcuna importanza se un bambino scrive "è" senza accento e "ha" senza "h", quel che importa è come pensa, le sue strutture mentali"... E la maestra di matematica di rincalzo: "Non ha nessuna importanza saper fare un'addizione o una moltiplicazione, quel che conta è cosa il bambino pensa dell'addizione e della moltiplicazione"... Mentre vengono profferite simile indegne e devastanti ridicolaggini, tutti noi genitori constatiamo che i nostri figli in terza o quarta elementare non sanno risolvere banali problemini. Per esempio, stamattina portandolo a scuola, ho tentato vanamente di far risolvere a mio figlio, che aveva parlato di "cento mesi", il problema di quanti anni valessero questi cento mesi. Non riusciva a formalizzare la questione, ovvero che doveva dividere 100 per 12 e quando, con la mia guida vi è pervenuto, ha sbagliato il resto della divisione. In linguaggio pedagogista potremmo dire che è una catastrofe in termini di "competenze". È una catastrofe che deriva dall'ideologia sopradescritta, perché per la maestra mio figlio pensa benissimo, anzi è il migliore della classe.
In conclusione, invece di liquidare il problema come "falsità" e "denigrazione", Bocci farebbe bene a aprire un riflessione critica sullo stato reale della scuola primaria e ascoltare le tantissime voci che parlano di una realtà diversa da quella che lui si figura. Comunque, tolga di mezzo il ricatto: dire che la scuola primaria non va è una "tesi" non è una "denigrazione", tantomeno un "attacco" alla scuola.
2) Arriviamo così al discorso sulla pedagogia. La mia tesi è che il disastro attuale della scuola italiana (di tutta la scuola italiana) è responsabilità di chi ne ha gestito le riforme e individuo tale responsabilità (come fanno moltissimi, e non soltanto in Italia!) nelle correnti della pedagogia dell'autoformazione (o autoapprendimento), del "meglio una testa ben fatta che una testa piena", che hanno preso le mosse dall'opera di Dewey e hanno avuto un referente fondamentale in quella di Edgar Morin. Ora qui Bocci mi vorrà consentire che criticare "questa" pedagogia non significa "attaccare" e "denigrare" la pedagogia in quanto tale. Ritengo che chi condanni la pedagogia in quanto tale sia semplicemente un cretino. Probabilmente io sono un cretino, ma certamente non per questo motivo. Spero però che Bocci non commetta il peccato di superbia di identificare queste correnti pedagogiche con la pedagogia in quanto tale per poi mettere alla gogna chiunque le critichi come "nemico" e "denigratore" della pedagogia... Sarebbe come se io fossi criticato per fare cattive lezioni di matematica o di storia della scienza e di formare dei pessimi allievi e mi difendessi dicendo che si sta portando un attacco denigratorio alla matematica o alla scienza. Sarei a questo punto giustamente imputabile di delirio di potenza. Ma io non credo che Bocci sia affetto da un delirio di potenza e tantomeno che il suo sia un peccato di superbia. Mi permetterei invece, da storico della scienza, di ricordargli la lezione di Thomas Kuhn circa quel che accade quando un paradigma scientifico tende a cristallizzarsi in "scienza normale" e si identifica con l'unico modo possibile di fare scienza. È la fase del dogmatismo, del manifestarsi di una sterilità del paradigma, di una sua incapacità di rinnovarsi e vivificarsi nel confronto con la critica, e questo chiudersi in se è il preoccupante segnale di un declino inarrestabile. Perciò, al posto di Bocci, mi preoccuperei, e parecchio. La sua identificazione del paradigma pedagogico a lui caro, e che senza ombra di dubbio ha influenzato le riforme scolastiche da almeno trent'anni, con la pedagogia tout court non è una manifestazione di superbia (da escludersi in una persona come Bocci) quanto il segnale di una paralisi della capacità critica divenuta persino inconsapevole. E quando si spegne la capacità di mettersi in discussione è il segnale di una crisi difficilmente reversibile. Provi quindi Bocci a non dare per scontato che le teorie pedagogiche cui egli si rifa sono il Vangelo e a confrontarsi con chi le critica - magari anche duramente: la critica dura e vivace è il sale della discussione e del progresso scientifico! - a confrontarsi con gli argomenti altrui, a provare a confutarli nel merito, invece di additarli in quanto "attacco" e "denigrazione" a un'indignazione pubblica che non è ovvia (e purtroppo per lui non lo è). Naturalmente non entro nel merito perché ritengo di averlo fatto abbondantemente: mi attenderei piuttosto di essere letto e contraddetto nel merito della pienezza dei miei argomenti, e non leggendo una frase di un articolo.
Un ultimo punto. Bocci mi accusa per aver parlato di un "complesso sindacale-psico-pedagogico-docimologico che domina la scuola da trent’anni e che è responsabile del suo stato attuale" e quindi di aver additato i pedagogisti come una sorta di "massoneria". Lasci perdere questo termine: non l'ho usato e basta. Guardi invece alla realtà. È da quarant'anni che i sindacati confederali (e in particolare la Cgil) hanno esteso in modo incontrastato il loro potere sul sistema dell'istruzione. Non ho nulla contro i sindacati, ma credo che dovrebbero stare al loro posto, ovvero occuparsi di questioni stipendiali e normative e non impicciarsi di organizzazione scolastica. Invece, assistiamo da tempo - e basta leggere le recenti proposte della "Federazione dei Lavoratori della Conoscenza" per averne la conferma - a un'intrusione persino nella determinazione dei programmi scolastici. Arriviamo al punto che, mentre persone come il sottoscritto e docenti del livello di un Giovanni Sartori o di un Aldo Schiavone vengono rudemente invitati a presentare le loro credenziali accademiche da ignoranti semianalfabeti soltanto per aver parlato di necessario rigore nella scuola, un ragioniere esperto soltanto di sindacati edili e tessili si mette a discettare di pedagogia e viene preso anche sul serio. Bocci sa benissimo che la pedagogia che piace a questi signori e che hanno difeso a spada tratta anche in questi giorni di scioperi e manifestazioni, è quella che domina da trent'anni e più nei corridoi ministeriali, indipendentemente dai ministri e dal loro colore politico. Non c'è bisogno che faccia nomi e cognomi perché Bocci li conosce a memoria: i "pedagogisti di stato" che hanno determinato il corso della scuola italiana quantomeno nelle ultime tre legislature sono gli stessi.
È a loro che vanno imputati i risultati attuali. Vanno imputati ai teorici dell'autoapprendimento, a coloro che hanno scritto indegni programmi e indicazioni nazionali - sulla cui indecenza disciplinare sono pronto a qualsiasi confronto, mentre constato sempre una precipitosa fuga. Vanno imputati a coloro che hanno trasformato lo strutturalismo in uno strumento ideologico, facendo credere che l'insegnamento non sia un processo in cui le nozioni vengono apprese attraverso un metodo, bensì una serie di strutture autoreferenziali da riempire a piacere. Va imputato a quella consorteria di docimologi che applicano tecniche di valutazione impresentabili, per esempio basate su un uso risibile della distribuzione gaussiana. Tutte queste persone sono legate da un'ideologia comune, e spesso da un'appartenenza politico-sindacale e comunque da comuni intenti dichiarati senza infingimenti.
Quando si hanno grandi responsabilità di gestione e di potere non ci si può sottrarre alla responsabilità nei risultati.
Questo è il punto. Lasciamo perdere la massoneria.
Perciò, caro Bocci, invece di scandalizzarsi e di tentare di suscitare lo scandalo altrui, come se fosse una reazione dovuta e inevitabile, discutiamo criticamente e in modo aperto. Mettetevi in discussione. Potrà soltanto farvi bene.
Molti cordiali saluti,
Giorgio Israel
«Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza» (Dante Alighieri)
venerdì 31 ottobre 2008
Alla sinistra saltano i nervi. Ora rimpiange la Moratti
Mi si dica pure che sono un ingenuo, ma che delusione Anna Finocchiaro… Il suo intervento nel dibattito al Senato ha fatto letteralmente cascare le braccia. L’unico argomento avanzato è stato il preteso silenzio del ministro Gelmini e del governo, l’assenza di motivazioni di merito, se non finanziarie, al decreto sulla scuola. Ma come? Sono mesi che, di fronte all’esposizione delle ragioni del ritorno al maestro prevalente, dei voti in pagella e del voto in condotta, si fanno orecchie da mercante e si ripete la nenia della “scuola migliore del mondo”. E Finocchiaro che fa? Scodella un’altra volta lo slogan accompagnandolo con un rovesciamento di frittata: “voi non parlate”.
La verità è però emersa quando Finocchiaro ha spiegato cosa intenda per dialogo: consultare e ottenere l’assenso di psico-pedagogisti, didatti, associazioni di insegnanti, e soprattutto sindacati. E ha svelato il suo vero cruccio: si è usciti da una continuità di gestione delle questioni scolastiche mai interrotta, “neppure con il ministero Moratti”. Proprio qui sta il punto, e proprio per questo sono importanti i provvedimenti pur molto parziali del ministro Gelmini: hanno rotto un andazzo che faceva del sistema dell’istruzione un comparto di proprietà esclusiva dei sindacati e subordinato all’egemonia culturale della sinistra per il tramite degli attori menzionati dalla Finocchiaro, che ha scoperto l’altarino quando ha rimpianto persino il ministero Moratti. Lo sappiamo benissimo. Infatti, il torto principale del ministro Moratti fu di subire il prepotere dei sindacati e di non mettere in discussione l’uso della scuola come ammortizzatore sociale (forse per evitare tumulti del tipo di quelli attuali, e senza peraltro riuscirvi che in parte); e fu quello di lasciare l’istruzione in mano a una consorteria psico-pedagogico-didattica ereditata dal ministero Berlinguer (e da prima) e che ha proseguito indisturbata la sua opera distruttiva.
Questo sistema ha avuto, ed ha ancora, un potere enorme. Tuttavia, se è bastato che il ministro Gelmini si discostasse un poco dalla prassi dei suoi predecessori per provocare tanti sconquassi, è perché esso attraversa una crisi profonda di prospettive, di idee, di cultura. Lo si è visto nel discorso stesso di Finocchiaro, che si è arrabattata penosamente attorno al Vangelo: in principio era il “logos”, poi viene il “dia-logos”, non potrete sfuggire al “dialogo”… Ma il suo dialogo non ha niente a che fare con il confronto di idee sulle questioni educative – ed è per questo che non viene risposta agli argomenti in difesa del maestro prevalente. È un dialogo tra “poteri”: la gestione della scuola deve restare un fatto di mediazione tra governo, sindacati, associazioni, psico-pedagogisti “progressisti”. La cultura è ridotta a mediazione politica e gestione del consenso. Di qui la schizofrenia tra l’ammissione inevitabile che il sistema dell’istruzione è in crisi e la difesa a oltranza della statu quo da cui dipende l’egemonia che si teme di perdere.
C’è chi lo fa con maggiore abilità, come l’ex-ministro Berlinguer, che tenta di aprire un dialogo con il nuovo corso, ma non può occultare le sue responsabilità nell’aver avviato lo sfascio del sistema, anche perché si ostina a riproporre la ricette che hanno condotto a quello sfascio. Egli vive nell’ossessione del fantasma di Giovanni Gentile. In un articolo su Il Sole 24 Ore ha proclamato che «è giunta l’ora di dare all’Italia il diritto di avere un liceo scientifico degno di questo nome, diritto di cui ci privò Giovanni Gentile cancellando l’istituto in cui avevano studiato Edoardo Volterra e (mi pare) Enrico Fermi». Gli pare male e poteva controllare. Vito Volterra – non suo figlio Edoardo, che non era scienziato bensì giurista – frequentò una scuola tecnica. E se era contrario alla riforma Gentile, la sua proposta di mantenere la vecchia legge Casati era perdente e non trovò il consenso di tanti scienziati che accettarono di buon grado la riforma Gentile: dal matematico Federigo Enriques, che voleva addirittura includere le scienze in una Facoltà filosofica, a Fermi che era Accademico d’Italia.
Siamo di fronte a un ceto intellettuale sull’orlo della crisi di nervi, anzi al di là dell’orlo. Basta guardarsi intorno e se ne vedono i segni dappertutto: negli slogan sgangherati che vengono proposti nelle “lezioni in piazza”; o nel cinismo con cui si giustifica l’abuso di minori che viene compiuto in questi giorni, persino costringendo dei bambini delle elementari a mettere in scena uno spettacolo antigovernativo apprendendo a memoria filastrocche contro la Gelmini e Berlusconi.
Una manifestazione clamorosa di questa crisi di nervi è il non riuscire più a gestire un baluardo della cultura “progressista”, il politicamente corretto. Viene alla mente l’ingiuria contro il ministro Brunetta – “energumeno tascabile” – e soprattutto la leggerezza con cui tanti si sono precipitati a giustificarla “culturalmente”, in quanto reazione alla manomissione che il governo avrebbe fatto della legge sui disabili… Ma una vetta è stata scalata da Umberto Eco. Affermando che George Steiner avrebbe detto in 37 pagine quello che Hannah Arendt ha detto in 450, ha aggiunto: «senza nemmeno dover andare a letto con Heidegger». Quali reazioni avrebbe suscitato una manifestazione tanto incontinente di maschilismo se fosse uscita da una bocca “reazionaria”?
Sono i segni di un ceto intellettuale in sfacelo e la cui crisi di nervi rischia di far attraversare al paese momenti difficili se non si proseguirà con decisione a smantellare il sistema di relazioni e di poteri che ha condotto l’istruzione e la cultura italiana in questo stato pietoso.
(Libero, 30 ottobre 2008)
La verità è però emersa quando Finocchiaro ha spiegato cosa intenda per dialogo: consultare e ottenere l’assenso di psico-pedagogisti, didatti, associazioni di insegnanti, e soprattutto sindacati. E ha svelato il suo vero cruccio: si è usciti da una continuità di gestione delle questioni scolastiche mai interrotta, “neppure con il ministero Moratti”. Proprio qui sta il punto, e proprio per questo sono importanti i provvedimenti pur molto parziali del ministro Gelmini: hanno rotto un andazzo che faceva del sistema dell’istruzione un comparto di proprietà esclusiva dei sindacati e subordinato all’egemonia culturale della sinistra per il tramite degli attori menzionati dalla Finocchiaro, che ha scoperto l’altarino quando ha rimpianto persino il ministero Moratti. Lo sappiamo benissimo. Infatti, il torto principale del ministro Moratti fu di subire il prepotere dei sindacati e di non mettere in discussione l’uso della scuola come ammortizzatore sociale (forse per evitare tumulti del tipo di quelli attuali, e senza peraltro riuscirvi che in parte); e fu quello di lasciare l’istruzione in mano a una consorteria psico-pedagogico-didattica ereditata dal ministero Berlinguer (e da prima) e che ha proseguito indisturbata la sua opera distruttiva.
Questo sistema ha avuto, ed ha ancora, un potere enorme. Tuttavia, se è bastato che il ministro Gelmini si discostasse un poco dalla prassi dei suoi predecessori per provocare tanti sconquassi, è perché esso attraversa una crisi profonda di prospettive, di idee, di cultura. Lo si è visto nel discorso stesso di Finocchiaro, che si è arrabattata penosamente attorno al Vangelo: in principio era il “logos”, poi viene il “dia-logos”, non potrete sfuggire al “dialogo”… Ma il suo dialogo non ha niente a che fare con il confronto di idee sulle questioni educative – ed è per questo che non viene risposta agli argomenti in difesa del maestro prevalente. È un dialogo tra “poteri”: la gestione della scuola deve restare un fatto di mediazione tra governo, sindacati, associazioni, psico-pedagogisti “progressisti”. La cultura è ridotta a mediazione politica e gestione del consenso. Di qui la schizofrenia tra l’ammissione inevitabile che il sistema dell’istruzione è in crisi e la difesa a oltranza della statu quo da cui dipende l’egemonia che si teme di perdere.
C’è chi lo fa con maggiore abilità, come l’ex-ministro Berlinguer, che tenta di aprire un dialogo con il nuovo corso, ma non può occultare le sue responsabilità nell’aver avviato lo sfascio del sistema, anche perché si ostina a riproporre la ricette che hanno condotto a quello sfascio. Egli vive nell’ossessione del fantasma di Giovanni Gentile. In un articolo su Il Sole 24 Ore ha proclamato che «è giunta l’ora di dare all’Italia il diritto di avere un liceo scientifico degno di questo nome, diritto di cui ci privò Giovanni Gentile cancellando l’istituto in cui avevano studiato Edoardo Volterra e (mi pare) Enrico Fermi». Gli pare male e poteva controllare. Vito Volterra – non suo figlio Edoardo, che non era scienziato bensì giurista – frequentò una scuola tecnica. E se era contrario alla riforma Gentile, la sua proposta di mantenere la vecchia legge Casati era perdente e non trovò il consenso di tanti scienziati che accettarono di buon grado la riforma Gentile: dal matematico Federigo Enriques, che voleva addirittura includere le scienze in una Facoltà filosofica, a Fermi che era Accademico d’Italia.
Siamo di fronte a un ceto intellettuale sull’orlo della crisi di nervi, anzi al di là dell’orlo. Basta guardarsi intorno e se ne vedono i segni dappertutto: negli slogan sgangherati che vengono proposti nelle “lezioni in piazza”; o nel cinismo con cui si giustifica l’abuso di minori che viene compiuto in questi giorni, persino costringendo dei bambini delle elementari a mettere in scena uno spettacolo antigovernativo apprendendo a memoria filastrocche contro la Gelmini e Berlusconi.
Una manifestazione clamorosa di questa crisi di nervi è il non riuscire più a gestire un baluardo della cultura “progressista”, il politicamente corretto. Viene alla mente l’ingiuria contro il ministro Brunetta – “energumeno tascabile” – e soprattutto la leggerezza con cui tanti si sono precipitati a giustificarla “culturalmente”, in quanto reazione alla manomissione che il governo avrebbe fatto della legge sui disabili… Ma una vetta è stata scalata da Umberto Eco. Affermando che George Steiner avrebbe detto in 37 pagine quello che Hannah Arendt ha detto in 450, ha aggiunto: «senza nemmeno dover andare a letto con Heidegger». Quali reazioni avrebbe suscitato una manifestazione tanto incontinente di maschilismo se fosse uscita da una bocca “reazionaria”?
Sono i segni di un ceto intellettuale in sfacelo e la cui crisi di nervi rischia di far attraversare al paese momenti difficili se non si proseguirà con decisione a smantellare il sistema di relazioni e di poteri che ha condotto l’istruzione e la cultura italiana in questo stato pietoso.
(Libero, 30 ottobre 2008)
giovedì 30 ottobre 2008
La società? un grande campo rieducativo
Sono due soli i paesi europei che sono schierati con l’Italia sulla linea dell’integrazione totale dei disabili nelle classi scolastiche: Spagna e Portogallo. Gli altri adottano sistemi misti con scuole e classi speciali. Poiché è irragionevole pensare che la stragrande maggioranza degli stati europei siano incivili, converrebbe riflettere pacatamente, senza pregiudizi e anatemi. So di un’associazione spagnola di genitori di bambini down in cui si discute molto dell’inclusione e le opinioni non sono affatto univoche: molti pensano che l’inclusione dipenda dalle caratteristiche del soggetto e, in certi casi, ritengono più vantaggiosa una collocazione in classi separate. Ripeto: bisognerebbe avere l’equilibrio per discuterne, come si suol dire, “laicamente”. Noi invece siamo impantanati nell’ideologia più radicale, per cui non mi attendo altro che una scarica di anatemi sulla rubrica di questa settimana.
Sono rimasto attonito leggendo l’osservazione di due pedagogisti che si sono dimessi dall’Osservatorio ministeriale sull’integrazione per protestare contro la carenza di fondi per il sostegno: «Nella scuola italiana ci sono ormai 600mila bimbi migranti che, sommati ai disabili fanno quasi 800mila bambini». Quindi “migrante” e “disabile” apparterrebbero alla medesima categoria. Trovo conferma di questo approccio nelle osservazioni con cui Clara Sereni commenta la sua difficile esperienza personale di madre di un disabile: «Nel clima attuale la diversità fa paura: migranti, zingari, matti… E io, che in quanto a essere “altro” sono pure ebrea, osservo con preoccupazione questa perdita di memoria storica». Quindi, a disabili e migranti vanno sommati zingari, matti, ebrei e, come si può immaginare, molte altre categorie. Questo esercito di “diversi” assume dimensioni quantitative imponenti, quasi maggioritarie nella scuola, il che spiega perfettamente perché la preparazione delle maestre nelle Facoltà di scienze della formazione consista ormai quasi esclusivamente di materie psico-pedagogiche-relazionali e di pedagogia speciale (quella che si occupa appunto dei “diversamente” abili). Le materie disciplinari sono ridotte ai minimi termini, fino a casi estremi in cui sono rese opzionali con pediatria o neuropsichiatria infantile.
È una scuola elementare ridotta a un immenso deposito di “diversità”, in cui il maestro è tendenzialmente una sorta di infermiere delle varie situazioni di “alterità” che compongono l’umanità. Emerge la visione di una società incapace di guardare in faccia la sofferenza e la malattia e di curarla con il senso della realtà che è l’unico modo in cui può esprimersi l’autentica solidarietà. È una società che all’abbandono, all’isolamento del malato perché non si veda l’“orrore” della malattia, trova come unica alternativa l’idea ipocrita e politicamente corretta che siamo tutti malati, tutti “altri” e tutti “diversi” (da chi?), tutti “diversamente abili”. Anche essere ebreo o immigrato (migranti sono gli uccelli) diventa una disabilità.
Inutile dire che i fautori di questa cupa visione hanno come riferimento costante don Milani e l’idea che il sostegno non vada dato al singolo ma al collettivo. E non stupisce che vadano a ripescare persino Makarenko, quel pedagogista sovietico che predicava anch’egli l’educazione del collettivo contro ogni approccio rivolto alla persona. La discussione sull’inclusione è aperta, ma questa visione è agghiacciante. E poi dicono che abbiamo la migliore scuola elementare del mondo: in un’ottica collettivista della società vista come un immenso campo rieducativo, forse sì.
(Tempi, 30 ottobre 2008)
Sono rimasto attonito leggendo l’osservazione di due pedagogisti che si sono dimessi dall’Osservatorio ministeriale sull’integrazione per protestare contro la carenza di fondi per il sostegno: «Nella scuola italiana ci sono ormai 600mila bimbi migranti che, sommati ai disabili fanno quasi 800mila bambini». Quindi “migrante” e “disabile” apparterrebbero alla medesima categoria. Trovo conferma di questo approccio nelle osservazioni con cui Clara Sereni commenta la sua difficile esperienza personale di madre di un disabile: «Nel clima attuale la diversità fa paura: migranti, zingari, matti… E io, che in quanto a essere “altro” sono pure ebrea, osservo con preoccupazione questa perdita di memoria storica». Quindi, a disabili e migranti vanno sommati zingari, matti, ebrei e, come si può immaginare, molte altre categorie. Questo esercito di “diversi” assume dimensioni quantitative imponenti, quasi maggioritarie nella scuola, il che spiega perfettamente perché la preparazione delle maestre nelle Facoltà di scienze della formazione consista ormai quasi esclusivamente di materie psico-pedagogiche-relazionali e di pedagogia speciale (quella che si occupa appunto dei “diversamente” abili). Le materie disciplinari sono ridotte ai minimi termini, fino a casi estremi in cui sono rese opzionali con pediatria o neuropsichiatria infantile.
È una scuola elementare ridotta a un immenso deposito di “diversità”, in cui il maestro è tendenzialmente una sorta di infermiere delle varie situazioni di “alterità” che compongono l’umanità. Emerge la visione di una società incapace di guardare in faccia la sofferenza e la malattia e di curarla con il senso della realtà che è l’unico modo in cui può esprimersi l’autentica solidarietà. È una società che all’abbandono, all’isolamento del malato perché non si veda l’“orrore” della malattia, trova come unica alternativa l’idea ipocrita e politicamente corretta che siamo tutti malati, tutti “altri” e tutti “diversi” (da chi?), tutti “diversamente abili”. Anche essere ebreo o immigrato (migranti sono gli uccelli) diventa una disabilità.
Inutile dire che i fautori di questa cupa visione hanno come riferimento costante don Milani e l’idea che il sostegno non vada dato al singolo ma al collettivo. E non stupisce che vadano a ripescare persino Makarenko, quel pedagogista sovietico che predicava anch’egli l’educazione del collettivo contro ogni approccio rivolto alla persona. La discussione sull’inclusione è aperta, ma questa visione è agghiacciante. E poi dicono che abbiamo la migliore scuola elementare del mondo: in un’ottica collettivista della società vista come un immenso campo rieducativo, forse sì.
(Tempi, 30 ottobre 2008)
sabato 25 ottobre 2008
La tragicomica guerra alla conoscenza dei Khmer rossi del pedagogismo
Che dire di una persona che parla della necessità di una “lotta militante” di una decina d’anni per imporre ai recalcitranti un programma di riforma dell’istruzione? Che dirne sapendo che non si tratta di un intellettuale o di un politico, bensì di un funzionario, l’ispettore generale dell’amministrazione francese dell’educazione nazionale e della ricerca Roger-François Gauthier, consulente dell’Unesco? A me pare che un simile linguaggio illustri la tesi del matematico francese Laurent Lafforgue: mettere nelle mani di queste persone il sistema dell’istruzione è come affidare la democrazia alle cure dei Khmer rossi. Le tesi del signor Gauthier sono ispirate alla solita miscela ideologica: una dose di scientismo – la ricerca ossessiva di principi oggettivi su cui rifondare una scuola e ottenere risultati prevedibili e uguali per tutti –, una dose di utopia rivoluzionaria – l’insegnamento fino ad ora è stato tutto sbagliato, rifacciamolo dalle basi –, una dose di tecnocrazia – dell’istruzione non debbono più occuparsi gli insegnanti, bensì legislatori ed “esperti scolastici”. L’aspetto tragicomico di questa faccenda – che accomuna questi apprendisti stregoni ai “maghi” che hanno creduto di governare la finanza con le equazioni differenziali e agli ingegneri genetici che vogliono rifare l’umanità mal creata – è che non provano alcun senso del ridicolo vantando le miserie che hanno realizzato nel loro trentennale predominio sull’istruzione a fronte di quella che deridono come l’“età dell’oro” delle conoscenze. È comico perché il confronto è impietoso. È tragico perché questi poveracci sono riusciti, con un abile miscela di appoggi politico-sindacali e di presenze istituzionali, a insediarsi in posizioni di potere determinanti per condurre la loro “lotta militante”.
Cosa vogliono in definitiva? Fondare l’istruzione sullo “zoccolo” comune delle competenze, mandare in soffitta l’istruzione basata sulle conoscenze e sulle discipline – trincea delle “lobbies professorali” – e sostituirla con la centralità delle competenze intese come “reinvestimento dei saperi e del loro significato nel mondo”. Insomma, sono quelli che ti predicano – come raccontava di recente una maestra uscita traumatizzata da un corso di aggiornamento – che occorre chiedersi a cosa serva il teorema di Pitagora prima di insegnarlo e che, se non si scopre il suo significato per il mondo, tanto vale lasciarlo perdere, perché le conoscenze non servono nella vita, non aiutano nel lavoro, non risolvono i problemi sociali e personali.
Noi – detti dai Khmer rossi “laudatores temporis acti” e che vogliamo soltanto un’istruzione che si adegui ai tempi senza disperdere le conoscenze acquisite – sappiamo da un pezzo che conoscere una teoria senza saperla applicare è frutto di cattivo insegnamento; e, viceversa, che manipolare meccanicamente senza conoscere i fondamenti teorici della manipolazione è come il procedere di un cieco che sa muoversi soltanto nel metro quadrato che lo circonda e che, appena si sposta più in là, cade per terra. Ma questo precetto, da sempre seguito dai buoni insegnanti e trascurato da quelli cattivi, non basta ai Khmer rossi. Difatti, il loro intento non è di riformare in modo ragionevole la scuola, bensì di demolire il sistema delle conoscenze e delle discipline per sostituirlo con la metodologia: non più apprendere, bensì soltanto apprendere come si apprende. Il tutto a cura di una corporazione di tecnocrati e di “esperti” della pedagogia e della didattica.
Falliranno, come si vede dai risultati. Ma riusciranno comunque a lasciarci di fronte a una montagna di rovine.
(Tempi, 23 ottobre 2008)
Cosa vogliono in definitiva? Fondare l’istruzione sullo “zoccolo” comune delle competenze, mandare in soffitta l’istruzione basata sulle conoscenze e sulle discipline – trincea delle “lobbies professorali” – e sostituirla con la centralità delle competenze intese come “reinvestimento dei saperi e del loro significato nel mondo”. Insomma, sono quelli che ti predicano – come raccontava di recente una maestra uscita traumatizzata da un corso di aggiornamento – che occorre chiedersi a cosa serva il teorema di Pitagora prima di insegnarlo e che, se non si scopre il suo significato per il mondo, tanto vale lasciarlo perdere, perché le conoscenze non servono nella vita, non aiutano nel lavoro, non risolvono i problemi sociali e personali.
Noi – detti dai Khmer rossi “laudatores temporis acti” e che vogliamo soltanto un’istruzione che si adegui ai tempi senza disperdere le conoscenze acquisite – sappiamo da un pezzo che conoscere una teoria senza saperla applicare è frutto di cattivo insegnamento; e, viceversa, che manipolare meccanicamente senza conoscere i fondamenti teorici della manipolazione è come il procedere di un cieco che sa muoversi soltanto nel metro quadrato che lo circonda e che, appena si sposta più in là, cade per terra. Ma questo precetto, da sempre seguito dai buoni insegnanti e trascurato da quelli cattivi, non basta ai Khmer rossi. Difatti, il loro intento non è di riformare in modo ragionevole la scuola, bensì di demolire il sistema delle conoscenze e delle discipline per sostituirlo con la metodologia: non più apprendere, bensì soltanto apprendere come si apprende. Il tutto a cura di una corporazione di tecnocrati e di “esperti” della pedagogia e della didattica.
Falliranno, come si vede dai risultati. Ma riusciranno comunque a lasciarci di fronte a una montagna di rovine.
(Tempi, 23 ottobre 2008)
mercoledì 22 ottobre 2008
Quando la scienza si allontana da se stessa
«Vediam bene che “la Scienza per la Scienza” è formula vuota di contenuto sociale. E d’altra parte che il sapere può porgere alla volontà soltanto i mezzi dell’operare non i fini; che è assurdo cercare nella Scienza le norme della vita. Ma riteniamo che la volontà scientifica, all’infuori dello scopo utilitario, ponga essa stessa una norma significativa, quando riconosce, ed afferma il vero come indipendente dal timore o dal desiderio e promuove così lo sviluppo pieno della persona umana, la coscienza, oltreché la potenza, di un volere capace di riguardare al di là dei fini transitorii del presente, verso un più alto progresso futuro».
Così scriveva un secolo fa il matematico italiano Federigo Enriques nel suo più celebre libro “I problemi della scienza”, declinando nel suo linguaggio di scienziato alcuni dei temi al centro del discorso di Benedetto XVI che ha suscitato polemiche in questi giorni. Dire che «è assurdo cercare nella scienza le norme della vita» è solo un modo più forte di dire che «la scienza non è in grado di elaborare principi etici». Non è nella scienza che possiamo trovare il senso del mondo e dell’esistenza. Ma c’è un punto in cui la scienza tocca la sfera normativa ed è quando, ponendosi «all’infuori dello scopo utilitario» si da come obbiettivo primario la conquista della verità, e in tal modo promuove lo sviluppo della coscienza e un progresso che trascende i «fini transitorii del presente». È una dichiarazione forte contro il relativismo. Non contro quel che taluno chiama “relativismo”, ovvero l’inevitabile provvisorietà delle acquisizioni nel processo della conoscenza, che non possono ovviamente mai attingere una verità definitiva; bensì il relativismo assoluto che predica radicalmente l’inesistenza della verità – e quindi anche di un termine verso cui la scienza si proponga di tendere – e la perfetta equivalenza di tutti gli asserti, nella loro assenza di senso e nella loro totale caducità.
Certo, le cose sono cambiate da quando la scienza come attività conoscitiva ha progressivamente perduto il suo primato nei confronti degli «scopi utilitari», quando le sue “applicazioni” hanno iniziato a rendersi quasi autonome, e la tecnologia (la tecnica moderna che si basa sulla scienza e ne condivide il metodo) ha lasciato il posto a quell’ibrido detto “tecnoscienza”, in cui la conoscenza è talora persino di ostacolo allo sviluppo delle attività pratiche e delle realizzazioni industriali. Da quando si è profilato questo stato di cose sono iniziate le riflessioni e le polemiche sul difficile rapporto tra conoscenza e potenza pratica, sui rischi dell’asservimento della ricerca speculativa ai «fini transitorii del presente». È ben noto il travaglio del mondo scientifico attorno al problema del rapporto con la sfera militare, che non riguardava soltanto la dimensione etica (il dibattito sulla bomba atomica) ma anche le implicazioni dell’uso militare della scienza sulle decisioni politiche e sulla vita democratica di un paese. Del resto, l’osservazione più distratta mostra come gran parte degli oggetti tecnologici che ci circondano siano derivati della tecnoscienza militare. D’altra parte, la straordinaria quantità di beni di cui sono invase le nostre società è frutto di uno sviluppo incredibilmente veloce della produzione industriale di cui la scienza e la tecnologia sono il fattore fondamentale. Un simile sviluppo porta con sé ricchezza e l’inevitabile tentazione del guadagno e dell’interesse materiale. È ridicolo che si sia polemizzato contro il richiamo del Papa interpretandolo come un’offesa ai ricercatori universitari che guadagnano poco. Non di questo ovviamente si tratta. Sono tante le voci nel mondo scientifico (e non) che si sono levate per denunziare gli enormi interessi che gravitano attorno all’ingegneria genetica e al traffico dei brevetti: si tratta di somme vertiginose che hanno fatto della biologia la nuova “big science” al posto della fisica e che possono corrompere la «volontà scientifica» che pone al di sopra di tutto il fine della conoscenza disinteressata e accantonare la questione del valore morale della scelta dei fini verso cui indirizzare la ricerca. È di pochi mesi fa un’aspra polemica scoppiata negli ambienti scientifici statunitensi a proposito di venti anni di sperperi (al ritmo di 500 milioni di dollari annui) nella ricerca di un vaccino contro l’Aids priva di seri fondamenti teorici. Vanno ricordate le polemiche – sempre sviluppatesi in ambito scientifico – circa gli autentici moventi delle ricerche sugli Ogm (Organismi geneticamente modificati) che costituirebbero, secondo alcuni, un enorme affare economico che non porta vantaggi alle popolazioni affamate del Terzo mondo.
Si potrebbe continuare con gli esempi. Si tratta di questioni note e di cui è lecito dibattere senza preconcetti, partendo dall’assunto che il problema esiste e che il rischio di una corruzione del carattere disinteressatamente speculativo della ricerca è concreto. Pare tuttavia che sia lecito parlarne soltanto da parte di chi ha una militanza scientifica ateistica e antireligiosa. Chi appartiene a questi ambienti può permettersi di accusare ridicolmente uno dei più grandi protagonisti della scienza applicata del nostro tempo, John von Neumann, del reato di “prostituzione della scienza”. Se un religioso si limita a sottolineare il rischio di un prevalere degli interessi materiali su quelli della conoscenza disinteressata si tratta di un nemico della scienza.
Siamo così di fronte alla più evidente conferma che è in atto da parte di taluni uno sforzo accanito per erigere un muro tra scienza e religione, nell’intento di negare a quest’ultima qualsiasi funzione nelle scelte umane e sociali. Alla scienza soltanto viene riservato il diritto di giudicare e giudicarsi e di dettare norme peraltro di carattere assolutamente relativo. Rileggendo il brano di Enriques con cui abbiamo iniziato questo articolo è facile misurare quanto “questa” scienza si sia allontanata da sé stessa.
(L'Osservatore Romano, 19 ottobre 2008)
Così scriveva un secolo fa il matematico italiano Federigo Enriques nel suo più celebre libro “I problemi della scienza”, declinando nel suo linguaggio di scienziato alcuni dei temi al centro del discorso di Benedetto XVI che ha suscitato polemiche in questi giorni. Dire che «è assurdo cercare nella scienza le norme della vita» è solo un modo più forte di dire che «la scienza non è in grado di elaborare principi etici». Non è nella scienza che possiamo trovare il senso del mondo e dell’esistenza. Ma c’è un punto in cui la scienza tocca la sfera normativa ed è quando, ponendosi «all’infuori dello scopo utilitario» si da come obbiettivo primario la conquista della verità, e in tal modo promuove lo sviluppo della coscienza e un progresso che trascende i «fini transitorii del presente». È una dichiarazione forte contro il relativismo. Non contro quel che taluno chiama “relativismo”, ovvero l’inevitabile provvisorietà delle acquisizioni nel processo della conoscenza, che non possono ovviamente mai attingere una verità definitiva; bensì il relativismo assoluto che predica radicalmente l’inesistenza della verità – e quindi anche di un termine verso cui la scienza si proponga di tendere – e la perfetta equivalenza di tutti gli asserti, nella loro assenza di senso e nella loro totale caducità.
Certo, le cose sono cambiate da quando la scienza come attività conoscitiva ha progressivamente perduto il suo primato nei confronti degli «scopi utilitari», quando le sue “applicazioni” hanno iniziato a rendersi quasi autonome, e la tecnologia (la tecnica moderna che si basa sulla scienza e ne condivide il metodo) ha lasciato il posto a quell’ibrido detto “tecnoscienza”, in cui la conoscenza è talora persino di ostacolo allo sviluppo delle attività pratiche e delle realizzazioni industriali. Da quando si è profilato questo stato di cose sono iniziate le riflessioni e le polemiche sul difficile rapporto tra conoscenza e potenza pratica, sui rischi dell’asservimento della ricerca speculativa ai «fini transitorii del presente». È ben noto il travaglio del mondo scientifico attorno al problema del rapporto con la sfera militare, che non riguardava soltanto la dimensione etica (il dibattito sulla bomba atomica) ma anche le implicazioni dell’uso militare della scienza sulle decisioni politiche e sulla vita democratica di un paese. Del resto, l’osservazione più distratta mostra come gran parte degli oggetti tecnologici che ci circondano siano derivati della tecnoscienza militare. D’altra parte, la straordinaria quantità di beni di cui sono invase le nostre società è frutto di uno sviluppo incredibilmente veloce della produzione industriale di cui la scienza e la tecnologia sono il fattore fondamentale. Un simile sviluppo porta con sé ricchezza e l’inevitabile tentazione del guadagno e dell’interesse materiale. È ridicolo che si sia polemizzato contro il richiamo del Papa interpretandolo come un’offesa ai ricercatori universitari che guadagnano poco. Non di questo ovviamente si tratta. Sono tante le voci nel mondo scientifico (e non) che si sono levate per denunziare gli enormi interessi che gravitano attorno all’ingegneria genetica e al traffico dei brevetti: si tratta di somme vertiginose che hanno fatto della biologia la nuova “big science” al posto della fisica e che possono corrompere la «volontà scientifica» che pone al di sopra di tutto il fine della conoscenza disinteressata e accantonare la questione del valore morale della scelta dei fini verso cui indirizzare la ricerca. È di pochi mesi fa un’aspra polemica scoppiata negli ambienti scientifici statunitensi a proposito di venti anni di sperperi (al ritmo di 500 milioni di dollari annui) nella ricerca di un vaccino contro l’Aids priva di seri fondamenti teorici. Vanno ricordate le polemiche – sempre sviluppatesi in ambito scientifico – circa gli autentici moventi delle ricerche sugli Ogm (Organismi geneticamente modificati) che costituirebbero, secondo alcuni, un enorme affare economico che non porta vantaggi alle popolazioni affamate del Terzo mondo.
Si potrebbe continuare con gli esempi. Si tratta di questioni note e di cui è lecito dibattere senza preconcetti, partendo dall’assunto che il problema esiste e che il rischio di una corruzione del carattere disinteressatamente speculativo della ricerca è concreto. Pare tuttavia che sia lecito parlarne soltanto da parte di chi ha una militanza scientifica ateistica e antireligiosa. Chi appartiene a questi ambienti può permettersi di accusare ridicolmente uno dei più grandi protagonisti della scienza applicata del nostro tempo, John von Neumann, del reato di “prostituzione della scienza”. Se un religioso si limita a sottolineare il rischio di un prevalere degli interessi materiali su quelli della conoscenza disinteressata si tratta di un nemico della scienza.
Siamo così di fronte alla più evidente conferma che è in atto da parte di taluni uno sforzo accanito per erigere un muro tra scienza e religione, nell’intento di negare a quest’ultima qualsiasi funzione nelle scelte umane e sociali. Alla scienza soltanto viene riservato il diritto di giudicare e giudicarsi e di dettare norme peraltro di carattere assolutamente relativo. Rileggendo il brano di Enriques con cui abbiamo iniziato questo articolo è facile misurare quanto “questa” scienza si sia allontanata da sé stessa.
(L'Osservatore Romano, 19 ottobre 2008)
Strumentalizzazioni
Un episodio accaduto nel contesto della manifestazione del 17 ottobre contro i provvedimenti scolastici del governo merita un commento speciale. Il giorno precedente la manifestazione sono comparsi sui muri di Roma manifesti di gruppi di estrema destra inneggianti al licenziamento degli insegnanti usando il bieco termine di “derattizzazione”. È superfluo dire cosa possa pensare qualsiasi persona civile di un simile truculento linguaggio. I “docenti in lotta” del Liceo Mamiani di Roma, dopo aver rilevato che il termine “derattizzazione” era lo stesso usato settant’anni fa da nazisti e fascisti contro gli ebrei, esibendo un uso della logica indegno di un insegnante, hanno connesso questo episodio con le dichiarazioni del Ministro Brunetta, deducendone che «è in corso contro i professori della scuola statale un’autentica campagna diffamatoria, studiata a tavolino con arte, sullo stile di regimi che speravamo già sufficientemente sconfitti dalla Storia. Ci aspettiamo – hanno proseguito – che la prossima mossa dei nostri alti e biondi persecutori sia affiggere immagini con le caratteristiche somatiche della “perfida razza docente”, come fecero in passato i loro nonni nei riguardi di altre minoranze indifese». Per questo hanno deciso di sfilare nel corteo con la stella gialla «che settant’anni fa contraddistinse milioni di deportati, a memoria delle vittime della cieca violenza di tutti i regimi, e come monito per chi usa ancora oggi la denigrazione e la violenza per realizzare i propri scopi».
Qui non si tratta soltanto dell’oltraggio alla logica consistente nel dedurre da una scritta oscena ragioni per accusare il governo di nazifascismo e di apprestarsi a un genocidio dei docenti italiani, ma dell’ormai insopportabile, indecente strumentalizzazione della memoria della Shoah, usata per denunciare qualsiasi cosa dia fastidio. È ormai da attendersi che persino per protestare contro i disservizi nei trasporti o nella raccolta dei rifiuti si sfilerà con la stella gialla.
Mi sento personalmente offeso e ferito come ebreo da un simile abuso della memoria. Vorrei tanto che la gran parte della mia famiglia invece di essere stata deportata, gassata e bruciata nei forni crematori avesse dovuto subire i provvedimenti del Ministro Gelmini. E mi guardo sia pure lontanamente dall’augurare che i docenti del Mamiani sperimentino la differenza. Al contrario, auguro loro di vivere a lungo felici, con i loro figli, nipoti e pronipoti e di non avere a spiegare loro perché abbiano così pochi parenti rispetto ad altre famiglie e le cause di ciò.
Tuttavia, se il rispetto nei loro confronti come persone non viene meno di un grammo, lo stesso non può dirsi del rispetto nei loro confronti come educatori e come insegnanti. Non auguro a me stesso e a nessuno di avere come professori dei propri figli persone che hanno un simile senso della storia e della morale. Se essi conservano un minimo di spirito critico, dovrebbero chiedere scusa per l’oltraggio che hanno commesso e quindi chiudersi in un riflessione silenziosa. Dovrebbero anche chiedersi se quel che hanno messo in scena non possa essere usato da taluno come pretesto per “dimostrare” in quale condizione deplorevole si sia ridotta la scuola italiana. Ma noi non cadremo in questo tipo di deduzioni – le stesse messe da loro in opera – perché sappiamo che la stragrande maggioranza degli insegnanti italiani sono di ben altra stoffa intellettuale e morale.
Da ultimo vorrei dire che un episodio come questo stimola a riproporre alla dirigenza dell’Unione delle Comunità Ebraiche di assumere decisioni opportune per le prossime manifestazioni della Giornata della Memoria nel gennaio 2009. Senza giungere al punto di astenersi dalla partecipazione alla Giornata per lanciare un segnale forte, quantomeno chiedere a tutte le istituzioni che promuoveranno iniziative in quella giornata, di dedicarle alla denuncia di questa degenerazione: il motto dell’“unicità della Shoah” si sta tramutando nella banalizzazione e nell’abuso più volgare della memoria della Shoah.
(Libero, 21 ottobre 2008)
Qui non si tratta soltanto dell’oltraggio alla logica consistente nel dedurre da una scritta oscena ragioni per accusare il governo di nazifascismo e di apprestarsi a un genocidio dei docenti italiani, ma dell’ormai insopportabile, indecente strumentalizzazione della memoria della Shoah, usata per denunciare qualsiasi cosa dia fastidio. È ormai da attendersi che persino per protestare contro i disservizi nei trasporti o nella raccolta dei rifiuti si sfilerà con la stella gialla.
Mi sento personalmente offeso e ferito come ebreo da un simile abuso della memoria. Vorrei tanto che la gran parte della mia famiglia invece di essere stata deportata, gassata e bruciata nei forni crematori avesse dovuto subire i provvedimenti del Ministro Gelmini. E mi guardo sia pure lontanamente dall’augurare che i docenti del Mamiani sperimentino la differenza. Al contrario, auguro loro di vivere a lungo felici, con i loro figli, nipoti e pronipoti e di non avere a spiegare loro perché abbiano così pochi parenti rispetto ad altre famiglie e le cause di ciò.
Tuttavia, se il rispetto nei loro confronti come persone non viene meno di un grammo, lo stesso non può dirsi del rispetto nei loro confronti come educatori e come insegnanti. Non auguro a me stesso e a nessuno di avere come professori dei propri figli persone che hanno un simile senso della storia e della morale. Se essi conservano un minimo di spirito critico, dovrebbero chiedere scusa per l’oltraggio che hanno commesso e quindi chiudersi in un riflessione silenziosa. Dovrebbero anche chiedersi se quel che hanno messo in scena non possa essere usato da taluno come pretesto per “dimostrare” in quale condizione deplorevole si sia ridotta la scuola italiana. Ma noi non cadremo in questo tipo di deduzioni – le stesse messe da loro in opera – perché sappiamo che la stragrande maggioranza degli insegnanti italiani sono di ben altra stoffa intellettuale e morale.
Da ultimo vorrei dire che un episodio come questo stimola a riproporre alla dirigenza dell’Unione delle Comunità Ebraiche di assumere decisioni opportune per le prossime manifestazioni della Giornata della Memoria nel gennaio 2009. Senza giungere al punto di astenersi dalla partecipazione alla Giornata per lanciare un segnale forte, quantomeno chiedere a tutte le istituzioni che promuoveranno iniziative in quella giornata, di dedicarle alla denuncia di questa degenerazione: il motto dell’“unicità della Shoah” si sta tramutando nella banalizzazione e nell’abuso più volgare della memoria della Shoah.
(Libero, 21 ottobre 2008)
lunedì 20 ottobre 2008
A proposito dell'insegnamento del latino
«From Plato to Nato». Da Platone alla Nato. Come ricordava un collega americano, questo era uno slogan con cui gli intellettuali radicali degli anni sessanta indicavano nell’esaltazione della cultura occidentale le radici dei “misfatti” dell’imperialismo. Lo studio dei classici della cultura occidentale è stato una vittima dei movimenti radicali statunitensi che l’identificò come un fattore criminogeno corresponsabile della guerra del Vietnam. C’è chi ha cavalcato sapientemente questa demagogia per fare a pezzi i centri di studio filologico della tradizione umanistica occidentale. Basta leggere l’ultimo libro dell’intellettuale palestinese-statunitense Edward Said, Umanesimo e democrazia (2004). Said descrive cosa fu per un secolo la leggendaria Columbia University, dove si studiavano i grandi testi dell’umanesimo occidentale, da Omero a Sant’Agostino e Dante. Egli ironizza sulla «grande esperienza» della lettura della Divina Commedia, «simile alle nostalgie dei vecchi campeggiatori estivi per i tempi in cui scalavano il monte Washington» e racconta le sue battaglie per imporre una visione dell’umanesimo che accantonasse il riferimento primario alle radici occidentali. Del resto, in stile “From Plato to Nato”, Said affermava che la CIA, in quanto aveva sostenuto la necessità della lotta contro il totalitarismo in nome della democrazia occidentale, aveva contribuito a diffondere quella visione dell’umanesimo e aveva favorito «il consenso nei confronti dell’erudizione». Era giunto il momento di ridurre l’importanza attribuita al mondo greco e latino e di dire che il ruolo degli ebrei nella Bibbia era stato marginale. Va detto che Said è riuscito nei suoi intenti, se si pensa a quel che è oggi la Columbia University, centrale del multiculturalismo terzomondista e dell’odio di sé dell’Occidente.
Quanto precede per sottolineare che siamo di fronte a una svolta importante – qualcuno dirà, finanziata dalla CIA… – se lo studio del latino, e persino del greco, sta esplodendo negli USA e si sviluppa un nuovo interesse per la cultura dei padri europei, per la “nostra” cultura. Non si tratta di un interesse linguistico astratto – cosa se ne farebbero tanti giovani di una lingua morta? – quanto della riscoperta dei fondamenti culturali su cui è nata la società americana. Se una società è viva non può astenersi a lungo da un simile interesse, senza che questo implichi disprezzo o disinteresse per le culture degli “altri”. Inoltre, il latino e il greco ci riavvicinano anche alla cultura scientifica non soltanto perché i grandi testi classici sono scritti in quelle lingue, ma perché il latino è stato la lingua della scienza occidentale fino al Settecento e chi sfogli i dialoghi di Galileo troverà che le dimostrazioni sono scritte in questa lingua “morta”.
Ho voluto sottolineare questo aspetto perché esso è almeno altrettanto importante di quello di cui più si parla, e cioè della grande funzione educativa che ha il latino (e il greco) come palestra mentale, per l’esercizio delle funzioni logiche, per la consuetudine a manipolare le strutture sintattiche e grammaticali che, a sua volta, stimola anche la capacità di studiare le materie scientifiche e, in particolare, la matematica. Tutti ricordano i celebri brani di Gramsci dedicati alla funzione educativa del metodo analitico usato nello studio del latino. Si ricordano meno alcuni passaggi che farebbero rizzare i capelli in testa ai più accaniti postcomunisti antioccidentali, in cui Gramsci sottolineava l’importanza del latino e del greco per “essere se stessi”: «Non si imparava il latino e il greco per parlarli… Si imparava per conoscere direttamente la civiltà dei due popoli, presupposto necessario della civiltà moderna, cioè per essere se stessi e conoscere se stessi consapevolmente». E denunciava come degenerazione della scuola il prevalere di un approccio professionale e pratico su quello formativo e «immediatamente disinteressato»: «L’aspetto più paradossale è che questo nuovo tipo di scuola appare e viene predicata come democratica, mentre invece essa non solo è destinata a perpetuare le differenze sociali, ma a cristallizzarle in forme cinesi». Sono frasi che andrebbero rilette ogni mattina dai fautori della scuola delle “competenze” contro quella delle “conoscenze”, intesa come conquista della modernità e che invece conduce allo sfacelo, poiché anche la scienza, se viene privata della sua linfa teorica, è destinata alla decadenza. Ritengo che Gramsci non capisse gran che di scienza, ma la sua immagine della scuola basata su un approccio culturale disinteressato era molto più moderna di quella di chi pensa che la scienza debba essere “ricostruita” dagli studenti pasticciando nei laboratori scolastici senza basi conoscitive.
È da augurarsi che quanto accade negli USA sia tenuto in conto da chi sta sconsideratamente meditando di tagliare lo studio del latino e addittura di abolirlo dai licei scientifici. È un atteggiamento tanto più sorprendente in chi crede nell’importanza di valorizzare le radici della cultura occidentale.
Il nostro paese ha il vizio di adottare certe innovazioni in ritardo e quando si è dimostrato che non funzionano. Si vuol mettere un computer per classe mentre negli USA li tolgono in quanto dannosi. Insistiamo sulla pedagogia dell’autoformazione mentre nello stato americano di punta sul piano scolastico – il Massachusetts – la stanno sbaraccando. Ora si vuol togliere di mezzo il latino, mentre oltre oceano torna di moda. Di recente qualcuno ha motivato tale scelta dicendo che “agli studenti il latino non piace”. Con un simile ragionamento occorrerebbe abolire anche la matematica, e forse alla fine resterebbe soltanto la ginnastica… È da augurarsi che la vigilanza di chi ha a cuore la cultura e la scienza come fondamento umanistico di una società degna di questo nome, blocchi certi propositi sconsiderati forse ispirati dalle alchimie fasulle della tecnocrazia comunitaria.
(Libero, 18 ottobre 2008)
Dedicato in particolare a chi mi ha scritto polemicamente, dicendo che approvavo i tentativi tesi ad abolire l'insegnamento del latino nei licei scientifici.
Quanto precede per sottolineare che siamo di fronte a una svolta importante – qualcuno dirà, finanziata dalla CIA… – se lo studio del latino, e persino del greco, sta esplodendo negli USA e si sviluppa un nuovo interesse per la cultura dei padri europei, per la “nostra” cultura. Non si tratta di un interesse linguistico astratto – cosa se ne farebbero tanti giovani di una lingua morta? – quanto della riscoperta dei fondamenti culturali su cui è nata la società americana. Se una società è viva non può astenersi a lungo da un simile interesse, senza che questo implichi disprezzo o disinteresse per le culture degli “altri”. Inoltre, il latino e il greco ci riavvicinano anche alla cultura scientifica non soltanto perché i grandi testi classici sono scritti in quelle lingue, ma perché il latino è stato la lingua della scienza occidentale fino al Settecento e chi sfogli i dialoghi di Galileo troverà che le dimostrazioni sono scritte in questa lingua “morta”.
Ho voluto sottolineare questo aspetto perché esso è almeno altrettanto importante di quello di cui più si parla, e cioè della grande funzione educativa che ha il latino (e il greco) come palestra mentale, per l’esercizio delle funzioni logiche, per la consuetudine a manipolare le strutture sintattiche e grammaticali che, a sua volta, stimola anche la capacità di studiare le materie scientifiche e, in particolare, la matematica. Tutti ricordano i celebri brani di Gramsci dedicati alla funzione educativa del metodo analitico usato nello studio del latino. Si ricordano meno alcuni passaggi che farebbero rizzare i capelli in testa ai più accaniti postcomunisti antioccidentali, in cui Gramsci sottolineava l’importanza del latino e del greco per “essere se stessi”: «Non si imparava il latino e il greco per parlarli… Si imparava per conoscere direttamente la civiltà dei due popoli, presupposto necessario della civiltà moderna, cioè per essere se stessi e conoscere se stessi consapevolmente». E denunciava come degenerazione della scuola il prevalere di un approccio professionale e pratico su quello formativo e «immediatamente disinteressato»: «L’aspetto più paradossale è che questo nuovo tipo di scuola appare e viene predicata come democratica, mentre invece essa non solo è destinata a perpetuare le differenze sociali, ma a cristallizzarle in forme cinesi». Sono frasi che andrebbero rilette ogni mattina dai fautori della scuola delle “competenze” contro quella delle “conoscenze”, intesa come conquista della modernità e che invece conduce allo sfacelo, poiché anche la scienza, se viene privata della sua linfa teorica, è destinata alla decadenza. Ritengo che Gramsci non capisse gran che di scienza, ma la sua immagine della scuola basata su un approccio culturale disinteressato era molto più moderna di quella di chi pensa che la scienza debba essere “ricostruita” dagli studenti pasticciando nei laboratori scolastici senza basi conoscitive.
È da augurarsi che quanto accade negli USA sia tenuto in conto da chi sta sconsideratamente meditando di tagliare lo studio del latino e addittura di abolirlo dai licei scientifici. È un atteggiamento tanto più sorprendente in chi crede nell’importanza di valorizzare le radici della cultura occidentale.
Il nostro paese ha il vizio di adottare certe innovazioni in ritardo e quando si è dimostrato che non funzionano. Si vuol mettere un computer per classe mentre negli USA li tolgono in quanto dannosi. Insistiamo sulla pedagogia dell’autoformazione mentre nello stato americano di punta sul piano scolastico – il Massachusetts – la stanno sbaraccando. Ora si vuol togliere di mezzo il latino, mentre oltre oceano torna di moda. Di recente qualcuno ha motivato tale scelta dicendo che “agli studenti il latino non piace”. Con un simile ragionamento occorrerebbe abolire anche la matematica, e forse alla fine resterebbe soltanto la ginnastica… È da augurarsi che la vigilanza di chi ha a cuore la cultura e la scienza come fondamento umanistico di una società degna di questo nome, blocchi certi propositi sconsiderati forse ispirati dalle alchimie fasulle della tecnocrazia comunitaria.
(Libero, 18 ottobre 2008)
Dedicato in particolare a chi mi ha scritto polemicamente, dicendo che approvavo i tentativi tesi ad abolire l'insegnamento del latino nei licei scientifici.
sabato 18 ottobre 2008
A proposito della crisi finanziaria
Ormai molti ammettono che la drammatica crisi finanziaria in corso ha origine nell’uso di modelli matematici che da più di un trentennio hanno consolidato la convinzione che i mercati finanziari siano perfettamente controllabili. La radice ideologica di questa convinzione sta nella teoria delle cosiddette “aspettative razionali”. Le “aspettative” sono le attese dei soggetti economici di fronte a eventi che possono influire sulle loro decisioni e sono dette “razionali” quando i soggetti conoscono perfettamente il funzionamento del sistema economico e sanno utilizzare al meglio queste informazioni. Secondo gli esponenti di questa teoria il comportamento “razionale” dei soggetti indirizza l’economia proprio verso quegli eventi che essi “razionalmente” si aspettano. In definitiva, da un’ipotesi quanto mai discutibile – che i soggetti economici si comportino in modo del tutto consapevole ed efficiente – si ricava la conclusione che l’economia si evolve in modo determinato e prevedibile. Quel che ha reso credibile tale visione è il suo carattere normativo: comportatevi razionalmente e la realtà sarà razionale. Se gli operatori economici agiscono come robot, secondo regole che riflettono le prescrizioni della teoria, l’economia diventerà un sistema robotico perfettamente prevedibile.
A partire dagli anni settanta questa visione si è incarnata in un modello matematico, detto di Black-Scholes-Merton (introdotto dagli economisti matematici Fisher Black e Myron Scholes e poi rielaborato dall’ingegnere elettronico Robert Merton). L’equazione centrale del modello è ispirata da concetti di meccanica statistica e di probabilità e segue la solita idea riduzionista di plasmare i concetti dell’economia su quelli della fisica. Essa mira a descrivere l’andamento nel tempo di prodotti finanziari (come un portafoglio di azioni, obbligazioni e valute) e di opzioni definite su di essi. Le ipotesi del modello sono semplici: il rendimento del portafoglio è pari a un tasso d’interesse costante privo di rischio, i prezzi seguono un andamento del tipo “moto browniano”, le attività finanziarie sono tutte perfettamente divisibili e anche il tempo è continuo, il che è quanto dire che le attività si spalmano nel tempo per frazioni arbitrariamente piccole di prodotti finanziari. Queste ipotesi irrealistiche sono state accettate in quanto prescrizioni atte a realizzare un mercato finanziario prevedibile. In un’orgia di ottimismo scientista si è creduto che bastasse sbattere il modello di Black-Scholes-Merton nei computer e seguirne le prescrizioni per realizzare il sogno di un’economia “razionale”. Mezzo mondo finanziario si è messo a operare in questo modo. Come effetto collaterale centinaia di matematici si sono accodati a lavorare sull’equazione producendo montagne di lavori buoni soltanto per andare in cattedra.
Già nel 1998, il drammatico crack della finanziaria Long Term Capital Management (3,5 miliardi di dollari di buco) avrebbe dovuto mettere sull’avviso che il mondo è fatto da uomini che non hanno conoscenze perfette e non si comportano come robot e indurre ad accantonare il modello di Black-Scholes-Merton. Si è continuato testardamente, fino a che i comportamenti “emotivi” e “irrazionali” (in realtà ragionevoli) hanno fatto saltare il sistema.
Insomma, sta crollando un paradigma scientista: l’idea delirante di organizzare la società umana come il mondo fisico, anche se neppure questo è perfettamente prevedibile. Ma è vano illudersi. I suoi fanatici fautori non demorderanno, a costo di affogarci in un mare di rovine. Lo stanno facendo anche col sistema dell’istruzione: ne parleremo un’altra volta.
(Tempi, 16 ottobre 2008)
A partire dagli anni settanta questa visione si è incarnata in un modello matematico, detto di Black-Scholes-Merton (introdotto dagli economisti matematici Fisher Black e Myron Scholes e poi rielaborato dall’ingegnere elettronico Robert Merton). L’equazione centrale del modello è ispirata da concetti di meccanica statistica e di probabilità e segue la solita idea riduzionista di plasmare i concetti dell’economia su quelli della fisica. Essa mira a descrivere l’andamento nel tempo di prodotti finanziari (come un portafoglio di azioni, obbligazioni e valute) e di opzioni definite su di essi. Le ipotesi del modello sono semplici: il rendimento del portafoglio è pari a un tasso d’interesse costante privo di rischio, i prezzi seguono un andamento del tipo “moto browniano”, le attività finanziarie sono tutte perfettamente divisibili e anche il tempo è continuo, il che è quanto dire che le attività si spalmano nel tempo per frazioni arbitrariamente piccole di prodotti finanziari. Queste ipotesi irrealistiche sono state accettate in quanto prescrizioni atte a realizzare un mercato finanziario prevedibile. In un’orgia di ottimismo scientista si è creduto che bastasse sbattere il modello di Black-Scholes-Merton nei computer e seguirne le prescrizioni per realizzare il sogno di un’economia “razionale”. Mezzo mondo finanziario si è messo a operare in questo modo. Come effetto collaterale centinaia di matematici si sono accodati a lavorare sull’equazione producendo montagne di lavori buoni soltanto per andare in cattedra.
Già nel 1998, il drammatico crack della finanziaria Long Term Capital Management (3,5 miliardi di dollari di buco) avrebbe dovuto mettere sull’avviso che il mondo è fatto da uomini che non hanno conoscenze perfette e non si comportano come robot e indurre ad accantonare il modello di Black-Scholes-Merton. Si è continuato testardamente, fino a che i comportamenti “emotivi” e “irrazionali” (in realtà ragionevoli) hanno fatto saltare il sistema.
Insomma, sta crollando un paradigma scientista: l’idea delirante di organizzare la società umana come il mondo fisico, anche se neppure questo è perfettamente prevedibile. Ma è vano illudersi. I suoi fanatici fautori non demorderanno, a costo di affogarci in un mare di rovine. Lo stanno facendo anche col sistema dell’istruzione: ne parleremo un’altra volta.
(Tempi, 16 ottobre 2008)
giovedì 16 ottobre 2008
martedì 14 ottobre 2008
Ancora bullismo
Reduce da un’università percorsa da cortei invasati che scandiscono urla belluine vengo a sapere della vicenda di Novara: un professore che rimprovera un ragazzino di 14 anni per aver abbandonato la classe e viene preso a pugni. Quel ragazzino era già stato sospeso più volte, aveva continuato imperterrito a mettersi le cuffie per ascoltare la musica in classe uscendo quando gli pareva, picchia il professore, non manifesta il minimo pentimento, neppure per finta, e la direzione scolastica che fa? Si limita a risospenderlo, offrendo al picchiato la prospettiva di ritrovarsi in classe il picchiatore più arrogante di prima. Il docente abbandona la scuola perché – dice giustamente – «non hanno saputo scegliere tra me e lui, i colleghi mi hanno lasciato solo, sono stato tradito».
La prima cosa che viene in mente è la manifestazione del 30 ottobre. Dopo i grembiulini bruciati, gli slogan contro il ripristino del voto in condotta, contro i voti in pagella, contro ogni forma di ripristino di ordine e disciplina a scuola, dopo le urla belluine, è vergognoso scendere in piazza come se niente fosse, come se la vicenda di Novara non fosse l’ultimo insopportabile scandalo che testimonia lo stato tragico in cui è ridotta la scuola italiana. Una scuola impotente, abbandonata alla viltà e all’ipocrisia con cui, appellandosi a letture riduttive dei regolamenti, ci si rifiuta di restituire a un insegnante la dignità. E cos’è un insegnante senza dignità, se non si traccia attorno a lui una cortina invalicabile che ne garantisca il rispetto?
Altro che regolamenti! Non soltanto occorrerebbe l’elementare dovere civile di interpretarli nel modo più severo possibile, a costo di qualche ricorso, ma tutti dovrebbero cogliere l’occasione per proporre la soppressione dell’indecente Carta delle studentesse e degli studenti, frutto del servilismo giovanilistico tardo-sessantottino. Se i sindacati e i partiti che scenderanno in piazza il 30 ottobre volessero rendere rispettabile la loro manifestazione – pur mantenendo l’opposizione al maestro unico o ad altri aspetti della riforma, magari articolandola in modo intelligibile – dovrebbero centrarla attorno alla solidarietà nei confronti del professor Luigi Sergi, alla richiesta dei provvedimenti più radicali che creino le condizioni per la sua permanenza a scuola, all’adesione alla reintroduzione del voto in condotta e alla richiesta di gettare nella pattumiera la famigerata Carta di cui sopra.
Non lo faranno. Perché il potere sindacale sulla scuola si fonda sulla trasformazione degli insegnanti da educatori a dipendenti proletarizzati. Ma c’è anche un altro sindacalismo che mette all’angolo gli insegnanti, ed è quello di troppe famiglie che difendono i figli qualsiasi cosa facciano e sono abituate a considerare la scuola come un luogo dove depositare la prole e che deve prestare questo servizio senza provocare problemi. È l’altra faccia della scuola come ammortizzatore sociale. Questo drammatico sbandamento di una società che sa sempre meno cosa significhi educare non può essere fronteggiato da una scuola priva di strumenti di difesa e in cui si diffonde la paura.
Non mi stancherò di ripetere che una delle cause di questa catastrofe è la sciagurata concezione della scuola come servizio e degli studenti e delle famiglie come utenti. Il principio della “customer satisfaction” trasferito all’istruzione fa credere che uno possa “soddisfare” i propri comodi e avere anche il diritto di protestare se qualcuno ti intralcia e non ti promuove. Del resto, se in un supermercato ti rifilano una scatola piena di vermi, non hai il diritto di protestare? Che l’istruzione non sia scatolame non lo capisce quasi più nessuno. Ma quantomeno se nel supermercato picchi la commessa chiamano la polizia. Invece a scuola ti danno una sculacciatina e ti mandano a fare una passeggiata.
(Libero, 14 ottobre 2008)
La prima cosa che viene in mente è la manifestazione del 30 ottobre. Dopo i grembiulini bruciati, gli slogan contro il ripristino del voto in condotta, contro i voti in pagella, contro ogni forma di ripristino di ordine e disciplina a scuola, dopo le urla belluine, è vergognoso scendere in piazza come se niente fosse, come se la vicenda di Novara non fosse l’ultimo insopportabile scandalo che testimonia lo stato tragico in cui è ridotta la scuola italiana. Una scuola impotente, abbandonata alla viltà e all’ipocrisia con cui, appellandosi a letture riduttive dei regolamenti, ci si rifiuta di restituire a un insegnante la dignità. E cos’è un insegnante senza dignità, se non si traccia attorno a lui una cortina invalicabile che ne garantisca il rispetto?
Altro che regolamenti! Non soltanto occorrerebbe l’elementare dovere civile di interpretarli nel modo più severo possibile, a costo di qualche ricorso, ma tutti dovrebbero cogliere l’occasione per proporre la soppressione dell’indecente Carta delle studentesse e degli studenti, frutto del servilismo giovanilistico tardo-sessantottino. Se i sindacati e i partiti che scenderanno in piazza il 30 ottobre volessero rendere rispettabile la loro manifestazione – pur mantenendo l’opposizione al maestro unico o ad altri aspetti della riforma, magari articolandola in modo intelligibile – dovrebbero centrarla attorno alla solidarietà nei confronti del professor Luigi Sergi, alla richiesta dei provvedimenti più radicali che creino le condizioni per la sua permanenza a scuola, all’adesione alla reintroduzione del voto in condotta e alla richiesta di gettare nella pattumiera la famigerata Carta di cui sopra.
Non lo faranno. Perché il potere sindacale sulla scuola si fonda sulla trasformazione degli insegnanti da educatori a dipendenti proletarizzati. Ma c’è anche un altro sindacalismo che mette all’angolo gli insegnanti, ed è quello di troppe famiglie che difendono i figli qualsiasi cosa facciano e sono abituate a considerare la scuola come un luogo dove depositare la prole e che deve prestare questo servizio senza provocare problemi. È l’altra faccia della scuola come ammortizzatore sociale. Questo drammatico sbandamento di una società che sa sempre meno cosa significhi educare non può essere fronteggiato da una scuola priva di strumenti di difesa e in cui si diffonde la paura.
Non mi stancherò di ripetere che una delle cause di questa catastrofe è la sciagurata concezione della scuola come servizio e degli studenti e delle famiglie come utenti. Il principio della “customer satisfaction” trasferito all’istruzione fa credere che uno possa “soddisfare” i propri comodi e avere anche il diritto di protestare se qualcuno ti intralcia e non ti promuove. Del resto, se in un supermercato ti rifilano una scatola piena di vermi, non hai il diritto di protestare? Che l’istruzione non sia scatolame non lo capisce quasi più nessuno. Ma quantomeno se nel supermercato picchi la commessa chiamano la polizia. Invece a scuola ti danno una sculacciatina e ti mandano a fare una passeggiata.
(Libero, 14 ottobre 2008)
venerdì 10 ottobre 2008
Il maestro è già unico. In tutta Europa
Il radicale Strik Lievers sul decreto Gelmini
(da Tempi, testo di Elena Inversetti)
È questione di realismo. «La scuola primaria è diversa dalla secondaria. Alle elementari il bambino non ha bisogno di spinte contraddittorie, ma di un’unica figura di riferimento. Perciò la protesta seguita all’introduzione del maestro unico da parte del ministro Gelmini non si spiega se non con motivazioni ideologiche, frutto di una mentalità sindacalista». Non si risparmia Lorenzo Strik Lievers, radicale della prima ora e docente di Storia e didattica della storia all’Università di Milano Bicocca. «È pretestuoso parlare di progressismo e pluralismo, non si fa altro che avvalorare una logica miope che arriva a strumentalizzare i bambini per fini politici». La battaglia per una giusta educazione, «che secondo me è anzitutto una questione di libertà», ha sempre trovato Lievers in prima linea, fin da quando, nel 1990, «da senatore vidi arrivare la proposta di legge che avrebbe introdotto nella scuola primaria i cosiddetti moduli: tre insegnanti equamente divisi su due classi. Una riforma dovuta fondamentalmente a ragioni di tipo sindacale, per garantire nuovi posti di lavoro. Sono impallidito: se la pluralità dei docenti, che insegnano cose diverse con metodi diversi, è l’ideale per favorire l’apprendimento e lo sviluppo della capacità critica di un liceale, per un bambino è drammatico. Quando gli insegnanti vogliono collaborare e vanno d’accordo non insorgono grossi problemi, ma se invece, come normalmente accade, non si riesce a concordare criteri omogenei, il bambino è disorientato». Lievers all’epoca presentò un emendamento alla legge a favore dell’insegnante prevalente, «che io preferisco chiamare insegnante stellare, perché si tratta dell’insegnan-te che si serve delle materie principali per educare una persona. Dove poi il docente non è in grado di arrivare, per esempio nell’insegnamento dell’inglese o della musica o dell’educazione motoria, allora si affiancherà un altro insegnante, diciamo “secondario”. Una soluzione che poi è stata introdotta da Letizia Moratti per le prime classi, mentre, da parte nostra, riuscimmo a ottenere che nelle scuole paritarie il modulo non fosse obbligatorio, quindi la Gelmini non ha fatto altro che rendere stabile una realtà già esistente». Nessun paese europeo, del resto, prevede nella scuola primaria la pluralità dei docenti. «Solo in Italia vige l’organizzazione modulare. Perciò, anche in questo caso, la Gelmini ha scoperto l’acqua calda».
______________
Di passaggio: consiglio vivamente la lettura del commento di Barbara al mio articolo su "la rivoluzione pedagogica che fabbrica le teste vuote".
E inoltre il link:
http://groups.google.it/group/it.politica/browse_thread/thread/8a1667eb7d7e062f/0f1c81e884291dd7?lnk=st&q=%22giorgio+israel%22#0f1c81e884291dd7
(da Tempi, testo di Elena Inversetti)
È questione di realismo. «La scuola primaria è diversa dalla secondaria. Alle elementari il bambino non ha bisogno di spinte contraddittorie, ma di un’unica figura di riferimento. Perciò la protesta seguita all’introduzione del maestro unico da parte del ministro Gelmini non si spiega se non con motivazioni ideologiche, frutto di una mentalità sindacalista». Non si risparmia Lorenzo Strik Lievers, radicale della prima ora e docente di Storia e didattica della storia all’Università di Milano Bicocca. «È pretestuoso parlare di progressismo e pluralismo, non si fa altro che avvalorare una logica miope che arriva a strumentalizzare i bambini per fini politici». La battaglia per una giusta educazione, «che secondo me è anzitutto una questione di libertà», ha sempre trovato Lievers in prima linea, fin da quando, nel 1990, «da senatore vidi arrivare la proposta di legge che avrebbe introdotto nella scuola primaria i cosiddetti moduli: tre insegnanti equamente divisi su due classi. Una riforma dovuta fondamentalmente a ragioni di tipo sindacale, per garantire nuovi posti di lavoro. Sono impallidito: se la pluralità dei docenti, che insegnano cose diverse con metodi diversi, è l’ideale per favorire l’apprendimento e lo sviluppo della capacità critica di un liceale, per un bambino è drammatico. Quando gli insegnanti vogliono collaborare e vanno d’accordo non insorgono grossi problemi, ma se invece, come normalmente accade, non si riesce a concordare criteri omogenei, il bambino è disorientato». Lievers all’epoca presentò un emendamento alla legge a favore dell’insegnante prevalente, «che io preferisco chiamare insegnante stellare, perché si tratta dell’insegnan-te che si serve delle materie principali per educare una persona. Dove poi il docente non è in grado di arrivare, per esempio nell’insegnamento dell’inglese o della musica o dell’educazione motoria, allora si affiancherà un altro insegnante, diciamo “secondario”. Una soluzione che poi è stata introdotta da Letizia Moratti per le prime classi, mentre, da parte nostra, riuscimmo a ottenere che nelle scuole paritarie il modulo non fosse obbligatorio, quindi la Gelmini non ha fatto altro che rendere stabile una realtà già esistente». Nessun paese europeo, del resto, prevede nella scuola primaria la pluralità dei docenti. «Solo in Italia vige l’organizzazione modulare. Perciò, anche in questo caso, la Gelmini ha scoperto l’acqua calda».
______________
Di passaggio: consiglio vivamente la lettura del commento di Barbara al mio articolo su "la rivoluzione pedagogica che fabbrica le teste vuote".
E inoltre il link:
http://groups.google.it/group/it.politica/browse_thread/thread/8a1667eb7d7e062f/0f1c81e884291dd7?lnk=st&q=%22giorgio+israel%22#0f1c81e884291dd7
giovedì 9 ottobre 2008
OUT OF TOUCH
Ha detto bene Gianni de Michelis: «Veltroni è “out of touch”, ha perso il contatto con la realtà». L’intervista del segretario del Partito Democratico al Corriere della Sera (28 settembre 2008) è sconcertante, persino deprimente per chi non si accontenta di denigrare e spera ancora nella possibilità di un dialogo razionale. Era da augurarsi che il “dibbattito” sul fascismo che ritorna – sull’onda della dichiarazione di Asor Rosa secondo cui l’Italia berlusconiana è peggio di quella fascista – fosse una trovata per riempire i pomeriggi troppo azzurri e lunghi dell’estate. E invece no. Veltroni riprende il tema e lo perfeziona: saremmo di fronte a qualcosa di inedito nella storia repubblicana, «uno stato di angoscia che non ho mai visto da quando sto al mondo». Addirittura… Mai visto neppure ai tempi delle Brigate Rosse? Neppure negli anni settanta, quando Luciano Lama fu vergognosamente cacciato dall’università “La Sapienza”? Neppure ai tempi degli omicidi di Falcone e Borsellino e delle stragi di mafia? Neppure l’altro ieri, quando la Campania era sommersa di rifiuti?
Suvvia… Veltroni è davvero “out of touch”. Faccia una passeggiata per le strade con un naso finto e si renderà conto di averla sparata grossa. Certo i problemi ci sono e non mancano le preoccupazioni. Al limite, se Veltroni avesse voluto dire qualcosa di sensato, avrebbe potuto riferirsi alla situazione internazionale, alle minacce di Ahmadinejad, al rischio di nuove guerre devastanti, persino nucleari. Ma no: l’angoscia mai vista al mondo sarebbe dovuta a un’Italia la cui democrazia si starebbe svuotando come nella Russia di Putin… Ne deduciamo soltanto che Veltroni ci sta parlando del suo stato di angoscia, e dispiace che ne viva uno mai provato da quando sta al mondo; ma, per favore, non proietti il suo stato psicologico personale su quello di tutti gli italiani. Così facendo rischia, diciamo, di esagerare.
Veltroni parla di un’Italia in cui comincia ad esserci un «pensiero unico», di un «clima asfissiante» e dice che, «se in passato l’egemonia della sinistra ha asfissiato la destra [bontà sua], ora l’egemonia della destra asfissia il Paese». Non soltanto la sinistra ma tutto il Paese.
Da un po’ di tempo mi occupo intensamente di problemi dell’istruzione e scrivo parecchio in merito. Tengo a restare comunque libero e non ho mancato di criticare gli errori compiuti dal centrodestra nella gestione della scuola e dell’università nei passati governi. Con altrettanta libertà valuto positivamente e difendo quanto ha fatto finora e sta facendo il ministro Gelmini e trovo deprecabile l’atteggiamento di opposizione pregiudiziale della sinistra, teso a preservare – come ha bene spiegato Angelo Panebianco – interessi corporativi che si sono costituiti nel corso di questi ultimi trent’anni. Quali sono le sedi di stampa in cui sostenere posizioni come queste? Pochissime. Oltre a queste pochissime esiste qualche organo di stampa neutrale, nel senso che ospita col bilancino entrambi i punti di vista. Ma le grandi corazzate dell’informazione sono antigovernative e sparano a zero contro il maestro unico. Per non parlare delle case editrici: per pubblicare un libro che critichi le politiche scolastiche della sinistra bisogna rivolgersi alle piccole. Dove sta questa asfissia? Casomai c’è ancora quella inversa. Non sarà piuttosto che, nel momento di massima angoscia e disorientamento da quando sta al mondo, Veltroni ha deciso di affidarsi alle cure della solita sinistra antropologicamente superiore? Senza chiedersi se questa scelta non sia la madre di tutti i calcoli sbagliati.
(Tempi, 9 ottobre 2008)
Suvvia… Veltroni è davvero “out of touch”. Faccia una passeggiata per le strade con un naso finto e si renderà conto di averla sparata grossa. Certo i problemi ci sono e non mancano le preoccupazioni. Al limite, se Veltroni avesse voluto dire qualcosa di sensato, avrebbe potuto riferirsi alla situazione internazionale, alle minacce di Ahmadinejad, al rischio di nuove guerre devastanti, persino nucleari. Ma no: l’angoscia mai vista al mondo sarebbe dovuta a un’Italia la cui democrazia si starebbe svuotando come nella Russia di Putin… Ne deduciamo soltanto che Veltroni ci sta parlando del suo stato di angoscia, e dispiace che ne viva uno mai provato da quando sta al mondo; ma, per favore, non proietti il suo stato psicologico personale su quello di tutti gli italiani. Così facendo rischia, diciamo, di esagerare.
Veltroni parla di un’Italia in cui comincia ad esserci un «pensiero unico», di un «clima asfissiante» e dice che, «se in passato l’egemonia della sinistra ha asfissiato la destra [bontà sua], ora l’egemonia della destra asfissia il Paese». Non soltanto la sinistra ma tutto il Paese.
Da un po’ di tempo mi occupo intensamente di problemi dell’istruzione e scrivo parecchio in merito. Tengo a restare comunque libero e non ho mancato di criticare gli errori compiuti dal centrodestra nella gestione della scuola e dell’università nei passati governi. Con altrettanta libertà valuto positivamente e difendo quanto ha fatto finora e sta facendo il ministro Gelmini e trovo deprecabile l’atteggiamento di opposizione pregiudiziale della sinistra, teso a preservare – come ha bene spiegato Angelo Panebianco – interessi corporativi che si sono costituiti nel corso di questi ultimi trent’anni. Quali sono le sedi di stampa in cui sostenere posizioni come queste? Pochissime. Oltre a queste pochissime esiste qualche organo di stampa neutrale, nel senso che ospita col bilancino entrambi i punti di vista. Ma le grandi corazzate dell’informazione sono antigovernative e sparano a zero contro il maestro unico. Per non parlare delle case editrici: per pubblicare un libro che critichi le politiche scolastiche della sinistra bisogna rivolgersi alle piccole. Dove sta questa asfissia? Casomai c’è ancora quella inversa. Non sarà piuttosto che, nel momento di massima angoscia e disorientamento da quando sta al mondo, Veltroni ha deciso di affidarsi alle cure della solita sinistra antropologicamente superiore? Senza chiedersi se questa scelta non sia la madre di tutti i calcoli sbagliati.
(Tempi, 9 ottobre 2008)
mercoledì 8 ottobre 2008
La rivoluzione pedagogica che fabbrica teste vuote
«È meglio una testa ben fatta che una testa ben piena». Chi potrebbe non convenire con questa affermazione? Essa rammenta che è inutile riempire la testa di nozioni senza saper ragionare, ovvero senza assimilare razionalmente le conoscenze; ammonisce contro il caso limite di quel signore che voleva farsi una cultura leggendo l’uno dopo l’altro, in ordine alfabetico, tutti i libri di una biblioteca. Ma se Michel de Montaigne, autore di questa frase, avesse saputo che, qualche secolo dopo, qualcuno avrebbe pensato di fare di questa osservazione un programma culturale ed educativo universale, sarebbe rimasto di stucco. Questo qualcuno è stato Edgar Morin, intellettuale di interessi multiformi che ha deciso che il mondo rischiava di bloccarsi se non metteva mano alle teste degli uomini. L’attitudine a porre e trattare correttamente i problemi doveva diventare il fine dell’educazione e imporsi sulle conoscenze e sulle discipline. Soltanto così si potevano ricostruire i principi che soggiacciono a tutti i saperi, riconnettendoli in un unico tessuto e risolvendo di colpo la separazione tra cultura umanistica e scientifica. La consapevolezza che “tutto si connette” sta nella presa di coscienza della centralità del concetto di “complessità”, anzi di “ipercomplessità” del mondo, e la nuova cultura unificata deve sostituire all’idea di interdisciplinarità quella di iperdisciplinarità, e quindi l’attitudine “olistica” a muoversi “bene” in tutti i saperi svelandone il tessuto unitario. Insomma, prima viene il metodo e poi i contenuti.
Si farebbe troppo onore a Morin riconducendo a lui soltanto gli orientamenti di certa pedagogia contemporanea. Un altro suo padre nobile è John Dewey e l’idea che la pedagogia debba aderire ai metodi delle scienze esatte e divenire uno strumento per l’autoformazione del fanciullo, cui non bisogna trasmettere conoscenze, bensì fornire un aiuto affinché acquisisca la capacità di apprendere.
Sono teorie che si muovono su un crinale ambiguo e che, nelle mani di teste “mal fatte”, diventano pericolose come la nitroglicerina. Difatti, dall’aforisma di Montaigne non discende che una testa vuota (o quasi), soprattutto se restìa a riempirsi, possa essere ben fatta. E difatti sono le teste vuote e restìe a riempirsi che si sono lanciate a corpo morto sul programma di Morin e sull’idea di autoapprendimento spingendoli fino alle conseguenze più radicali, ovvero mettendo semplicemente da parte le conoscenze in favore della metodologia pura. Se Morin è un intellettuale di tutto rispetto (e così alcuni suoi seguaci), discendendo per li rami ci si imbatte in un pletora di ignoranti che hanno fatto dell’infermità virtù, coprendo l’ignoranza con un ammasso di fumisterie inconsistenti sulla complessità, l’ipercomplessità, l’iperdisciplinarità e, in definitiva, giustificando il disprezzo delle conoscenze con il primato del metodo.
Sarebbe lungo esaminare questa letteratura ma chi ne voglia cogliere gli effetti sul disastro scolastico può leggere i programmi del 2004 e le indicazioni per il curricolo scolastico primario del 2007. Qui dalla geografia sparisce la descrizione della Terra e la sua definizione è ridotta a «scienza che studia l’umanizzazione del pianeta e i processi attivati dalle collettività nelle loro relazioni con la natura», per cui lo studente, lungi dal dover assimilare conoscenze, è invitato a «costruire le proprie geografie». Così lo studio della storia è ridotto al fine precipuo di acquisire una consapevolezza critica che eviti usi «strumentali» e «impropri» e di avviare un «confronto sereno» sulle differenze per costruire una società multiculturale e multietnica. Sapere se Giulio Cesare sia vissuto nell’Ottocento e se il Volga attraversi la Lombardia è secondario. Per non dire delle indicazioni per le secondarie in cui tutto viene sbrindellato attorno al concetto indefinito di complessità.
Ma più che insistere su queste miserie – il che alla fine è impietoso – interessa qui sottolineare alcuni aspetti della fabbrica delle “teste ben fatte”. In fondo, ci si chiede, prima di Edgar Morin, abbiamo avuti la filosofia greca e gli Elementi di Euclide, la scienza di Galileo e Newton, le opere di Dante e Shakespeare, la musica di Bach e Beethoven. E via citando tanti altri frutti geniali di teste certamente ben fatte. Evidentemente la pedagogia basata sulle conoscenze e sulla divisione disciplinare – in vigore nell’Accademia ateniese, nelle università medioevali, fino alle scuole moderne – funzionava assai bene quanto a produzione di teste ben fatte. E non si venga a dire che i prodotti intellettuali di società così “semplici” fossero meno complessi del pensiero ispirato dalla complessità del mondo contemporaneo. A meno che non si pensi che complessità sia sinonimo di nebulosità. Quale incredibile presunzione ha ispirato l’idea che occorresse gettare all’aria un’idea di cultura che ha sempre – ripetiamo, sempre, da quando il mondo conosce sé stesso – dimostrato il successo di un rapporto indissolubile tra conoscere e ragionare in cui ognuno dei due aspetti non può esistere senza l’altro, tantomeno tiranneggiandolo?
A una simile pretesa possiamo trovare varie spiegazioni che non si escludono a vicenda. La prima è la democratizzazione della conoscenza: tutte le teste devono essere ben fatte, mentre, nei sistemi educativi passati, soltanto una parte riusciva a farsi avanti. Insomma, pur non essendo in partenza uguali, dobbiamo diventarlo e, allo scopo, dobbiamo essere assoggettati ai procedimenti di una pedagogia scientifica che definisce in modo universale e uniforme le competenze da conseguire. Non si tratta di fornire pari opportunità secondo una visione aperta della società, bensì di conseguire appiattimento egualitario caratteristico di una visione totalitaria. Ma il totalitarismo si manifesta in altri modi. Difatti, non ci si limita a osservare, con Montaigne, che «è meglio una testa ben fatta che una testa ben piena», ma si formula un programma di “rifacimento” delle teste, che si pretende non soltanto scientifico ma universale, e in quanto tale mira a diventare ricetta egemonica dei sistemi d’istruzione. Totalitaria è la pretesa di voler fare le teste attribuendosi il possesso della ricetta giusta per fabbricarle, sentenziando cosa sia una testa “ben fatta”. La lettura delle prescrizioni che vengono date in certi testi (addirittura da applicare in classe) per fare bene le teste è raccapricciante per il modo in cui fumisterie senza capo né coda vengono servite con l’arroganza di chi crede di possedere la verità scientifica.
Si dirà che parlare di mentalità totalitaria è un’offesa alla biografia di una persona come Morin che ruppe coraggiosamente mezzo secolo fa con lo stalinismo. Ma sono soltanto a metà le rotture con il comunismo che conservano un legame con l’idea cruciale secondo cui nulla della storia dell’umanità è accettabile, il mondo è fatto male – e, in particolare, la sua cultura – e occorre rifare tutto daccapo. È l’idea palingenetica che si è mantenuta nel percorso di chi è passato dallo stalinismo al sessantottismo. La malattia è il persistere dell’idea rivoluzionaria.
Su tutto plana un aspetto tragicomico. Nella dissoluzione delle conoscenze disciplinari, nella soppressione della figura dell’insegnante (che trasmette le conoscenze) sostituita da quella del “facilitatore” del processo di autoapprendimento, e nella conseguente distruzione dell’insegnamento ex cathedra, sopravvive una sola forma di conoscenza legittima e un solo gruppo di “insegnanti” titolati a fare lezioni ex cathedra: la pedagogia olistica e della complessità e i suoi sacerdoti, i teorici dell’autoapprendimento, agenti della rivoluzione educativa ed epistemologica globale. È una casta che ripropone (in farsa, per dirla con Marx) la funzione dell’avanguardia rivoluzionaria di lontana memoria. Ma la farsa si è fatta tragedia per il sistema dell’istruzione che ha subito queste ricette e ha prodotto un paio di generazioni di teste vuote di conoscenze e plasmate su inconsistenti paradigmi della complessità.
(Libero, 7 ottobre 2008)
Si farebbe troppo onore a Morin riconducendo a lui soltanto gli orientamenti di certa pedagogia contemporanea. Un altro suo padre nobile è John Dewey e l’idea che la pedagogia debba aderire ai metodi delle scienze esatte e divenire uno strumento per l’autoformazione del fanciullo, cui non bisogna trasmettere conoscenze, bensì fornire un aiuto affinché acquisisca la capacità di apprendere.
Sono teorie che si muovono su un crinale ambiguo e che, nelle mani di teste “mal fatte”, diventano pericolose come la nitroglicerina. Difatti, dall’aforisma di Montaigne non discende che una testa vuota (o quasi), soprattutto se restìa a riempirsi, possa essere ben fatta. E difatti sono le teste vuote e restìe a riempirsi che si sono lanciate a corpo morto sul programma di Morin e sull’idea di autoapprendimento spingendoli fino alle conseguenze più radicali, ovvero mettendo semplicemente da parte le conoscenze in favore della metodologia pura. Se Morin è un intellettuale di tutto rispetto (e così alcuni suoi seguaci), discendendo per li rami ci si imbatte in un pletora di ignoranti che hanno fatto dell’infermità virtù, coprendo l’ignoranza con un ammasso di fumisterie inconsistenti sulla complessità, l’ipercomplessità, l’iperdisciplinarità e, in definitiva, giustificando il disprezzo delle conoscenze con il primato del metodo.
Sarebbe lungo esaminare questa letteratura ma chi ne voglia cogliere gli effetti sul disastro scolastico può leggere i programmi del 2004 e le indicazioni per il curricolo scolastico primario del 2007. Qui dalla geografia sparisce la descrizione della Terra e la sua definizione è ridotta a «scienza che studia l’umanizzazione del pianeta e i processi attivati dalle collettività nelle loro relazioni con la natura», per cui lo studente, lungi dal dover assimilare conoscenze, è invitato a «costruire le proprie geografie». Così lo studio della storia è ridotto al fine precipuo di acquisire una consapevolezza critica che eviti usi «strumentali» e «impropri» e di avviare un «confronto sereno» sulle differenze per costruire una società multiculturale e multietnica. Sapere se Giulio Cesare sia vissuto nell’Ottocento e se il Volga attraversi la Lombardia è secondario. Per non dire delle indicazioni per le secondarie in cui tutto viene sbrindellato attorno al concetto indefinito di complessità.
Ma più che insistere su queste miserie – il che alla fine è impietoso – interessa qui sottolineare alcuni aspetti della fabbrica delle “teste ben fatte”. In fondo, ci si chiede, prima di Edgar Morin, abbiamo avuti la filosofia greca e gli Elementi di Euclide, la scienza di Galileo e Newton, le opere di Dante e Shakespeare, la musica di Bach e Beethoven. E via citando tanti altri frutti geniali di teste certamente ben fatte. Evidentemente la pedagogia basata sulle conoscenze e sulla divisione disciplinare – in vigore nell’Accademia ateniese, nelle università medioevali, fino alle scuole moderne – funzionava assai bene quanto a produzione di teste ben fatte. E non si venga a dire che i prodotti intellettuali di società così “semplici” fossero meno complessi del pensiero ispirato dalla complessità del mondo contemporaneo. A meno che non si pensi che complessità sia sinonimo di nebulosità. Quale incredibile presunzione ha ispirato l’idea che occorresse gettare all’aria un’idea di cultura che ha sempre – ripetiamo, sempre, da quando il mondo conosce sé stesso – dimostrato il successo di un rapporto indissolubile tra conoscere e ragionare in cui ognuno dei due aspetti non può esistere senza l’altro, tantomeno tiranneggiandolo?
A una simile pretesa possiamo trovare varie spiegazioni che non si escludono a vicenda. La prima è la democratizzazione della conoscenza: tutte le teste devono essere ben fatte, mentre, nei sistemi educativi passati, soltanto una parte riusciva a farsi avanti. Insomma, pur non essendo in partenza uguali, dobbiamo diventarlo e, allo scopo, dobbiamo essere assoggettati ai procedimenti di una pedagogia scientifica che definisce in modo universale e uniforme le competenze da conseguire. Non si tratta di fornire pari opportunità secondo una visione aperta della società, bensì di conseguire appiattimento egualitario caratteristico di una visione totalitaria. Ma il totalitarismo si manifesta in altri modi. Difatti, non ci si limita a osservare, con Montaigne, che «è meglio una testa ben fatta che una testa ben piena», ma si formula un programma di “rifacimento” delle teste, che si pretende non soltanto scientifico ma universale, e in quanto tale mira a diventare ricetta egemonica dei sistemi d’istruzione. Totalitaria è la pretesa di voler fare le teste attribuendosi il possesso della ricetta giusta per fabbricarle, sentenziando cosa sia una testa “ben fatta”. La lettura delle prescrizioni che vengono date in certi testi (addirittura da applicare in classe) per fare bene le teste è raccapricciante per il modo in cui fumisterie senza capo né coda vengono servite con l’arroganza di chi crede di possedere la verità scientifica.
Si dirà che parlare di mentalità totalitaria è un’offesa alla biografia di una persona come Morin che ruppe coraggiosamente mezzo secolo fa con lo stalinismo. Ma sono soltanto a metà le rotture con il comunismo che conservano un legame con l’idea cruciale secondo cui nulla della storia dell’umanità è accettabile, il mondo è fatto male – e, in particolare, la sua cultura – e occorre rifare tutto daccapo. È l’idea palingenetica che si è mantenuta nel percorso di chi è passato dallo stalinismo al sessantottismo. La malattia è il persistere dell’idea rivoluzionaria.
Su tutto plana un aspetto tragicomico. Nella dissoluzione delle conoscenze disciplinari, nella soppressione della figura dell’insegnante (che trasmette le conoscenze) sostituita da quella del “facilitatore” del processo di autoapprendimento, e nella conseguente distruzione dell’insegnamento ex cathedra, sopravvive una sola forma di conoscenza legittima e un solo gruppo di “insegnanti” titolati a fare lezioni ex cathedra: la pedagogia olistica e della complessità e i suoi sacerdoti, i teorici dell’autoapprendimento, agenti della rivoluzione educativa ed epistemologica globale. È una casta che ripropone (in farsa, per dirla con Marx) la funzione dell’avanguardia rivoluzionaria di lontana memoria. Ma la farsa si è fatta tragedia per il sistema dell’istruzione che ha subito queste ricette e ha prodotto un paio di generazioni di teste vuote di conoscenze e plasmate su inconsistenti paradigmi della complessità.
(Libero, 7 ottobre 2008)
domenica 5 ottobre 2008
giovedì 2 ottobre 2008
L'ineffabile Michele Serra
L’ineffabile Michele Serra deve essere diventato calvo per lo sforzo di aver prodotto pensieri tanto profondi. Spremi e spremi le meningi gli è venuta fuori una brillantissima idea che ha illustrato su Repubblica: la sinistra è per la complessità, la destra è per la semplicità. «È molto più semplice pensare che il mondo sia semplice» (e qui ha copiato il filosofo Catalano). Purtroppo non lo è – ammonisce il Nostro – e questo la sinistra l’ha capito. Per questo ha inventato la pedagogia e la didattica, che hanno faticato per essere «sdoganate da intellettuali, pedagogisti, preti inquieti, agitatori politici e cercatori a vario titolo del pelo nell’uovo». Ora i fautori del «pensiero sbrigativo» – a differenza di quello che paga il prezzo della calvizie per produrre banalità straordinariamente complesse – hanno avuto un’idea «quasi geniale»: «gli arzigogoli pedagogici per giunta zavorrati da pretese sindacali, sono un lusso che la società non può permettersi». Di qui la controffensiva del trio Gelmini-Palin-Brunetta (proprio così) e di chi pensa “facilmente” che l’umanità sia stata creata da Dio settemila anni fa, invece di «perdere tempo e quattrini studiando i fossili e l’evoluzione», di chi vuole semplicemente far fuori la cultura e gli strumenti critici come «insopportabili impicci» e che continuerà a farlo fino a quando «la realtà non presenterà i suoi conti, sprofondando i semplificatori nella stessa melma in oggi si dibattono i poveri complicatori di minoranza».
Non sapevamo che i sindacati fossero cultori della complessità. Tantomeno sapevamo che Serra perdesse tempo e quattrini studiando i fossili e l’evoluzione. Sarà… Ma dopo la lettura del suo articolo gli consiglieremmo di lasciar perdere e di darsi allo studio della Bibbia. Forse riuscirà a produrre qualche idea meno scalcagnata di quelle con cui ha addirittura dimostrato che la maestra unica rappresenta la semplicità (di destra) e le maestre plurime la complessità (progressista). Certo, 2, 3, 4, ecc. sono maggiori di 1, e quindi più complessi… Il poveruomo non ha idea di che cosa sia la scuola primaria a “moduli”, che seziona in modo disciplinare l’insegnamento – cosa c’entri in questo la complessità bisognerebbe chiederlo a qualche prete inquieto – e non sa che la maestra (o maestro… non esageriamo col femminismo) unica ha un senso pedagogico molto più complesso: introdurre il bambino, nella fase di formazione iniziale, al mondo simbolico – lettura, scrittura, numeri – che è nato in modo unitario. Perché Serra non lo sa, ma se il mondo non è nato settemila anni fa, di certo settemila anni fa sono nati insieme matematica e scrittura.
Ma non buttiamola sul complesso. Quel che conta è schierarsi. La pedagogia e la didattica sono di sinistra, che diamine! Vorremmo dire che noi non ce l’abbiamo né con la pedagogia né con la didattica, ma con una certa pedagogia e didattica, quelle che considerano secondarie le conoscenze rispetto alle metodologie, che vogliono “apprendere ad apprendere”, ritenendo irrilevante quel che si apprende, che esaltano l’autoapprendimento e riducono la figura dell’insegnante a mero “facilitatore”, che hanno lavato talmente i cervelli che quando oggi si parla di “discipline” la gente pensa che si tratti soltanto di metodologie e tecniche.
Ma non andiamo oltre. È inutile e impietoso entrare nel merito. L’unica considerazione è che se questa è la cultura e lo spirito critico che corrono rischi, non c’è bisogno che il trio infernale Gelmini-Palin-Brunetta muova un dito. Basta lasciarli alla loro agonia. Converrebbe soltanto consigliare alla sinistra di non legarsi simili pietre al collo.
(Tempi, 2 ottobre 2008)
Non sapevamo che i sindacati fossero cultori della complessità. Tantomeno sapevamo che Serra perdesse tempo e quattrini studiando i fossili e l’evoluzione. Sarà… Ma dopo la lettura del suo articolo gli consiglieremmo di lasciar perdere e di darsi allo studio della Bibbia. Forse riuscirà a produrre qualche idea meno scalcagnata di quelle con cui ha addirittura dimostrato che la maestra unica rappresenta la semplicità (di destra) e le maestre plurime la complessità (progressista). Certo, 2, 3, 4, ecc. sono maggiori di 1, e quindi più complessi… Il poveruomo non ha idea di che cosa sia la scuola primaria a “moduli”, che seziona in modo disciplinare l’insegnamento – cosa c’entri in questo la complessità bisognerebbe chiederlo a qualche prete inquieto – e non sa che la maestra (o maestro… non esageriamo col femminismo) unica ha un senso pedagogico molto più complesso: introdurre il bambino, nella fase di formazione iniziale, al mondo simbolico – lettura, scrittura, numeri – che è nato in modo unitario. Perché Serra non lo sa, ma se il mondo non è nato settemila anni fa, di certo settemila anni fa sono nati insieme matematica e scrittura.
Ma non buttiamola sul complesso. Quel che conta è schierarsi. La pedagogia e la didattica sono di sinistra, che diamine! Vorremmo dire che noi non ce l’abbiamo né con la pedagogia né con la didattica, ma con una certa pedagogia e didattica, quelle che considerano secondarie le conoscenze rispetto alle metodologie, che vogliono “apprendere ad apprendere”, ritenendo irrilevante quel che si apprende, che esaltano l’autoapprendimento e riducono la figura dell’insegnante a mero “facilitatore”, che hanno lavato talmente i cervelli che quando oggi si parla di “discipline” la gente pensa che si tratti soltanto di metodologie e tecniche.
Ma non andiamo oltre. È inutile e impietoso entrare nel merito. L’unica considerazione è che se questa è la cultura e lo spirito critico che corrono rischi, non c’è bisogno che il trio infernale Gelmini-Palin-Brunetta muova un dito. Basta lasciarli alla loro agonia. Converrebbe soltanto consigliare alla sinistra di non legarsi simili pietre al collo.
(Tempi, 2 ottobre 2008)
Iscriviti a:
Post (Atom)