Sono due soli i paesi europei che sono schierati con l’Italia sulla linea dell’integrazione totale dei disabili nelle classi scolastiche: Spagna e Portogallo. Gli altri adottano sistemi misti con scuole e classi speciali. Poiché è irragionevole pensare che la stragrande maggioranza degli stati europei siano incivili, converrebbe riflettere pacatamente, senza pregiudizi e anatemi. So di un’associazione spagnola di genitori di bambini down in cui si discute molto dell’inclusione e le opinioni non sono affatto univoche: molti pensano che l’inclusione dipenda dalle caratteristiche del soggetto e, in certi casi, ritengono più vantaggiosa una collocazione in classi separate. Ripeto: bisognerebbe avere l’equilibrio per discuterne, come si suol dire, “laicamente”. Noi invece siamo impantanati nell’ideologia più radicale, per cui non mi attendo altro che una scarica di anatemi sulla rubrica di questa settimana.
Sono rimasto attonito leggendo l’osservazione di due pedagogisti che si sono dimessi dall’Osservatorio ministeriale sull’integrazione per protestare contro la carenza di fondi per il sostegno: «Nella scuola italiana ci sono ormai 600mila bimbi migranti che, sommati ai disabili fanno quasi 800mila bambini». Quindi “migrante” e “disabile” apparterrebbero alla medesima categoria. Trovo conferma di questo approccio nelle osservazioni con cui Clara Sereni commenta la sua difficile esperienza personale di madre di un disabile: «Nel clima attuale la diversità fa paura: migranti, zingari, matti… E io, che in quanto a essere “altro” sono pure ebrea, osservo con preoccupazione questa perdita di memoria storica». Quindi, a disabili e migranti vanno sommati zingari, matti, ebrei e, come si può immaginare, molte altre categorie. Questo esercito di “diversi” assume dimensioni quantitative imponenti, quasi maggioritarie nella scuola, il che spiega perfettamente perché la preparazione delle maestre nelle Facoltà di scienze della formazione consista ormai quasi esclusivamente di materie psico-pedagogiche-relazionali e di pedagogia speciale (quella che si occupa appunto dei “diversamente” abili). Le materie disciplinari sono ridotte ai minimi termini, fino a casi estremi in cui sono rese opzionali con pediatria o neuropsichiatria infantile.
È una scuola elementare ridotta a un immenso deposito di “diversità”, in cui il maestro è tendenzialmente una sorta di infermiere delle varie situazioni di “alterità” che compongono l’umanità. Emerge la visione di una società incapace di guardare in faccia la sofferenza e la malattia e di curarla con il senso della realtà che è l’unico modo in cui può esprimersi l’autentica solidarietà. È una società che all’abbandono, all’isolamento del malato perché non si veda l’“orrore” della malattia, trova come unica alternativa l’idea ipocrita e politicamente corretta che siamo tutti malati, tutti “altri” e tutti “diversi” (da chi?), tutti “diversamente abili”. Anche essere ebreo o immigrato (migranti sono gli uccelli) diventa una disabilità.
Inutile dire che i fautori di questa cupa visione hanno come riferimento costante don Milani e l’idea che il sostegno non vada dato al singolo ma al collettivo. E non stupisce che vadano a ripescare persino Makarenko, quel pedagogista sovietico che predicava anch’egli l’educazione del collettivo contro ogni approccio rivolto alla persona. La discussione sull’inclusione è aperta, ma questa visione è agghiacciante. E poi dicono che abbiamo la migliore scuola elementare del mondo: in un’ottica collettivista della società vista come un immenso campo rieducativo, forse sì.
(Tempi, 30 ottobre 2008)
31 commenti:
È strano e mitologico il modo in cui la nostra scuola sbandiera il vessillo della personalizzazione dell’apprendimento. Tutti, si proclama, siamo uguali proprio perché diversi. Uno che ha un handicap è diverso da chi non conosce la lingua italiana in quanto immigrato, da uno che ha un problema di relazione con gli altri perché viene da una famiglia disagiata, da uno che ha spiccate capacità logiche e linguistiche, da uno che è dotato a livello artistico e creativo....Non c’è un bambino uguale all’altro, tutti abbiamo delle particolarità. Venti alunni? Venti diversità. Trenta? Trenta diversità. Quindi, proprio perché tutti diversi siamo tutti uguali.
Pertanto, quale “sol dell’avvenire”, la scuola dovrà dare a ciascuno secondo i suoi bisogni, ad ognuno secondo le sue necessità.
Bene. E cosa si fa per concretizzare il meraviglioso proposito? Si idealizza la maestra, la quale dovrebbe possedere il divino dono della moltiplicazione della propria persona per far seguire a ciascun alunno un percorso individualizzato, secondo i tempi che gli sono necessari, usando i metodi che più gli si confanno. Tutto deve avvenire dentro la classe, nell’arco delle medesime ore scolastiche, disponendo in realtà, come tutte gli esseri del pianeta terra, di una sola bocca, due soli occhi, due sole mani e per di più trovandosi con un sistema nervoso sul punto di un esaurimento.
Errata Corrige: I due paesi che con l'Italia.... sono Grecia e Portogallo, e non Spagna e Portogallo.
Tutti uguali nella dignità propria dell'essere umano, nel diritto all'istruzione, alla socializzazione, ma diversi perchè esemplari unici per caratteristiche genetiche, ambientali, per modulazione delle "intelligenze" possedute.
La scuola dovrebbe considerare la "diversità" che richieda interventi educativi speciali come una risorsa per la collettività; solo così il bisogno educativo speciale diventa bisogno educativo del gruppo, della società, che in una mutua collaborazione dei suoi membri potrà esaltare e al tempo stesso usufruire delle intelligenze, delle caratteristiche, delle virtù di ciascuno dei suoi membri, nessuno escluso.
Certo, se il maestro viene affiancato da figure che possano coadiuvarlo e supportarlo la cosa diventa molto più perseguibile, molto più proficua, non solo per il singolo, m per l'intera collettività.
Diversi per caratteristiche GENETICHE, ambientali e per modulazione di intelligenze possedute? Ma è la definizione di razza secondo Nicola Pende...
E perché il bisogno educativo speciale deve diventare bisogno educativo del gruppo? La persona non esiste se non come atomo del collettivo?
Vengono i brividi.
E' possibile intervewnire al dibattito ad un "non addetto al lavoro" di formazione come me? Ad uno che per il suo lavoro di manager doveva ottenere risultati dal lavoro di altre persone?
La nostra società assomiglia per molti versi a quella di 1984 di Orwell, dove il linguaggio viene utilizzato per nascondere la realtà.
E mentre non si può più parlare di handicap, ma si deve usare il termine diversa abilità, quando poi una tale "diversità" viene riscontrata prima della nascita, il "diversabile" viene in genere fatto fuori senza troppi complimenti.
Negli USA il 90% dei bambini con sindrome di Down va incontro all'aborto "terapeutico".
Se non è "neolingua" questa...
Proprio perchè esiste in quanto essere unico, irripetibile, apportatore di esperienza (quale che sia la sua condizione fisica, la sua origine, la sua educazione, il suo credo religioso) ha il pieno diritto di essere integrato ed il dovere di partecipare alle attività previste nel gruppo dei pari.
A questo punto, un'auto citazione* (confesso la mia ignoranza in fatto di etichetta accademica e spero che non sia di cattivo gusto):
“Secondo la teoria del costruttivismo, [...] il soggetto riceve l’input ed il riconoscimento del proprio sapere solo attraverso il gruppo, che può arricchire con la propria esperienza e da cui può attingere saperi. Attraverso l’interazione col gruppo, quindi, l’allievo diventa attore del proprio processo di apprendimento, nella misura in cui è chiamato ad occuparsi di ambiti strettamente legati alla propria realtà, al proprio interesse, alle proprie capacità e relativamente alla possibilità di scambiare, verificare, mettere in pratica idee, esperienze, competenze.
Un simile processo di apprendimento, che trae la sua ragion d’essere, il suo presupposto e la sua forza dall’azione esercitata nel gruppo e dal gruppo, risulterà tanto più efficace e proficuo quanto più il soggetto sarà capace di comunicare, collaborare, costruire col gruppo, per il gruppo e grazie al gruppo, in un ambito scelto tra quelli che, in quel particolare momento, risultano di maggior interesse e per cui si è disposti a mettere a disposizione della comunità non solo ciò che si sa, ma soprattutto ciò che si sa fare.”
*Rosamaria Guido, IDEI: un’occasione di “speciale normalità” per la valorizzazione delle differenze. Considerazioni, esperienze, proposte., in Antonella Valenti, Personalizzazione dei percorsi formativi: analisi pedagogica, educativa e didattica , LUCIANO EDITORE, Napoli, 2007
Gentile prof. Israel,
Io credo che lei dia troppo peso ai principi di metodo esposti nei luoghi della teorizzazione dell'attività didattica. Chiunque abbia frequentato le scuole con i sensi e l'intelletto vigili sa che il lavoro dei buoni insegnanti non consiste nell'ottusa applicazione di assiomi pedagogici, ma nella quotidiana disponibilità ad adattare e modificare le proprie convinzioni e le proprie conoscenze in relazione alla contingenza dell'incontro didattico/educativo. In una scuola con molti alunni disabili (per esempio un professionale alberghiero) i tentativi di integrazione nelle classi sono valutati caso per caso sulla base della gravità della patologia, delle caratteristiche della classe, della capacità e della volontà delle famiglie di sostenere la fatica del confronto dei loro figli sfortunati con altri ragazzi. Mai ho visto consigli di classe o insegnanti di sostegno procedere ottusamente in base a principi considerati come dogmi. La stessa diversità casistica si cerca di rispettare anche per i ragazzi non disabili, almeno non dichiarati tali. I programmi, il tipo di esposizione, la valutazione delle prove non procede senza tenere conto di chi si ha davanti. O meglio, questo accade qualche volta. Ma gli autori di questo errore sono distribuiti in egual misura tra i sostenitori della buona vecchia scuola di una volta e gli aderenti al da lei disprezzato paradigma pedagogista. Nelle scuole si pensa più di quanto lei sembra a volte credere. Ma, appunto, si pensa, non si applicano dogmi. Per questo molti non trovano convincente l'idea del maestro unico: pensare l'individualità di un bambino, coglierne le caratteristiche e le qualità, comprendere le origini delle sue eventuali difficoltà è cosa che trae molto giovamento dal confronto con altri insegnanti. Per scoprire, ad esempio, che il muso lungo e l'apatia di un ragazzino durante la mia bellissima lezione di matematica non trova riscontro nella sua gioia e nella sua brillantezza durante il corso d'italiano. Se rimango solo, chi mi racconta com'è quel ragazzino quando ride? posso decidere da solo delle sue capacità?
Cordiali saluti.
Niccolò Argentieri
Professore, ma se in questa sagra della diversità, i diversi fossero gli insegnanti? (mica tutti, per carità non lapidatemi!). E magari dai campi di rieducazione qualcuno di loro ci è pure già passato!
Ma lei veramente crede che io non conosca la realtà scolastica? Non suppone che forse abbia parecchi strumenti di più quanto lei non creda per dire quanto dico? Oppure pensa che le testimonianze di tanti maestri siano tutte manifestazioni di paranoia? Non dico certo che tutto sia aberrante ma lei dipinge una realtà edulcorata. Legga peraltro il commento precedente - che per me è il paradigma di tutto quanto non condivido - e mi dica se questa non è ideologia allo stato puro. La quale ha, purtroppo, uno stuolo di adepti che la applicano sollecitamente giorno dopo giorno.
La ringrazio, professore, di aver precisato che la “ideologia pura”, di giorno in giorno, abbandona l’utopia per essere applicata. Il collega della scuola professionale sa bene che non è affatto facile applicarla, così come non è facile fare la buona scuola tradizionale, soprattutto in certe realtà.
Noi non abbracciamo ciecamente le teorie pedagogiche; io per esempio le sto studiando “ufficialmente” ora, dopo vent’anni d’insegnamento, di corsi di aggiornamento, di riunioni, di discussioni, di tentativi. Ed è bello scoprire che si è agito secondo “il paradigma pedagogico” prima ancora di averlo studiato, così com’è bello “provare” a metterlo in pratica e scoprire che è efficace, che riesce a stimolare, ad aiutare, anche l’allievo più refrattario (e qui non faccio differenza tra portatore di handicap, extracomunitario, ragazzo con problemi familiari, adolescente in piena crisi “di crescita”). Dico “provare“ perché il docente sperimenta ogni giorno, con ognuno degli allievi a lui affidati, tornando a casa rincuorato per ogni suo piccolo successo e demoralizzato se il giorno dopo sembra di dover ricominciare daccapo. Le assicuro che a noi insegnanti farebbero comodo le classi differenziali, quelle ponte e tutte le altre trovate che riescano a liberarci dai problemi di ogni giorno, che sono soprattutto i problemi dei più deboli, dei più sfortunati (ma sia chiaro che è sfortunato anche chi, pur sembrando godere di una elevata condizione sociale, si trova a dover vivere un’età problematica o a dover subire una particolare situazione familiare). In genere noi docenti vediamo la persona e cerchiamo di formarla, comunque, nel migliore dei modi, limitatamente a quelle che sono le nostre possibilità, la nostra sensibilità, le nostre forze.
I problemi sono diversi, ha ragione, andrebbero affrontati con l’aiuto di uno specialista diverso a seconda dei casi; ma per noi ogni problema è un “bisogno educativo speciale” e dobbiamo farci carico di tutti i bisogni della classe. Il pezzo che le ho riportato nel mio post precedente fa parte di un lavoro scritto proprio dopo aver sentito uno dei pedagogisti che hanno abbandonato il loro incarico l’altro giorno. Mi è piaciuta la sua tesi, rispecchiava in fondo il mio pensiero ed io stessa ne avevo sperimentato, assolutamente ignara dei suoi studi e della sua stessa esistenza, l’efficacia.
Ci riconosca, professore, questi sforzi, apprezzi quello che cerchiamo di fare nel desiderio che il nostro lavoro possa un giorno dare dei frutti anche in chi è stato meno fortunato!
Per concludere, debbo confessarle che anch’io ho una certa idiosincrasia per la pedagogia speciale; non l’ho studiata, non intendo approfondirne le tematiche, ma è un mio limite; sento, a pelle, che la sensibilità può fare molto di più di quella che lei chiama “ideologia pura” (ma in quel caso sarebbe vera e propria competenza medica e psicologica). Anch’io ho avuto modo di vedere qualche incongruenza nell’applicazione di certe teorie al riguardo, ma non me la sento, obiettivamente, di fare di tutte le erbe un fascio, no, non sarei così pessimista, così critico, così drastico al suo posto.
Il bambino "essere unico apportatore di esperienza" "attore del proprio processo di apprendimento che trae la sua ragion d’essere, il suo presupposto e la sua forza dall’azione esercitata nel gruppo e dal gruppo". Cosa che resta del ruolo dell'insegnante? E cosa entra nella capoccetta dei nostri figli?
Post illuminante....
In questo caso l'insegnante diventa tutor del gruppo; lo guida senza opprimerlo; senza calare la il sapere dall'alto come se fose il depositario della verità. Beh, lo ammetto, non è facile togliersi i panni della propria "maestritudine". Anche nei casi in cui la teoria venga applicata alla perfezione (e non è il mio)l'insegnate è lì a suggerire, spronare, consigliare, guidare; ma il ragazzo deve avere l'impressione di essere lui a sperimentare, a trovare, a fugare i suoi dubbi. Avete mai sentito parlare di uno psicologo che dica espressamente al suo paziente quelo che deve fare? Ecco il tutor, nella comunità di pratica, dovrebbe agire allo stesso modo.
P.S. Il blog che frequento abitualmente è costituito da giovani, che in alcuni casi presentano l'irruenza dell'età; abbiamo discusso in maniera accesa su questi temi e mi sono un po' meravigliata della presa di posizione di alcuni. Ecco, non mi aspettavo di trovare qui le frecciatine (eufemismo), l'ironia,
i giudizi che tendono a sminuire, ad annientare le idee dell'altro.
Ma in questo caso non si tratta solo di idee, si tratta di in lavoro che cerchiamo di cambiare, in meglio, adeguandolo (ribadisco per quelle che sono le nostre capacità) alle reali esigenze degi alunni.
Sapeste quanto ci pacerebbe fare una bella lezione su un argomento che ci piace di fronte a ragazzi attenti capaci di prendere appunti e di assimilare quello che andiamo dicendo! Pensate che tutti questi tentativi, questi sforzi siano un gioco che inventiamo per lasciare i ragazzi allo sbaraglio? Non siate tanto critici, non denigrate. Pensate, avrei potuto restare a fare le mie lezioni tradizionali senza pormi il problema della loro efficacia, chiedere che i portatori di handicap venissero isolati, bocciare a più non posso per ottenere clssi modello e, al tempo stesso incentivare la dispersione. E' questa per voi la funzione dell'insegnante, è questo il sevizio che il docente deve fornire alla società?
Dispieghi in piena libertà la sua "maestritudine". E che cos'è questo termine denigratorio? Il suo parallelo tra maestro e psicologo è sbagliato - il maestro non è né uno psicologo, né un assistente sociale, né un infermiere - e rivela in modo clamoroso un'ideologia sballata e disastrosa. Grazie della conferma al mio articolo: un mondo di disabili e un mondo di infermieri ad assisterli... Il guaio è che l'hanno condizionata a crederci per davvero. Si liberi di questa roba e dispieghi in piena libertà e serenità la propria "maestritudine". Sarà un bene per i suoi allievi e una salvezza per lei.
Sono del tutto convinto che lei, prof. Israel, abbia conoscenza della realtà scolastica. Una conoscenza imperfetta e parziale come è quella di tutti noi, ma certamente superiore a quella dei politici o degli "esperti" che sono chiamati a discutere e purtroppo a decidere della scuola. Anzi, approfitto per ringraziarla di questo spazio di discussione. Nel mio precedente intervento intendevo soltanto mettere in guardia dal pericolo di pensare che la scuola possa improvvisamente diventare virtuosa ed efficiente semplicemente eliminando l'influsso nefasto della pedagogia integralista. Perché questo influsso è, da quello che posso giudicare, molto meno invadente di quanto si possa credere. Soprattutto perché la testa di un "maestro" al lavoro è talmente impegnata a controllare sguardi, provocazioni, domande, distrazioni, piccole o grandi indiscipline, paure (consiglio il film "La classe": una vera immersione virtuale nella testa dell'insegnante, che sbaglia, riprova, si pente, si risolleva, discute) da non avere letteralmente tempo e spazio per richiamare alla mente eventuali letture o dogmi. Certo, la "pedagogia", come riflessione teorica, non viene meno: ma è pedagogia fatta tra sé e sé tornando a casa o parlando con colleghi negli intervalli, non in austere biblioteche dove ci si prepara per applicare metodi su cavie rassegnate al sacrificio. Insomma, ma ovviamente non escludo casi contrari o nefandezze (da cui la scuola, come ogni realtà complessa, non è immune), è pedagogia fatta per Giovanna o Francesco, non per indeterminati "alunni".
Io non mi sogno di dire che tolta "questa" pedagogia e "questi pedagogisti" tutto andrà bene. Ci vorranno trent'anni per rimediare i guasti fatti. Ma lei è troppo ottimista e lasci perdere il film "La classe" e vada alla realtà.
Io ho la ventura di confrontare la situazione di vent'anni fa (del mio primo figlio) con quella di ora, su cui accumulo fatti concreti l'uno sull'altro.
Qui un lettore del blog ha raccontato della maestra che ha scritto su un giornale locale: "Si è passati dalla scuola nozionistica ad una scuola che potenzia le capacità di pensare, di dedurre. Il maestro non trasmette solo conoscenze, ma crea strutture di apprendimento". È la vulgata corrente.
Racconto l'ultima. Riunione con i genitori in una classe dei figli di miei amici. La maestra di italiano proclama: "Non ha alcuna importanza se un bambino scrive è senza accento e "ha" senza "h", quel che importa è come pensa, le sue strutture mentali". E la maestra di matematica di rincalzo: "Non ha nessuna importanza saper fare un'addizione o una moltiplicazione, quel che conta è cosa il bambino pensa dell'addizione e della moltiplicazione".
Poveretti, sono dei disgraziati pervertiti da un'ideologia sciagurata. Ma questi poveretti stanno massacrando i nostri figli, che saranno dei sottosviluppati a fronte dei giovani del "terzo mondo".
Rilegga ancora i commenti di Rosamaria. È una persona rispettabile che è stata ridotta a ripetere senza rendersene conto concetti efferati, come l'idea razzista che siamo diversi per motivi genetici... Vorrei conoscere il mascalzone che le ha messo in testa idee simili.
Qualche precisazione per completare il quadro:
Troppo “vecchia” (fui allieva del Prof. Biancastelli – c’è ancora? – nei tempi in cui, pur giovane, si ostinava a portare i pantaloni con le pinces quando la moda del momento li voleva attillatissimi) e troppo magno-greca (orgoglio bruzio!) per lasciarmi condizionare da presunte filosofie utopistiche. Sono fermamente convinta della bontà del metodo che vado decantando perché ne ho toccato con mano gli effetti allorquando ho osato sfidare le teorie di psicologi e docenti specializzati, “buttando allo sbaraglio”, insieme ai superdotati prescelti dai miei colleghi, i portatori di handicap, gli alunni più svogliati, più ribelli, più problematici, in manifestazioni ufficiali, che li hanno visti protagonisti brillanti, soddisfatti, appagati. Neanche io avrei osato immaginare un successo “pedagogico” così eclatante da quella che poteva sembrare (ed in cuor mio lo temevo) una scommessa azzardata. A volte basta un po’ di coraggio (incoscienza, forse?), e perfino le iniziative studiate per le “eccellenze”, con intento meramente meritocratico, diventano occasione di riscatto, di rinascita per soggetti su cui, noi per primi, non scommetteremmo un centesimo. Perché negare questa opportunità? Perché relegare in un cantuccio chi, invece, potrebbe possedere qualità insospettabili, il più delle volte soffocate dal carente senso di autoefficacia che è spesso conseguenza del giudizio frettoloso, grossolano, di una società che preferisce accantonare i problemi piuttosto che intervenire, etichettare piuttosto che accogliere la “diversità”, fare del pietismo sterile piuttosto che rischiare, scommettere e, alla fine dei conti, vincere? No, e qui do ragione ad agapetos, non sarebbe civile né economicamente produttivo ripristinare la cultura spartana!
P.S. Dopo aver auspicato e incoraggiato l’intervento degli specialisti a scuola, mi sono resa conto che il più delle volte è “l’occhio del padrone che ingrassa il cavallo”; nessuna invasione di campo, quindi, ma solo il parallelismo con un atteggiamento che sembra dare i suoi frutti.
La ringrazio dei suoi consigli: so che sono dettati da una convinzione fermamente radicata in lei e, di conseguenza, nonostante contrastino col mio attuale programma di lavoro, ne apprezzo la genuina sincerità.
Ma mi commiseri, la prego! Sono certa di avere dei limiti su molti versanti, ma chi mi conosce sa bene (sarà forse effetto di un carente senso di umiltà?) che non mi è affatto congeniale mandare a spasso il mio spirito critico per "bere" supinamente tutto ciò che mi viene propinato.
E allora lasci perdere le diversità genetiche...
La società spartana era brutale, ma sicuramente non ipocrita quanto lo è nostra e non chiamava "terapia" la soppressione dei bambini "deformi".
Ed anche riguardo alla didattica degli studenti con handicap, pardon, con "diagnosi funzionale", io riscontro tante, ma tante ipocrisie. E non credo che si possa affrontare degnamente la realtà quando ci si rifiuta di guardarla in faccia e si preferisce descriverla con perifrasi e litoti.
Mi accorgo solo ora che mi è saltato un NON (non volevo affatto essere sarcastica). Quanto alle "diversità genetiche", mi vengono molto più grossolanemete da fugaci frequentazioni di Mendel. Pende, purtroppo per motivi anagrafici, mi richiama alla mente più le cronahce mondane del suo omonimo (forse discendente) Niky, che non una teoria filantropica di cui non conosco bene le implicazioni storiche nè le polemiche che, a quanto vedo, mi pare siano tuttora in atto.
Teoria filantropica?.... Era una teoria della razza.
Mi correggo: le voci parlano di pratica (nascosta) filantropica e (pare presunto) dichiarato razzismo.
Quando parlo di differenze genetiche io includo anche quella tra me e mio fratello gemello: le nostre mappe cromosiche sono simili, ma non identiche.
Ora non mi dirà che riconoscere questa diversità lasci intendere l'adesione alla teoria razzista!
Certamente, perché lei ha introdotto la considerazione delle differenze genetiche parlando delle diversità su cui è articolata la scuola. Ma le differenze genetiche - soprattutto differenze irrilevanti come quelle che lei menziona - non hanno alcuna implicazioni sulle diversità dei soggetti scolastici ( o di qualsiasi soggetto sociale). Pertanto, anche se soggettivamente lei non è certamente una razzista (non ho dubbi al riguardo) sta usando proprio le categorie fondative del razzismo. Ma perché diamine deve tirar fuori la genetica? Quando ci libereremo di questa autentica malattia?
Egregio Professore, non sono affatto all’altezza di una discussione paritaria su un argomento filosofico che tante implicazioni ha avuto nella storia dell’umanità; non è perciò a questo livello che le risponderò. Posso solo dirle che io ho della genetica un’idea molto romantica: non smetterò mai di meravigliarmi per la molteplicità di forme con cui tutti gli esseri viventi, nessuno escluso, si manifestano e di pensare ogni volta che il fenomeno è reso possibile grazie a ferree leggi, quelle genetiche appunto, le quali trovano nel caso il presupposto essenziale per la complessità del mondo che ci circonda. Ritengo che la diversità sia una ricchezza da apprezzare, rispettare, assecondare, mettere a frutto e che la formazione educativa non possa prescindere da questa considerazione, laddove voglia essere davvero efficace.
A proposito della diversità tra me e mio fratello, lei parla di “differenze irrilevanti [...] (che) non hanno alcuna implicazione sulle diversità dei soggetti scolastici ( o di qualsiasi soggetto sociale)”. Eppure siamo stati soggetti scolastici diversi, i nostri educatori hanno avuto per noi aspettative diverse, diversa è stata la nostra risposta a queste ultime. Probabilmente le cose non sarebbero andate allo stesso modo se tra di noi non ci fosse stata, tra le altre, una differenza di genere che, almeno ai miei tempi, aveva un peso non indifferente sulla educazione di bambini e adolescenti.
Ma perché? Lei pensa che le differenze tra lei e suo fratello derivino da fattori genetici?... Vede qual è il problema?
No, professore, penso che sarebbe estremamente riduttivo ricondurre tutto al solo corredo cromosomico di ognuno; tuttavia ritengo che quest'ultimo possa contribuire a quella diversità che apprezzo e che ritengo vada valorizzata.
Dio ne scampi e liberi. Abbiamo visto a che cosa ha condotto la valorizzazione delle differenze cromosomiche.
Le confesso che mi sta mettendo in difficoltà; nel leggere la sua ultima osservazione, il mio primo pensiero è andato ad Adamo ed Eva, alla cui differenza mi pare che dobbiamo tutti essere grati. Laddove alluda al femminismo, credo di poter rilevare che, almeno nelle sue forme più intransigenti, rappresenti una vera e propria aberrazione. Ecco, quella si che era ideologia pura, assolutamente razzista e senza alcun appiglio alla realtà.
Su questo non posso che concordare con lei.
L'inserimento dei bambini disabili nella scuola primaria è una grande conquista di civiltà. Nella scuola secondaria di primo e secondo grado è più difficile perchè non c'è la preparazione dei docenti (che non hanno spazio comune per programmare e pensare insieme gli interventi).
Il problema è che alla scuola non si affiancano altre strutture di supporto con handicap gravi.
Laddove l'handicap è legato ad un grave ritardo cognitivo l'inserimento nella scuola secondaria di primo e secondo grado è molto difficile e andrebbe affiancato e limitato nel tempo.
E' noto, inoltre, che la legge dell'inserimento delle persone diveramente abili ha garantito tra l'altro allo stato italiano un grande risparmio economico. Costruire e gestire in tutto il territorio nazionale scuole inferiori-medie-superiori ed università dedicate (per sordo-muti per ciechi, ecc... ecc...) come è fatto in molti altri paesi ha un costo enorme.
Le cifre che si danno di un numero di maestri elevato per alunni dipendono da questo fatto.
Inserendo gli alunni diversamente abili nella scuole si sono ottenuti alcuni grandi risultati:
1) un figlio con un handicap non è più un qualcosa da tenere nascosto (come era tempo fa) ma una persona con diritti che può e deve essere integrato nella società
2) uno studente impara che nel mondo c'è la diversità e c'è chi ha dei problemi. Impara che può dare il suo contributo
3) Lo stato risparmia enormemente. Salvo poi leggere i dati male e dire che c'è un eccesso di spesa in questo campo da parte dell'istruzione...
E' proprio così, Davide. Anche la società va educata ad accogliere e solo conoscendo l'altro lo si può accettare, rispettare, valorizzare.
Io ho potuto vedere che i giovani hanno molte meno sovrastrutture rispetto a noi e sanno accogliere con naturalezza laddove vivano fianco a fianco con soggetti meno fortunati, danno rispettare, aiutare, agire in maniera esemplere.
Quanto ai numeri dei docenti, ai loro stipendi ed a tutte le voci che in questo giorno si stanno prendendo in considerazione da una parte e dall'altra, mi meraviglio di questa bagarre sterile che cerca di fare confusione, senza risolvere alcunchè.
E' vero, l'Italia non può essere paragonata ad altri Paesi dove alcune attività vengono gestite da altri enti; ecco che, per esempio, altrove i docenti di religione, il personale di sorveglianza al servizio mensa e, come dice lei, il personale specializzato fanno parte di capitoli di spesa che non incidono sul bilancio dell'istruzione. Perchè non dirlo a chiare lettere, anzichè creare un caso tanto clamoroso?
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