mercoledì 8 ottobre 2008

La rivoluzione pedagogica che fabbrica teste vuote

«È meglio una testa ben fatta che una testa ben piena». Chi potrebbe non convenire con questa affermazione? Essa rammenta che è inutile riempire la testa di nozioni senza saper ragionare, ovvero senza assimilare razionalmente le conoscenze; ammonisce contro il caso limite di quel signore che voleva farsi una cultura leggendo l’uno dopo l’altro, in ordine alfabetico, tutti i libri di una biblioteca. Ma se Michel de Montaigne, autore di questa frase, avesse saputo che, qualche secolo dopo, qualcuno avrebbe pensato di fare di questa osservazione un programma culturale ed educativo universale, sarebbe rimasto di stucco. Questo qualcuno è stato Edgar Morin, intellettuale di interessi multiformi che ha deciso che il mondo rischiava di bloccarsi se non metteva mano alle teste degli uomini. L’attitudine a porre e trattare correttamente i problemi doveva diventare il fine dell’educazione e imporsi sulle conoscenze e sulle discipline. Soltanto così si potevano ricostruire i principi che soggiacciono a tutti i saperi, riconnettendoli in un unico tessuto e risolvendo di colpo la separazione tra cultura umanistica e scientifica. La consapevolezza che “tutto si connette” sta nella presa di coscienza della centralità del concetto di “complessità”, anzi di “ipercomplessità” del mondo, e la nuova cultura unificata deve sostituire all’idea di interdisciplinarità quella di iperdisciplinarità, e quindi l’attitudine “olistica” a muoversi “bene” in tutti i saperi svelandone il tessuto unitario. Insomma, prima viene il metodo e poi i contenuti.
Si farebbe troppo onore a Morin riconducendo a lui soltanto gli orientamenti di certa pedagogia contemporanea. Un altro suo padre nobile è John Dewey e l’idea che la pedagogia debba aderire ai metodi delle scienze esatte e divenire uno strumento per l’autoformazione del fanciullo, cui non bisogna trasmettere conoscenze, bensì fornire un aiuto affinché acquisisca la capacità di apprendere.
Sono teorie che si muovono su un crinale ambiguo e che, nelle mani di teste “mal fatte”, diventano pericolose come la nitroglicerina. Difatti, dall’aforisma di Montaigne non discende che una testa vuota (o quasi), soprattutto se restìa a riempirsi, possa essere ben fatta. E difatti sono le teste vuote e restìe a riempirsi che si sono lanciate a corpo morto sul programma di Morin e sull’idea di autoapprendimento spingendoli fino alle conseguenze più radicali, ovvero mettendo semplicemente da parte le conoscenze in favore della metodologia pura. Se Morin è un intellettuale di tutto rispetto (e così alcuni suoi seguaci), discendendo per li rami ci si imbatte in un pletora di ignoranti che hanno fatto dell’infermità virtù, coprendo l’ignoranza con un ammasso di fumisterie inconsistenti sulla complessità, l’ipercomplessità, l’iperdisciplinarità e, in definitiva, giustificando il disprezzo delle conoscenze con il primato del metodo.
Sarebbe lungo esaminare questa letteratura ma chi ne voglia cogliere gli effetti sul disastro scolastico può leggere i programmi del 2004 e le indicazioni per il curricolo scolastico primario del 2007. Qui dalla geografia sparisce la descrizione della Terra e la sua definizione è ridotta a «scienza che studia l’umanizzazione del pianeta e i processi attivati dalle collettività nelle loro relazioni con la natura», per cui lo studente, lungi dal dover assimilare conoscenze, è invitato a «costruire le proprie geografie». Così lo studio della storia è ridotto al fine precipuo di acquisire una consapevolezza critica che eviti usi «strumentali» e «impropri» e di avviare un «confronto sereno» sulle differenze per costruire una società multiculturale e multietnica. Sapere se Giulio Cesare sia vissuto nell’Ottocento e se il Volga attraversi la Lombardia è secondario. Per non dire delle indicazioni per le secondarie in cui tutto viene sbrindellato attorno al concetto indefinito di complessità.
Ma più che insistere su queste miserie – il che alla fine è impietoso – interessa qui sottolineare alcuni aspetti della fabbrica delle “teste ben fatte”. In fondo, ci si chiede, prima di Edgar Morin, abbiamo avuti la filosofia greca e gli Elementi di Euclide, la scienza di Galileo e Newton, le opere di Dante e Shakespeare, la musica di Bach e Beethoven. E via citando tanti altri frutti geniali di teste certamente ben fatte. Evidentemente la pedagogia basata sulle conoscenze e sulla divisione disciplinare – in vigore nell’Accademia ateniese, nelle università medioevali, fino alle scuole moderne – funzionava assai bene quanto a produzione di teste ben fatte. E non si venga a dire che i prodotti intellettuali di società così “semplici” fossero meno complessi del pensiero ispirato dalla complessità del mondo contemporaneo. A meno che non si pensi che complessità sia sinonimo di nebulosità. Quale incredibile presunzione ha ispirato l’idea che occorresse gettare all’aria un’idea di cultura che ha sempre – ripetiamo, sempre, da quando il mondo conosce sé stesso – dimostrato il successo di un rapporto indissolubile tra conoscere e ragionare in cui ognuno dei due aspetti non può esistere senza l’altro, tantomeno tiranneggiandolo?
A una simile pretesa possiamo trovare varie spiegazioni che non si escludono a vicenda. La prima è la democratizzazione della conoscenza: tutte le teste devono essere ben fatte, mentre, nei sistemi educativi passati, soltanto una parte riusciva a farsi avanti. Insomma, pur non essendo in partenza uguali, dobbiamo diventarlo e, allo scopo, dobbiamo essere assoggettati ai procedimenti di una pedagogia scientifica che definisce in modo universale e uniforme le competenze da conseguire. Non si tratta di fornire pari opportunità secondo una visione aperta della società, bensì di conseguire appiattimento egualitario caratteristico di una visione totalitaria. Ma il totalitarismo si manifesta in altri modi. Difatti, non ci si limita a osservare, con Montaigne, che «è meglio una testa ben fatta che una testa ben piena», ma si formula un programma di “rifacimento” delle teste, che si pretende non soltanto scientifico ma universale, e in quanto tale mira a diventare ricetta egemonica dei sistemi d’istruzione. Totalitaria è la pretesa di voler fare le teste attribuendosi il possesso della ricetta giusta per fabbricarle, sentenziando cosa sia una testa “ben fatta”. La lettura delle prescrizioni che vengono date in certi testi (addirittura da applicare in classe) per fare bene le teste è raccapricciante per il modo in cui fumisterie senza capo né coda vengono servite con l’arroganza di chi crede di possedere la verità scientifica.
Si dirà che parlare di mentalità totalitaria è un’offesa alla biografia di una persona come Morin che ruppe coraggiosamente mezzo secolo fa con lo stalinismo. Ma sono soltanto a metà le rotture con il comunismo che conservano un legame con l’idea cruciale secondo cui nulla della storia dell’umanità è accettabile, il mondo è fatto male – e, in particolare, la sua cultura – e occorre rifare tutto daccapo. È l’idea palingenetica che si è mantenuta nel percorso di chi è passato dallo stalinismo al sessantottismo. La malattia è il persistere dell’idea rivoluzionaria.
Su tutto plana un aspetto tragicomico. Nella dissoluzione delle conoscenze disciplinari, nella soppressione della figura dell’insegnante (che trasmette le conoscenze) sostituita da quella del “facilitatore” del processo di autoapprendimento, e nella conseguente distruzione dell’insegnamento ex cathedra, sopravvive una sola forma di conoscenza legittima e un solo gruppo di “insegnanti” titolati a fare lezioni ex cathedra: la pedagogia olistica e della complessità e i suoi sacerdoti, i teorici dell’autoapprendimento, agenti della rivoluzione educativa ed epistemologica globale. È una casta che ripropone (in farsa, per dirla con Marx) la funzione dell’avanguardia rivoluzionaria di lontana memoria. Ma la farsa si è fatta tragedia per il sistema dell’istruzione che ha subito queste ricette e ha prodotto un paio di generazioni di teste vuote di conoscenze e plasmate su inconsistenti paradigmi della complessità.
(Libero, 7 ottobre 2008)

6 commenti:

gelubra ha detto...

Da un po' di giorni mi porto un'ansia addosso che non riesco a smaltire. Tutto è cominciato quando, poche mattinate or sono, affacciandomi in Sala Professori e sfogliando il Registro degli avvisi ai docenti, mi sono imbattuto in una circolare, anzi in un ordine di servizio, che invitava tutti noi insegnanti a consegnare entro una certa data la programmazione disciplinare.
E fin qua "nulla quaestio", perchè la programmazione disciplinare è un obbligo per noi docenti, in quanto costituisce quel doveroso documento con cui noi rendiamo conto a famiglie e studenti degli obiettivi, delle finalità, dei metodi e degli strumenti con cui ci proponiamo di realizzare la nostra azione didattico-educativa.
Ma il fatto è che quell'avviso ci invitava a formulare la programmazione in oggetto sulla base di un nuovo schema, elaborato quest'anno dall'apposita commissione, e che prevede l'indicazione non più dei consueti parametri (conoscenze, competenze, capacità, etc) ma di nuove parole magiche, che prendono il posto delle vecchie e che assumono la nuova titolazione di conoscenze, abilità e attitudini.
Ora, a parte la considerazione che il modo con cui è stata redatta questa scheda mi sembra cervellotico, confuso ed epistemologicamente equivoco (infatti, se c'è un elemento del nostro lavoro di cui sono certo, questo consiste nel ritenere che l'atto dell'educare consista nel trasformare la natura in cultura, nel plasmare la materia informe di una natura in crescita in modo che essa, organizzandosi, si predisponga a raggiungere un ordine, un equilibrio ed una forma; e quindi non capisco che cosa significhi quel vincolo improbabile delle "attitudini" che mi sembra inchiodare l'azione educativa ad un residuo naturalistico che confligge con il senso più profondo dell'atto educativo), tutto ciò mi sembra l'ennesima conferma che nelle scuole - e quindi anche nella mia - prevale ancora prepotente, e insofferente a qualsiasi necessità di un dialogo con altre opzioni educative, una deriva metodologistica, che tende a ridurre l'apprendimento ad un esclusivo problema tecnico-operativo, grazie al quale garantire il trasferimento delle conoscenze e delle competenze dall'insegnante all'alunno, laddove, invece, io ritengo che il processo educativo si basa su un rapporto tra persone, in cui l'adulto, vivendola in prima persona, comunica, attraverso le discipline, un'ipotesi di senso della vita e la propone all'allievo, che impegna la sua libertà e volontà nella verifica, a volte gratificante, a volte sofferta e faticosa, della scelta di una strada e di un persorso esistenziale, che si chiarificano via via nel rapporto con i suoi maestri.
Insomma, di fronte a certe situazioni, impermeabili a qualsiasi necessità di un confronto "in medias res", io, spesso, vengo preso da un pensiero molesto; che è quello, cioè, di essere stato sballottolato, per uno strano scherzo del tempo, nella Russia sovietica degli anni '20 e '30, dove imperava la pedagogia e l'estetica di Stato e dove la Krupsakaia e Zdanov si impegnavano a indottrinare i più con i propri precetti.
Naturalmente, poi subito allontano da me questo pensiero molesto, anche se la sensazione di essere caduto in una rete onniavvolgente, in un labirinto causidico e inconsistente di parole senza alcun rapporto con la realtà educativa è forte e vivida.
Su tutte queste questioni, oggi, il prof. Giorgio Israel ha richiamato la nostra attenzione e dobbiamo ringraziarlo ogni giorno di più, se grazie a lui non finiamo definitivamente per essere travolti da una slavina culturale, che corre il rischio di far diventare questo mestiere qualcosa di insulsamente insopportabile.

Gennaro Lubrano Di Diego

Nuno Ma ha detto...

Caro Giorgio, tengo a precisare che stimo enormemente la tua competenza, la tua serietà e la tua inappuntabile professionalità.
Debbo però sottolineare il fatto che dopo anni di "prigionia" politica della scuola italiana nelle mani marxiste e ideologizzate di molti apparati del personale docente, del sindacato, nonché dei pedagoghi onniscienti, ora rischiamo una deriva opposta e altrettanto pericolosa. Ildecreto Gelmini è , a mio modo di vedere, del tutto fallimentare sotto tutti i profili. Si sta infatti delineando lo sfascio dell'Istituzione scolastica pubblica. Anziché proporre (ma nel caso della Gelmini sarebbe forse più opportuno usare il termine "imporre") una vera e sacrosanta Riforma scolastica, la si vuole semplicemente TAGLIARE. Punto e basta. Eppoi caro Giorgio, vuoi sapere cosa penso? Che sono stufo e arcistufo di sentir parlare sempre male degli insegnanti, additati come i maggiori responsabili del decadimento morale e culturale del nostro Paese. Perché nessuno mai afferma che in realtà sono le famiglie ad essere cambiate profondamente? Lo sanno anche le pietre che è la famiglia il luogo in cui primariamente ci si forma, ci si educa e si impara a diventare cittadini. E' all'interno delle famiglie che i bambini e poi i giovani imparano a crescere, a maturare e a guardare a dei punti di riferimento. E gli insegnanti, caro mio, di fronte a tutto ciò, possono ben poco, se non provare un senso di frustrazione ancora maggiore. Tutto è cambiato, in questi ultimi 30 anni. Crediamo davvero che le zucche vuote e "non pensanti" siano frutto esclusivo dell'incapacità degli insegnanti? Sarebbe come attribuire la colpa degli incidenti stradali ai paracarri! Certo, i giovani sono meno istruiti di qualche decennio fa, ma pensi che gli avvocati di oggi siano gli stessi di un tempo? O che i parlamentari che ci governano siano culturalmente più preparati di quelli di una volta? Suvvia, andiamo, la nostra è una società in cui tutti sono più ignoranti di allora. Colpa dei docenti e dei padagoghi o forse il problema è più complesso e investe tutta la società partendo proprio dalle famiglie?
Cordialmente,
Matteo Righetto

Giorgio Israel ha detto...

E chi è che da tutte le colpe agli insegnanti? Non certo io, che al contrario li difendo. Casomai sono i pedagogisti che gli attribuiscono le colpe di interrompere i loro "processi virtuosi"... E certo che le famiglie e l'intera società hanno colpe. Ma debbo ogni volta riscrivere il mio libro?

GiuseppeR ha detto...

Ancora una volta il prof. Israel espone in forma piana e documentata ciò che ribolle nelle teste e nei cuori di quei poveri docenti e genitori che hanno preso coscienza dello stato in cui versa la scuola contemporanea (non solo italiana).

Sono anni che che, nelle riunioni di classe, noi genitori dedichiamo il 10% del tempo a discutere della didattica ed il restante 90% di attività teatrali, cucina multietnica, psicomotricità, corsi di ballo e via dicendo.

Quando timidamente qualcuno fa notare l'incongruenza, la maggioranza dei genitori non condivide.

La loro aspettativa, infatti, non è per una buona didattica, bensi per una formazione "complessiva" che abbracci le tematiche della socializzazione, dell'affettività e della corporeità.

Sarà pure vero che il mondo moderno è "complesso", ma perchè delegare ad uno Stato liberaldemocratico compiti così delicati che riguardano in profondità lo sviluppo della persona?

Non è gia un "vasto programma" fornire una didattica decente che dia a tutti gli scolari le basi necessarie nelle discipline umanistiche e scientifiche?

Non dovrebbe essere compito prioritario delle famiglie e delle altre realtà della società civile occuparsi degli altri aspetti della maturazione di un individuo?

Una sola osservazione: meglio non "sorvolare" pietosamente sugli esempi tragicomici di questa realtà. Serve mettere il dito nella piaga perchè ancora non si è risvegliata la coscienza critica di una vasta platea di insegnanti e genitori.

Barbara ha detto...

Ho appena terminato, grazie a Dio, un'altra parte del corso di aggiornamento sul "cooperative learning" tenuto dal professor Mario Comoglio e a cui anche quest'anno, molto nolente, nonostante le manifestazioni di dissenso, sono costretta a partecipare. Il simpatico professore sostiene che, mentre lo scorso anno abbiamo scoperto che "il teorema di Pitagora si impara meglio se i bambini lavorano in gruppo", quest'anno possiamo fare un decisivo passo avanti, lo stesso passo avanti che gli Americani, popolo molto più intelligente e pratico di noi Italiani, gente astratta e fannullona, hanno già compiuto da un pezzo. E quale sarebbe questo passo? Il seguente: "Chiedersi: ma a che cosa serve il Teorema di Pitagora?". La conclusione, che a lui sembra tanto originale e rivoluzionaria, non è che la solita nenia mortale: le conoscenze non servono nella vita, non aiutano nel lavoro, non risolvono i problemi sociali e personali. Occorre dimenticare tutto e votarsi alle competenze, allo sviluppo delle capacità del pensiero così da poter trasferire quello che hai imparato in ogni contesto nuovo.
La cosa buffa è che in questi tre giorni il professore ci ha chiesto di elaborare alcuni progetti didattici orientati verso la direzione da lui descritta. Bene, il procedimento da seguire era così macchinoso, complicato e cervellotico da costringerci ad elucubrazioni mentali assurde. Abbiamo lavorato per otto ore al giorno in gruppi di cinque-sei insegnanti e alla fine delle tre giornate quattro gruppi hanno elaborato un solo progetto (da realizzare concretamente, peraltro, in una o due mattinate scolastiche), quello nel quale ero inserita io non è riuscito neppure a venirne a capo. Come si può seriamente pensare che è possibile procedere in un modo simile?
Però non è stato il professore a meravigliarmi di più, bensì l'atteggiamento di tanti insegnanti che si inchinano di fronte a questi discorsi criminali, accettano di essere denigrati nella loro identità professionale e nazionale, si sentono perfino in colpa per non essere come gli Americani....senza poi sapere che in America nel frattempo stanno apprezzando le lingue antiche e recuperano i metodi di insegnamento tradizionali.

agapetòs ha detto...

E' vero che le famiglie sono le prime responsabili dell'educazione/diseducazione dei futuri adulti, così come sono importanti anche i mass-media e maxime la televisione, ma ognuno deve fare la sua parte, e questo vale anche la scuola.
Dopo tanti Consigli di Classe finali in cui ho visto promuovere studenti assolutamente immeritevoli (e parlo ad esempio di 4 in matematica e greco, 5 in fisica e latino e tanti "fuochi" strategici), e constatando che diversi colleghi non danno mai insufficienze al II quadrimestre, non posso che pensare che anche tanti (per fortuna non tutti) insegnanti si sono adeguati all'andazzo corrente, vuoi per buonismo di matrice ideologica, vuoi per timore di perdere il proprio posto, vuoi per evitare le rogne spettanti a chi assegna dei "debiti", e comunque per avere pochi problemi con le famiglie.