Nel 1988, nel cinquantenario delle Leggi razziali fasciste, la Presidente della Camera Nilde Iotti promosse il primo convegno importante sul tema. Il panorama storiografico era povero, quasi asfittico con l’eccezione della “Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo” di Renzo De Felice, la cui tesi di fondo era che le leggi razziali erano state mera conseguenza del Patto d’acciaio stretto tra Mussolini e Hitler. Dieci anni dopo, nel 1998, il panorama era cambiato. La letteratura era moderatamente cresciuta, si era fatta strada la tesi che il razzismo fascista fosse stato qualcosa di più: un’elaborazione originale cui il mondo intellettuale e scientifico italiano aveva partecipato in modo attivo anche dividendosi in posizioni diverse. Oggi, a distanza di vent’anni, la letteratura sul tema è sterminata. È stato un progresso? Certamente sì: se non altro, abbiamo a disposizione una documentazione imponente. Nel frattempo, l’istituzione della Giornata della Memoria ha creato una tribuna in cui esibire questa letteratura, diventando al contempo uno stimolo ad una sua ulteriore crescita. Consultando i programmi della Giornata in questo 2009 si constata che il numero delle iniziative ha raggiunto livelli inimmaginabili: sono previsti incontri su incontri, nella stessa città, alla stessa ora e persino nello stesso edificio… Tutte le scuole sono mobilitate per offrire pubblico agli “eventi” e non c’è chi non venga reclutato per “testimoniare” nelle vesti più svariate.
È un’ipertrofia che ha raggiunto livelli patologici. Ed è spontaneo chiedersi che cosa stia trasmettendo questa miriade di iniziative.
Torniamo alla storiografia. In vent’anni, siamo passati dalla tesi riduttiva di De Felice a tesi esorbitanti che ci parlano di un Mussolini non meno antisemita di Hitler, di leggi razziali italiane addirittura più dure di quelle tedesche, che presentano Pende come il Rosenberg italiano. Se fino a una decina di anni fa occorreva faticare per trasmettere il messaggio che pure in Italia si era fatto del razzismo e dell’antisemitismo di stato e che le persecuzioni antiebraiche non erano state soltanto opera dei tedeschi, oggi siamo nella situazione opposta. Al punto che nasce spontaneo il desiderio di avvertire che il razzismo italiano non è stato il punto più basso dell’efferatezza nell’universo.
Poco tempo fa partecipai a un incontro nello stile delle manifestazioni della Giornata della Memoria. Il pubblico era prevalentemente studentesco. Intervenne prima di me una nota personalità, che non cito perché non miro a polemiche personali. Questi si scatenò nell’ordine di idee sopra descritto. In un crescendo apocalittico dipinse l’Italia degli anni trenta come un paese di razzisti cinici e crudeli e concluse con veemenza: «Noi italiani siamo tutti colpevoli… siete tutti colpevoli… fino a che non capiremo il male che abbiamo fatto rischieremo che il passato si ripeta». Osservavo i volti degli studenti, interdetti o increduli, chiedendomi quali effetti potesse produrre un messaggio simile, un uso della storia piegato a un’esagerata predica moralistica. Come può – mi chiedevo – un quindicenne, una persona tutta proiettata nel futuro, sentirsi scagliare addosso con tanta pesantezza il passato? Come può tornare a casa e chiedersi se suo padre non sia un criminale? E sentirsi obbligato a riconoscere la colpevolezza dell’intera comunità in cui vive per non dover pensare a se stesso come complice di un crimine collettivo? Che cosa diventerà per lui l’immagine dell’ebreo se non un minaccioso (e, in fin dei conti, insostenibile) incubo che gli sta davanti col dito puntato a ricordare che la Colpa Storica è una pietra che è costretto a portare appesa al collo per il resto dell’esistenza? Come ebreo mi dimetto da un simile ruolo. Come studioso rigetto questo pessimo uso della storia. Non si producono centinaia di pubblicazioni “scientifiche” al solo fine di bruciarle nel falò di un moralismo al servizio di finalità politiche.
Di quali finalità politiche si tratta? Se l’interpretazione di De Felice appare oggi riduttiva, il suo libro ebbe il grande merito di rompere una cortina di silenzio sulle politiche fasciste della razza. In particolare, nella storiografia comunista la vicenda delle leggi razziali e, più in generale della Shoah, era un fatto accessorio, seguendo il punto di vista bene espresso da una frase del film “All’armi siam fascisti” di Del Fra, Mangini e Micciché: «Chi vuol comandare ha bisogno di servi. I servi avranno un contrassegno: la stella di David. L’odio di classe si traveste da odio di razza». Tutto doveva essere ricondotto alla lotta di classe. La Shoah era soltanto un evento nel panorama dei crimini nazisti e le leggi razziali italiane un sotto-evento.
Le cose cambiarono radicalmente alla fine degli anni ottanta, con il crollo del comunismo. Paradossalmente un ruolo decisivo lo ebbe l’incapacità (o la mancanza di volontà) di gran parte della sinistra di tagliare i ponti col passato. Si tentò di costruire il futuro attraverso una transizione capace di recuperare e valorizzare parte della passata esperienza comunista. Solo che quel che prima era ovvio – la superiorità morale del comunismo sul nazifascismo – occorreva ora dimostrarlo. La storiografia “antifascista” fu chiamata a questo compito. Così, all’improvviso, fu rivalutata la centralità suprema della Shoah e il tema del razzismo divenne centrale. Per dimostrare che il nazifascismo era stato il pozzo dell’abiezione occorreva dimostrare che il suo delitto era incomparabilmente peggiore di qualsiasi altro, in particolare di quelli del comunismo. Lo si è detto in un recente convegno: in fin dei conti il Gulag era un progetto di lavoro a differenza del Lager che era un progetto di sterminio… E pochi giorni fa si è autorevolmente ribadito: il comunismo ha combattuto il fascismo e pertanto ha difeso gli ebrei.
Per compiere fino in fondo il salvataggio parziale del patrimonio storico della sinistra comunista occorreva precipitare anche il fascismo nel girone più basso dell’inferno. Di qui il proliferare di tesi estreme: Mussolini era antisemita fin dalla culla, il razzismo italiano era biologistico quanto e più di quello tedesco, le leggi razziali italiane erano le più crudeli di tutte, e via di questo passo fino alle requisitorie contro la colpa collettiva di un intero popolo che si sarebbe rivelato molto diverso dallo slogan “Italiani brava gente”. La tesi dell’“unicità” della Shoah (e delle politiche razziali del fascismo), per tanti anni ignorata e persino dileggiata, è divenuta un cavallo di battaglia in quanto argomento per dimostrare che il nazifascismo sta da solo nel girone più basso dell’inferno perché ha compiuto “il” crimine più grande di tutti.
Avevamo bisogno di visioni equilibrate e razionali da trasmettere ai giovani. Invece, dalla minimizzazione siamo finiti al delirio degli eventi metastorici. Negli anni ottanta Alain Finkielkraut (ne “L’avenir d’une négation”) denunciò i rischi dell’idea dell’unicità della Shoah e dell’invenzione del concetto di “genocidio”. Egli ammoniva che, se il genocidio degli ebrei veniva presentato come un evento assoluto e unico, tutti avrebbero voluto impadronirsi di un simile privilegio: ogni infame – egli avvertiva – d’ora in poi sarà un fascista e ogni vittima un portatore di stella gialla. Prevedeva un codazzo di minoranze e “oppressi” alla ricerca del privilegio di una “loro” Shoah. Sembrava il pessimismo di una Cassandra. La realtà ha superato la fantasia. Per restare alla cronaca recente si pensi a quel corteo di insegnanti romani che hanno marciato con la stella gialla appuntata sul petto per protestare contro la “Shoah” messa in atto dal ministro Gelmini nei loro confronti. L’ex-ministro dell’università Mussi ha fatto eco proclamando che «è in atto un Olocausto di migliaia e migliaia di ricercatori». Sono esempi al confine del tragicomico ma questa è la situazione: introdurre nella storia la metastoria produce risultati paradossali: l’assoluta unicità che genera il suo contrario…
Come stupirsi allora se la memoria della Shoah non porta mai (o quasi mai) a parlare delle forme presenti dell’intolleranza antisemita, e neppure di quelle terribili stragi che sole evocano la Shoah, come il genocidio del Rwanda o il dramma del Darfur, bensì soltanto della questione palestinese? Perché questa, guarda caso, è l’unica in cui si può tentare di individuare una responsabilità dei figli delle vittime della Shoah, e quindi scaricare la coscienza sporca europea. Ormai lo slogan è divenuto luogo comune: i perseguitati di un tempo sono diventati i persecutori di oggi. È divenuto talmente luogo comune che un governo europeo l’ha esplicitato senza pudore, sopprimendo la Giornata della Memoria a causa della guerra di Gaza e così stabilendo un rapporto “storiografico” diretto tra Shoah ed ebrei, da un lato, e palestinesi e israeliani, dall’altro. È un esito che ha avuto almeno il merito di alzare il velo sulla tragedia di un’Europa che declina verso Eurabia: anche Bat Ye’or sembrava una patetica Cassandra fino a pochi anni fa mentre ora le sue profezie sembrano quasi banali.
La scrittrice americana Cynthia Ozick ha stabilito un parallelismo tra la situazione attuale e quella degli anni Trenta: «… pensavo di essere ripiombata nel 1933. Mi sbagliavo è di nuovo il 1938». Su questa premessa ha motivato il suo accordo – sia pure per ragioni diametralmente opposte – con la decisione spagnola di annullare la Giornata della Memoria. In senso stretto il paragone di Ozick non ha senso. Non vi sono stelle gialle imposte per decreto, non vi sono leggi razziali. Non vi è antisemitismo di stato in alcun paese europeo. Tuttavia, in storia i paragoni non si fanno alla maniera del confronto tra due reazioni chimiche. La storia è il dominio dell’irripetibile. Se si accostano eventi temporalmente lontani non è per dimostrare il loro impossibile replicarsi bensì per indagare il senso delle circostanze presenti e intuire i loro possibili sbocchi sulla base di esperienze passate che presentano analogie sul piano delle intenzionalità. Sotto questo profilo il richiamo di Cynthia Ozick è pertinente perché sottolinea la gravità di una situazione in cui «l’antisemitismo è riesploso nel mondo islamico e l’Europa vi si è aggregata come un’orda di lupi». Certo, non è propriamente “l’Europa”, non è l’Europa istituzionale. Non è antisemitismo di stato, e non è neppure soltanto l’indifferenza morale di fronte a un uso della memoria che trasforma gli ebrei viventi in emblema della persecuzione. È molto di più. È una situazione descritta da scenari che traducono nei fatti la metafora di Ozick. Sono le manifestazioni in cui si bruciano bandiere di Israele, si identifica la stella di David con la svastica e si grida “ebrei assassini”. Sono manifestazioni ormai apertamente promosse e capeggiate da gruppi islamici cui si accodano estremismi autoctoni di varia estrazione che si piegano a questa egemonia. La accettano al punto di seguire la manifestazione fino a quando si conclude con la preghiera verso la Mecca, sul sagrato del Duomo di Milano o davanti al Colosseo. Chi avrebbe immaginato situazioni del genere una decina di anni fa? E, soprattutto, chi avrebbe immaginato che sarebbero state accolte da tanto silenzio?
Anni fa la Spagna fu colpita da un terribile attentato. Ne uscì piegando le ginocchia. Oggi il suo governo decide di sopprimere la Giornata della Memoria. Perché non è riuscito a tenere in piedi una giornata equivoca e ipocrita, in cui è facile usare la memoria della Shoah per dileggiare gli ebrei viventi o, nella migliore delle ipotesi, per parlare di tutto salvo che dell’antisemitismo di oggi che è, in primo luogo, antisionismo? Perché, con sciocca brutalità, non è riuscito a nascondere la realtà: ovvero che esiste in Europa un governo che non sopporta più neppure di sentir parlare degli ebrei.
Allora, a che giova far finta di niente? Dispiace dirlo in un paese che si distingue positivamente da tanti altri paesi europei, anche per le trasparenti dichiarazioni del Presidente della Repubblica in tema di antisionismo. L’unico modo di mantenere in piedi sensatamente la Giornata della Memoria è di trasformarla in una giornata in difesa della democrazia, dei diritti della persona calpestati ieri dai totalitarismi europei del Novecento e oggi dal terrorismo islamista, di tutti coloro cui quei diritti vengono negati, contro l’antisemitismo di oggi, in difesa del diritto di Israele a esistere.
Nello scenario attuale della Giornata sembra che l’unico ruolo consentito a un ebreo europeo si riduca a quello di officiante del rito della memoria. Un ebraismo che non voglia decretare il proprio ineluttabile declino non può accettare una simile riduzione. È inutile nutrire illusioni circa lo stato dell’ebraismo europeo, una frangia minoritaria dell’ebraismo mondiale che si trova di fronte al drammatico compito di capire se possieda un futuro oltre a quello di officiante della memoria. Sarebbe chiudere gli occhi di fronte alla storia non vedere che fino al 1938 l’ebraismo era soprattutto europeo, ma dopo il 1945 non lo era quasi più. Alla vigilia del dramma le due principali componenti dell’ebraismo europeo erano quella laica e largamente assimilata alla cultura dell’illuminismo democratico e quella degli ebrei orientali, perseguitati e che difendevano la loro identità dietro la “siepe della Torah” (l’osservanza rigorosa dei precetti) e nella cultura dello Shtetl. La Shoah ha distrutto totalmente la seconda componente e ha dissolto la prima. Il futuro dell’ebraismo è diventato il sionismo, Israele e la grande e pluralista comunità ebraica statunitense. Già, perché nessuna cultura può restare viva se resta chiusa in se stessa e non ha nulla da dire e trasmettere agli altri, se si riduce a monocultura. Israele è un paese multiforme in cui convive l’ortodossia e il laicismo più spinto. Altrettanto può dirsi dell’ebraismo statunitense. Per questo si tratta di comunità vive che costruiscono un futuro e mostrano con le attività pratiche, la cultura, la scienza, la letteratura, quale contributo può dare al mondo un ebraismo vivo. Di certo, di fronte a un pregiudizio antisemita ancora così diffuso, la vitalità non basterà a salvare l’ebraismo. Ma non si può sopravvivere soltanto rivendicando il diritto a un’identità chiusa e separata, basata sulla conservazione del passato. Chi sogna un ritorno alla cultura dello Shtetl e dei tempi “felici” in cui si viveva dietro la “siepe della Torah” sta preparando una morte per necrosi dei tessuti vitali. L’ebraismo europeo ha il pieno diritto di vivere in questo continente, ma deve scegliere: ritrovare una vitalità proiettata nel futuro o far fronte alla progressiva estinzione. Deve trovare la forza per trasmettere energie, valori, cultura. Deve partecipare attivamente all’opera di difesa di un continente in disfacimento morale. Tale disfacimento è misurato dal riemergere dell’antisemitismo. Vasilij Grossman nel suo “Vita e destino” ha descritto le molteplicità facce dell’antisemitismo per concludere che «l’antisemitismo è in stretta connessione con le grandi questioni della politica, dell’economia, dell’ideologia e della religione mondiali. È questo il suo tratto più nefasto. E la fiamma dei suoi roghi ha rischiarato le epoche più tremende della storia». In quel libro che, come ha detto George Steiner, «eclissa quasi tutti i romanzi che oggi, in Occidente, vengono presi sul serio», Grossman ha saputo inserire il discorso dell’antisemitismo all’interno di una profonda riflessione sulle radici comuni dei totalitarismi e per questo esso è attuale. Per questo, invece di convocare migliaia di giovani ad assistere a “eventi” inquinati di veleni, sarebbe meglio – e assai meno dispendioso – far sì che ogni scuola acquisti copie del libro di Grossman, che in ogni classe se ne leggano dei brani e li si commenti, e stimolare tutti i ragazzi a leggerlo per intero.
Triste Giornata della Memoria questa del 2009, in cui miriadi di “eventi” si affollano sovrastati dalle nubi di un’insofferenza crescente a sentir parlare di un ebraismo che non sia morto. Triste Giornata in cui viene definita un “dono di pace” la riconciliazione con un vescovo che ha negato l’esistenza delle camere a gas ed ha aggiunto che «l’antisemitismo può essere cattivo solo quando è contro la verità, ma se c’è qualche cosa di vero non è cattivo». Abbiamo molto bisogno di verità, ma non di questo genere di “verità”.
(Il Foglio 27 gennaio 2009)
«Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza» (Dante Alighieri)
sabato 31 gennaio 2009
venerdì 30 gennaio 2009
Una polemica e un bruttissimo andazzo
Titola l’articolo di Mario Cervo sulle “inutili polemiche” circa il vescovo negazionista Williamson: «Da quali pulpiti si fa la predica a Ratzinger?».
Poiché ha la bontà di citarmi cortesemente come uno di questi pulpiti, rispondo per me e – pur essendo spiacevole ritornare su “meriti” personali o “crediti”, direbbe Santoro – dico da che pulpito parlo. Parlo dal pulpito in cui ho scritto un articolo di fondo su l’Osservatore Romano contro il boicottaggio della visita del Papa alla Sapienza; da cui difendo strenuamente e da anni l’importanza del dialogo ebraico-cristiano, anche contro autorevoli rabbini ed esponenti dell’ebraismo italiano che mi hanno duramente censurato; in cui ho previsto solo una decina di giorni fa che stava montando un’ondata volta a far litigare ebrei e cattolici e a fare di questa lite uno strumento per attaccare questo papato. Quindi, se permette, è un pulpito abbastanza pulito per poter parlare, e non al fine di far prediche, tantomeno a Ratzinger.
La reazione dell’ebraismo italiano, in questo senso (e, si parva licet, anche la mia) è stata molto equilibrata perché, pur non potendo evitare di pronunciarsi su una vicenda così dolorosa – proprio alla vigilia della Giornata della memoria e mentre dilaga il negazionismo antisemita su tutti i fronti! – non rivolto accuse al Papa e ha soltanto chiesto che l’atto insindacabile (questione interna alla Chiesa) della revoca della scomunica fosse accompagnato da una condanna inequivocabile e forte del negazionismo di Williamson e di chi è con lui – una condanna altrettanto dura di quelle che vengono pronunziate in altri casi. La Chiesa tedesca ha pronunziato una simile condanna ed ha anche definito «comprensibilissima» (e non ingiusta) la reazione ebraica. Del resto, qui il problema non è soltanto di una persona, ma di un intero gruppo che deve prendere le distanze chiaramente da certe affermazioni e non continuare a ciurlare nel manico, come ha fatto l’altro ieri il suo rappresentante italiano al TG2, dicendo che lui non sa se le camere a gas siano esistite perché non è uno storico…
Il tanto vituperato pulpito di Giuliano Ferrara ha bene spiegato come stia fischiando un vento di restaurazione “progressista” di cui vi sono molteplici manifestazioni. Spicca la reazione inesistente all’invasione delle piazze italiane da parte dell’islam integralista e che anzi, si è prodotta nel suo contrario: il consenso da parte degli ambienti progressisti milanesi alla prospettiva di aprire una moschea per quartiere. Spicca l’attacco al dialogo ebraico-cristiano, che fa leva su incredibili gaffes (o pasticci confezionati ad arte), e che mira a distruggere la portata del discorso di Ratisbona sui fondamenti giudaico-ellenistico-cristiani dell’Europa.
Sarebbe molto meglio approfondire seriamente questo panorama e sviluppare analisi più approfondite invece di agitare vessilli ed elevare rozze barricate, mettendo da un lato il Papa e tutto il mondo cattolico e dall’altro i pulpiti dei loro detrattori. Tutto ciò serve soltanto ad approfondire lo scontro e a nascondere le vere poste in gioco.
Giorni fa a Parigi c’è stato un corteo in cui spiccavano bandiere di Israele con la svastica al posto della stella di David, in cui si diceva che la vera Shoah è quella del popolo palestinese, si parlava di vittime divenute carnefici e addirittura venivano fatti sfilare in spalla dei missili Qassam. Sarebbe bene guardare le immagini di quel corteo per capire che portata esplosiva abbia il negazionismo antisemita, divenuto un cavallo di battaglia dell’integralismo islamico. Riaccogliere un vescovo negazionista (e un movimento inquinato di negazionismo) senza un’abiura delle loro vergognose affermazioni e senza un’esplicita adesione alla “Nostra Aetate” è come mettersi in casa una carica di dinamite.
(Libero, 28 gennaio 2009)
"Addirittura la dinamite!" ha commentato ironicamente Cervo. Adducendo come prova che "come mostrano i consolanti fatti di ieri il ritorno alla Chiesa è stato condizione per una correzione".
1) la dinamite era già esplosa abbondantemente per cui c'era poco da guardarsi intorno chiedendosi dove fosse.
2) I "consolanti fatti di ieri" sono durati molto poco. Ha cominciato quel prete di Treviso, opportunamente amplificato, a rincarare la dose dicendo che le camere a gas servivano a disinfettare... L'imbecille non si è reso conto (o peggio sapeva benissimo) di aver ripetuto esattamente quel che dicevano i nazisti per indurre le loro vittime a entrare nelle camere a gas. Poi sono venute le dichiarazioni della fraternità di San Pio X a sbeffeggiare il Papa: la scomunica l'ha tolta in cambio di niente, per noi il concilio non vale nulla, non cediamo di un pollice sulle nostre posizioni, ecc. Figuriamoci la Nostra Aetate... Quella è opera del demonio.
Condizione per una correzione un corno.
L'impressione è che il Papa sia caduto vittima di un gigantesco trappolone, perché - viste le sue dichiarazioni - per me la sua buona fede è insospettabile. Soltanto errori di organizzazione e comunicazione della Curia? Può darsi. Ma ci può anche essere qualche intenzionalità maligna. Perché di certo quel che viene massacrato da questi fatti è il rapporto tra ebrei e cristiani.
Sembra che ci sia qualcuno che operi attivamente per produrre la lite a tutti i costi.
E, di certo, chi si sta fregando le mani è il massimo negazionista vivente, il presidente iraniano Ahmadinejad.
Poiché ha la bontà di citarmi cortesemente come uno di questi pulpiti, rispondo per me e – pur essendo spiacevole ritornare su “meriti” personali o “crediti”, direbbe Santoro – dico da che pulpito parlo. Parlo dal pulpito in cui ho scritto un articolo di fondo su l’Osservatore Romano contro il boicottaggio della visita del Papa alla Sapienza; da cui difendo strenuamente e da anni l’importanza del dialogo ebraico-cristiano, anche contro autorevoli rabbini ed esponenti dell’ebraismo italiano che mi hanno duramente censurato; in cui ho previsto solo una decina di giorni fa che stava montando un’ondata volta a far litigare ebrei e cattolici e a fare di questa lite uno strumento per attaccare questo papato. Quindi, se permette, è un pulpito abbastanza pulito per poter parlare, e non al fine di far prediche, tantomeno a Ratzinger.
La reazione dell’ebraismo italiano, in questo senso (e, si parva licet, anche la mia) è stata molto equilibrata perché, pur non potendo evitare di pronunciarsi su una vicenda così dolorosa – proprio alla vigilia della Giornata della memoria e mentre dilaga il negazionismo antisemita su tutti i fronti! – non rivolto accuse al Papa e ha soltanto chiesto che l’atto insindacabile (questione interna alla Chiesa) della revoca della scomunica fosse accompagnato da una condanna inequivocabile e forte del negazionismo di Williamson e di chi è con lui – una condanna altrettanto dura di quelle che vengono pronunziate in altri casi. La Chiesa tedesca ha pronunziato una simile condanna ed ha anche definito «comprensibilissima» (e non ingiusta) la reazione ebraica. Del resto, qui il problema non è soltanto di una persona, ma di un intero gruppo che deve prendere le distanze chiaramente da certe affermazioni e non continuare a ciurlare nel manico, come ha fatto l’altro ieri il suo rappresentante italiano al TG2, dicendo che lui non sa se le camere a gas siano esistite perché non è uno storico…
Il tanto vituperato pulpito di Giuliano Ferrara ha bene spiegato come stia fischiando un vento di restaurazione “progressista” di cui vi sono molteplici manifestazioni. Spicca la reazione inesistente all’invasione delle piazze italiane da parte dell’islam integralista e che anzi, si è prodotta nel suo contrario: il consenso da parte degli ambienti progressisti milanesi alla prospettiva di aprire una moschea per quartiere. Spicca l’attacco al dialogo ebraico-cristiano, che fa leva su incredibili gaffes (o pasticci confezionati ad arte), e che mira a distruggere la portata del discorso di Ratisbona sui fondamenti giudaico-ellenistico-cristiani dell’Europa.
Sarebbe molto meglio approfondire seriamente questo panorama e sviluppare analisi più approfondite invece di agitare vessilli ed elevare rozze barricate, mettendo da un lato il Papa e tutto il mondo cattolico e dall’altro i pulpiti dei loro detrattori. Tutto ciò serve soltanto ad approfondire lo scontro e a nascondere le vere poste in gioco.
Giorni fa a Parigi c’è stato un corteo in cui spiccavano bandiere di Israele con la svastica al posto della stella di David, in cui si diceva che la vera Shoah è quella del popolo palestinese, si parlava di vittime divenute carnefici e addirittura venivano fatti sfilare in spalla dei missili Qassam. Sarebbe bene guardare le immagini di quel corteo per capire che portata esplosiva abbia il negazionismo antisemita, divenuto un cavallo di battaglia dell’integralismo islamico. Riaccogliere un vescovo negazionista (e un movimento inquinato di negazionismo) senza un’abiura delle loro vergognose affermazioni e senza un’esplicita adesione alla “Nostra Aetate” è come mettersi in casa una carica di dinamite.
(Libero, 28 gennaio 2009)
"Addirittura la dinamite!" ha commentato ironicamente Cervo. Adducendo come prova che "come mostrano i consolanti fatti di ieri il ritorno alla Chiesa è stato condizione per una correzione".
1) la dinamite era già esplosa abbondantemente per cui c'era poco da guardarsi intorno chiedendosi dove fosse.
2) I "consolanti fatti di ieri" sono durati molto poco. Ha cominciato quel prete di Treviso, opportunamente amplificato, a rincarare la dose dicendo che le camere a gas servivano a disinfettare... L'imbecille non si è reso conto (o peggio sapeva benissimo) di aver ripetuto esattamente quel che dicevano i nazisti per indurre le loro vittime a entrare nelle camere a gas. Poi sono venute le dichiarazioni della fraternità di San Pio X a sbeffeggiare il Papa: la scomunica l'ha tolta in cambio di niente, per noi il concilio non vale nulla, non cediamo di un pollice sulle nostre posizioni, ecc. Figuriamoci la Nostra Aetate... Quella è opera del demonio.
Condizione per una correzione un corno.
L'impressione è che il Papa sia caduto vittima di un gigantesco trappolone, perché - viste le sue dichiarazioni - per me la sua buona fede è insospettabile. Soltanto errori di organizzazione e comunicazione della Curia? Può darsi. Ma ci può anche essere qualche intenzionalità maligna. Perché di certo quel che viene massacrato da questi fatti è il rapporto tra ebrei e cristiani.
Sembra che ci sia qualcuno che operi attivamente per produrre la lite a tutti i costi.
E, di certo, chi si sta fregando le mani è il massimo negazionista vivente, il presidente iraniano Ahmadinejad.
Sentenze temerarie
Massimo D’Alema è persona temeraria. Ad Andrea Marcenaro che ha ridicolizzato il suo argomento che un conflitto «in cui muoiono 900 persone da una parte e 10 dall’altra non è una guerra», ricordandogli la guerra in Kosovo in cui sono morti centinaia civili e migliaia di militari da una parte e nessuno dall’altra, ha replicato sprezzante che si trattò di un intervento uninitario reso necessario dalle stragi di civili compiute laggiù. Come se Israele non avesse avuto un problema umanitario, dopo aver ricevuto per anni migliaia di missili sulla testa. Nella seconda intifada furono vilmente assassinati civili e bambini in numero del tutto paragonabile a quello dei morti nella guerra di Gaza. Israele costruì un muro e fu condannato (apartheid, razzismo, ecc.). Il muro funzionò e allora si passò ai missili. Ma in nessun caso è consentito a Israele di fare quel che D’Alema trovava normale fare in Kosovo.
Come se non bastasse, il Nostro, dopo aver stigmatizzato l’Italia «cinica, reazionaria e ignorante» che ha promosso «una campagna feroce di giustificazione della guerra e dei suoi eccessi» si è avventurato a parlare di antisemitismo, dicendo che la destra italiana fa del rapporto con Israele la testimonianza di aver cambiato pelle perché viene «da una tradizione fascista e antisemita». Invece, ha aggiunto «mio padre quando c’era il fascismo, combatteva contro il fascismo, per difendere gli ebrei».
Se il discorso si limita a Giuseppe D’Alema non possiamo che prendere atto di quanto ci viene detto e rendergli onore per aver difeso gli ebrei. Pare però che questo accenno miri a trarre la conclusione che la sinistra comunista ha le carte in regola in tema di lotta all’antisemitismo. In tal caso, la temerarietà raggiunge livelli irritanti. È sperabile che non si tiri fuori l’argomento dei tanti ebrei che sono stati militanti comunisti. Non vuol dir niente. Tanti ebrei italiani sono stati fascisti fino al giorno in cui il regime ha promulgato le leggi razziali, e qualcuno persino dopo. La domanda che conta è un’altra: il movimento comunista internazionale, negli anni trenta, quaranta e dopo, si è attivato per difendere gli ebrei e per lottare contro l’antisemitismo? Sarebbe azzardato rispondere di sì. Il modo tormentoso e irrisolto con cui si è posta la questione ebraica nei paesi del socialismo reale non è una fantasia, è stato oggetto di studi e libri. Le continue ondate di antisemitismo, fino al processo Slansky e alla congiura dei medici ebrei, hanno contrassegnato tristemente l’epoca staliniana. E nel movimento comunista internazionale, incluso il Partito Comunista Italiano, si sono sentite pochissime voci di dissenso e, in particolare, di condanna della condizione degli ebrei sovietici, cui era persino vietato di studiare l’ebraico, pena il gulag. Questa indifferenza è durata fino a poco prima della caduta del muro di Berlino. Ricordo bene il caso di un fuoruscito dall’URSS che si rivolse ai vertici del partito italiano chiedendo che intercedessero a favore di un ebreo imprigionato per aver studiato l’ebraico e la sua profonda delusione per il modo con cui fu respinto.
La lotta antifascista implicò la liberazione degli ebrei dall’infamia delle leggi razziali fasciste. Ma che vi sia stata un’attenzione soggettiva per la questione ebraica e una lotta mirata contro l’antisemitismo nell’ambito del movimento comunista (salvo casi personali, come quello di Umberto Terracini e, apprendiamo, quello del padre di D’Alema) è una falsificazione della realtà. Su questo terreno sono nate le difficoltà di tanti ebrei con la sinistra comunista. Perciò, andiamoci piano con le sentenze.
(Tempi, 29 gennaio 2009)
Come se non bastasse, il Nostro, dopo aver stigmatizzato l’Italia «cinica, reazionaria e ignorante» che ha promosso «una campagna feroce di giustificazione della guerra e dei suoi eccessi» si è avventurato a parlare di antisemitismo, dicendo che la destra italiana fa del rapporto con Israele la testimonianza di aver cambiato pelle perché viene «da una tradizione fascista e antisemita». Invece, ha aggiunto «mio padre quando c’era il fascismo, combatteva contro il fascismo, per difendere gli ebrei».
Se il discorso si limita a Giuseppe D’Alema non possiamo che prendere atto di quanto ci viene detto e rendergli onore per aver difeso gli ebrei. Pare però che questo accenno miri a trarre la conclusione che la sinistra comunista ha le carte in regola in tema di lotta all’antisemitismo. In tal caso, la temerarietà raggiunge livelli irritanti. È sperabile che non si tiri fuori l’argomento dei tanti ebrei che sono stati militanti comunisti. Non vuol dir niente. Tanti ebrei italiani sono stati fascisti fino al giorno in cui il regime ha promulgato le leggi razziali, e qualcuno persino dopo. La domanda che conta è un’altra: il movimento comunista internazionale, negli anni trenta, quaranta e dopo, si è attivato per difendere gli ebrei e per lottare contro l’antisemitismo? Sarebbe azzardato rispondere di sì. Il modo tormentoso e irrisolto con cui si è posta la questione ebraica nei paesi del socialismo reale non è una fantasia, è stato oggetto di studi e libri. Le continue ondate di antisemitismo, fino al processo Slansky e alla congiura dei medici ebrei, hanno contrassegnato tristemente l’epoca staliniana. E nel movimento comunista internazionale, incluso il Partito Comunista Italiano, si sono sentite pochissime voci di dissenso e, in particolare, di condanna della condizione degli ebrei sovietici, cui era persino vietato di studiare l’ebraico, pena il gulag. Questa indifferenza è durata fino a poco prima della caduta del muro di Berlino. Ricordo bene il caso di un fuoruscito dall’URSS che si rivolse ai vertici del partito italiano chiedendo che intercedessero a favore di un ebreo imprigionato per aver studiato l’ebraico e la sua profonda delusione per il modo con cui fu respinto.
La lotta antifascista implicò la liberazione degli ebrei dall’infamia delle leggi razziali fasciste. Ma che vi sia stata un’attenzione soggettiva per la questione ebraica e una lotta mirata contro l’antisemitismo nell’ambito del movimento comunista (salvo casi personali, come quello di Umberto Terracini e, apprendiamo, quello del padre di D’Alema) è una falsificazione della realtà. Su questo terreno sono nate le difficoltà di tanti ebrei con la sinistra comunista. Perciò, andiamoci piano con le sentenze.
(Tempi, 29 gennaio 2009)
martedì 27 gennaio 2009
GIORNATA DELLA MEMORIA 2009
Non ho mai avuto molta simpatia per la Giornata della Memoria. Ora men che mai, vista l'ipertrofia di manifestazioni. Ho partecipato oggi a una sola di queste e nello stesso edificio universitario in cui si svolgeva, al piano superiore, a pochi metri di distanza, se ne svolgeva un'altra...
Pessimo. Non credo che questo sia un buon modo di combattere antisemitismo, razzismo e intolleranza. Ma di questi temi mi occupo in un lungo articolo sul Foglio che uscirà oggi.
Vorrei piuttosto parlare di ciò che rende particolarmente amara per me questa Giornata della Memoria 2009.
Si tratta della vicenda della revoca della scomunica alla fratellanza San Pio X, ovvero ai "lefebvriani", che ha riguardato anche il vescovo canadese Williamson, quel signore che ha dichiarato che non più di 200.000 ebrei, al massimo 300.000 sono morti nei campi di sterminio, nessuno dei quali nelle camere a gas, perché le camere a gas non sono mai esistite, ed ha anche aggiunto: «l'antisemitismo può essere cattivo solo quando è contro la verità. Ma se c'è qualcosa di vero non può essere cattivo».
Non ho nulla da obbiettare alle scelte della Chiesa circa le scomuniche e le revoche delle scomuniche. Sono fatti interni su cui non bisogna intervenire. Ma penso che su questo punto si sia espresso con chiarezza Giuliano Ferrara. Nessuno può ignorare che una simile riconciliazione avviene con una persona di quella fatta. E fosse lui soltanto!... Più di un membro di questa fratellanza ha espresso opinioni simili e l'altro ieri sera, al TG2, il rappresentante italiano intervistato, alla domanda se ritenesse che le camere a gas fossero mai esistite, invece di cogliere l'occasione per "ripulire" l'immagine della sua fratellanza, ha detto che lui non era uno storico e quindi non era in grado di pronunciarsi...
Pertanto mi ha ferito profondamente la dichiarazione vaticana che questa riconciliazione era un "dono di pace".
La morale è forse fatta a compartimenti stagni? Che senso ha criticare il relativismo morale se poi lo si pratica?
La dichiarazione del portavoce vaticano secondo cui quelle di Williamson sono opinioni personali, inaccettabili, ma che non c'entrano nulla, è un modo elegante di lavarsene le mani.
Giuliano Ferrara ha chiesto una presa di posizione netta e chiara da parte delle massime autorità della Chiesa.
È venuta una dichiarazione del cardinale Bagnasco, che si è limitato a definire le opinioni di Williamson "infondate" e "immotivate". Soltanto questo? Che avarizia verbale! Non si poteva dire: "indegne e incompatibili con la posizione ufficiale della Chiesa"? Sarebbe stata una dichiarazione capace di spazzare via ogni ombra. Invece, dopo quei due aggettivi striminziti, da storico che evita i pronunciamenti morali, è venuta persino un'aspra critica a chi in ambiente ebraico ha criticato...
Tutto ciò è molto triste e penoso.
Lo è in particolare per chi, come me, si è impegnato e si impegna senza risparmio nel dialogo ebraico-cristiano, credendoci fino in fondo. Tanto da prendere le difese del Papa quando fu ingiustamente attaccato e gli fu impedito di venire alla Sapienza, con un editoriale sull'Osservatore Romano; da esprimere dissenso dalle critiche sulla preghiera del Venerdì santo; da esprimere dissenso dalla decisione di sospendere l'incontro ebraico-cristiano di gennaio, al punto da attirarmi aspre critiche da parte di alcuni autorevoli rabbini e personalità del mondo ebraico italiano. E potrei continuare.
Non sto cercando di mettermi medaglie sul petto o di spendere crediti acquisiti - come direbbe Santoro. Sono scelte che rifarei domani.
Tanto più che non c'è alcun credito acquisito visto che ho anche ricevuto qualche messaggio di insulti da parte di qualche cattolico che ti vuol bene soltanto quando dici esattamente quel che piace a lui - molto poco cristiano.
È un mettere a dura prova chi ha assunto scelte del genere manifestare una simile insensibilità e una così scarsa generosità. È indebolire gli amici e rafforzare i nemici. A meno che non sia questo quel che si vuole.
Cosa si doveva fare? Per esempio, dichiarare il ritiro della scomunica esprimendo al contempo la più dura condanna di tutti coloro che avanzano posizioni negazioniste e riaffermando che esse non hanno posto nella Chiesa. Sarebbe bastato.
Basta la presa di posizione della Chiesa tedesca a indicare quel che si può e deve fare. Non solo il portavoce ha dichiarato che Williamson dovrà ritirare le sue affermazioni perché non appartengono all'insegnamento della Chiesa, ma ha definito "comprensibilissima" l'indignazione della comunità ebraica.
Invece dai vertici vaticani non si è ottenuto niente più che un paio di aggettivi stitici - "infondate" e "immotivate" - per giunta assortiti da una condanna della reazione ebraica.
Mi viene da ripensare ai morti della mia famiglia. Penso ad esempio a mio zio, Isaac Israel. Viveva a Parigi. Si rifugiò, durante l'occupazione tedesca in un'altra casa, ma una sera fu preso dall'incontenibile desiderio di fare un salto a casa sua a prelevare un po' di biancheria. Il portiere lo vide passare e telefonò immediatamente alla Gestapo. Il suo nome è sul sito del Yad Vashem. Nato a Salonicco il 2 settembre 1892. Deportato ad Auschwitz, con il trasporto ferroviario n. 46 partito da Drancy in data 9 febbraio 1943. La sua foto è nel sito dedicato a mio padre (http://giorgio.israel.googlepages.com/saulisrael): è seduto accanto a lui a sinistra.
Potrei raccontare altre storie così della mia famiglia. Di qualcuno non si è saputo più nulla, un'altra non è arrivata a destinazione perché si è gettata dalla finestra nel momento in cui è entrata in casa la Gestapo.
È molto triste ricordare queste persone nei giorni in cui è stato definito "dono di pace" riconciliarsi con dei negazionisti. Molto triste.
=========================
Giorni fa si è svolta a Parigi una manifestazione che ha raccolto in modo sconvolgente tutti gli elementi dell'antisemitismo di oggi.
L'IDENTIFICAZIONE DELLE VITTIME DI UN TEMPO CON I CARNEFICI DI OGGI
GLI EBREI COME NUOVI NAZISTI.
I PALESTINESI COME NUOVI EBREI.
SI E' SFILATO ADDIRITTURA CON I MISSILI QASSAM IN SPALLA.
Di questo nuovo, attuale e devastante antisemitismo bisognerebbe parlare nella Giornata della Memoria.
Pessimo. Non credo che questo sia un buon modo di combattere antisemitismo, razzismo e intolleranza. Ma di questi temi mi occupo in un lungo articolo sul Foglio che uscirà oggi.
Vorrei piuttosto parlare di ciò che rende particolarmente amara per me questa Giornata della Memoria 2009.
Si tratta della vicenda della revoca della scomunica alla fratellanza San Pio X, ovvero ai "lefebvriani", che ha riguardato anche il vescovo canadese Williamson, quel signore che ha dichiarato che non più di 200.000 ebrei, al massimo 300.000 sono morti nei campi di sterminio, nessuno dei quali nelle camere a gas, perché le camere a gas non sono mai esistite, ed ha anche aggiunto: «l'antisemitismo può essere cattivo solo quando è contro la verità. Ma se c'è qualcosa di vero non può essere cattivo».
Non ho nulla da obbiettare alle scelte della Chiesa circa le scomuniche e le revoche delle scomuniche. Sono fatti interni su cui non bisogna intervenire. Ma penso che su questo punto si sia espresso con chiarezza Giuliano Ferrara. Nessuno può ignorare che una simile riconciliazione avviene con una persona di quella fatta. E fosse lui soltanto!... Più di un membro di questa fratellanza ha espresso opinioni simili e l'altro ieri sera, al TG2, il rappresentante italiano intervistato, alla domanda se ritenesse che le camere a gas fossero mai esistite, invece di cogliere l'occasione per "ripulire" l'immagine della sua fratellanza, ha detto che lui non era uno storico e quindi non era in grado di pronunciarsi...
Pertanto mi ha ferito profondamente la dichiarazione vaticana che questa riconciliazione era un "dono di pace".
La morale è forse fatta a compartimenti stagni? Che senso ha criticare il relativismo morale se poi lo si pratica?
La dichiarazione del portavoce vaticano secondo cui quelle di Williamson sono opinioni personali, inaccettabili, ma che non c'entrano nulla, è un modo elegante di lavarsene le mani.
Giuliano Ferrara ha chiesto una presa di posizione netta e chiara da parte delle massime autorità della Chiesa.
È venuta una dichiarazione del cardinale Bagnasco, che si è limitato a definire le opinioni di Williamson "infondate" e "immotivate". Soltanto questo? Che avarizia verbale! Non si poteva dire: "indegne e incompatibili con la posizione ufficiale della Chiesa"? Sarebbe stata una dichiarazione capace di spazzare via ogni ombra. Invece, dopo quei due aggettivi striminziti, da storico che evita i pronunciamenti morali, è venuta persino un'aspra critica a chi in ambiente ebraico ha criticato...
Tutto ciò è molto triste e penoso.
Lo è in particolare per chi, come me, si è impegnato e si impegna senza risparmio nel dialogo ebraico-cristiano, credendoci fino in fondo. Tanto da prendere le difese del Papa quando fu ingiustamente attaccato e gli fu impedito di venire alla Sapienza, con un editoriale sull'Osservatore Romano; da esprimere dissenso dalle critiche sulla preghiera del Venerdì santo; da esprimere dissenso dalla decisione di sospendere l'incontro ebraico-cristiano di gennaio, al punto da attirarmi aspre critiche da parte di alcuni autorevoli rabbini e personalità del mondo ebraico italiano. E potrei continuare.
Non sto cercando di mettermi medaglie sul petto o di spendere crediti acquisiti - come direbbe Santoro. Sono scelte che rifarei domani.
Tanto più che non c'è alcun credito acquisito visto che ho anche ricevuto qualche messaggio di insulti da parte di qualche cattolico che ti vuol bene soltanto quando dici esattamente quel che piace a lui - molto poco cristiano.
È un mettere a dura prova chi ha assunto scelte del genere manifestare una simile insensibilità e una così scarsa generosità. È indebolire gli amici e rafforzare i nemici. A meno che non sia questo quel che si vuole.
Cosa si doveva fare? Per esempio, dichiarare il ritiro della scomunica esprimendo al contempo la più dura condanna di tutti coloro che avanzano posizioni negazioniste e riaffermando che esse non hanno posto nella Chiesa. Sarebbe bastato.
Basta la presa di posizione della Chiesa tedesca a indicare quel che si può e deve fare. Non solo il portavoce ha dichiarato che Williamson dovrà ritirare le sue affermazioni perché non appartengono all'insegnamento della Chiesa, ma ha definito "comprensibilissima" l'indignazione della comunità ebraica.
Invece dai vertici vaticani non si è ottenuto niente più che un paio di aggettivi stitici - "infondate" e "immotivate" - per giunta assortiti da una condanna della reazione ebraica.
Mi viene da ripensare ai morti della mia famiglia. Penso ad esempio a mio zio, Isaac Israel. Viveva a Parigi. Si rifugiò, durante l'occupazione tedesca in un'altra casa, ma una sera fu preso dall'incontenibile desiderio di fare un salto a casa sua a prelevare un po' di biancheria. Il portiere lo vide passare e telefonò immediatamente alla Gestapo. Il suo nome è sul sito del Yad Vashem. Nato a Salonicco il 2 settembre 1892. Deportato ad Auschwitz, con il trasporto ferroviario n. 46 partito da Drancy in data 9 febbraio 1943. La sua foto è nel sito dedicato a mio padre (http://giorgio.israel.googlepages.com/saulisrael): è seduto accanto a lui a sinistra.
Potrei raccontare altre storie così della mia famiglia. Di qualcuno non si è saputo più nulla, un'altra non è arrivata a destinazione perché si è gettata dalla finestra nel momento in cui è entrata in casa la Gestapo.
È molto triste ricordare queste persone nei giorni in cui è stato definito "dono di pace" riconciliarsi con dei negazionisti. Molto triste.
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Giorni fa si è svolta a Parigi una manifestazione che ha raccolto in modo sconvolgente tutti gli elementi dell'antisemitismo di oggi.
L'IDENTIFICAZIONE DELLE VITTIME DI UN TEMPO CON I CARNEFICI DI OGGI
GLI EBREI COME NUOVI NAZISTI.
I PALESTINESI COME NUOVI EBREI.
SI E' SFILATO ADDIRITTURA CON I MISSILI QASSAM IN SPALLA.
Di questo nuovo, attuale e devastante antisemitismo bisognerebbe parlare nella Giornata della Memoria.
domenica 25 gennaio 2009
Il vicino ti spara in casa? Sta’ buono. È soltanto per creare insicurezza
Chi voglia trovare in Israele (o nel mondo ebraico) voci di dissenso nei confronti della politica del governo israeliano non deve faticare. E la nostra stampa è generosa nell’offrire spazio a queste voci “democratiche” e a queste soltanto. È invece disperata la ricerca di voci di musulmani moderati. Non che non ve ne siano, ma bisogna cercarle col lanternino e la stampa nostrana fa di tutto per dare spazio alle altre, quelle aspramente anti-israeliane, per giunta presentandole come “moderate”. Parlano tutti come Tariq Ramadan. Fanno uno sforzo disperato per apparire dialoganti e imbevuti dello spirito della democrazia occidentale, ma poi traspare da tutti i pori che di questo spirito non hanno trattenuto neppure un grammo.
Prendiamo il caso di Tahar ben Jelloun, indicato come una delle personalità musulmane più aperte. In un articolo pubblicato su La Repubblica sapete come definisce i missili Qassam lanciati da Gaza su Israele? «Razzi lanciati per creare insicurezza»… Mi affaccio alla finestra e sparo una revolverata sulla casa del vicino. È tentato omicidio? Ma, per carità, signor giudice, è soltanto un innocuo tentativo di creare insicurezza… Ho sparato migliaia di volte? E che vuole, l’insicurezza va alimentata, altrimenti si spegne. E badi, signor giudice, che il vicino, dopo settemila revolverate, ha deciso di bombardarmi il balcone. Le pare normale? «Vivere nel timore dell’arrivo di un razzo non può giustificare una risposta così mortifera. Non è più legittima difesa, ma assassinio di massa deliberato». Insomma, in galera ci vada il vicino.
Come doveva essere la risposta, ammesso che ci dovesse essere? Proporzionale, è il mantra universale. Insomma, gli israeliani avrebbero dovuto munirsi di Qassam e, per ogni Qassam ricevuto, spedirne uno di ritorno su Gaza: questa sarebbe stata una risposta ineccepibilmente proporzionale. Probabilmente, data la densità abitativa, sarebbe morta almeno una persona a lancio, almeno 7000 morti. In tal caso si sarebbe detto che gli israeliani, secondo tradizione, si rifanno all’orrida legge del taglione.
Cosa pretende Israele – continua ben Jelloun – con questi crimini contro civili: l’abdicazione della resistenza? Già, perché quelli che lanciano missili fanno soltanto “resistenza”, e si limitano a creare “insicurezza”. Resistenza a cosa non è dato sapere, visto che Israele da Gaza si è ritirato in toto dal 2005. L’unica spiegazione possibile è che sia la resistenza alla presenza di Israele in quanto tale. Va riconosciuto però che ben Jelloun afferma che Hamas deve riconoscere Israele «in pegno di buona volontà». Ma, aggiunge prontamente, fino a che Israele «pratica la punizione collettiva» non vi è alcuna speranza di pace. È Israele che deve fermarsi, stare in penitenza per un tempo indefinito a mostrare di saper sopportare «l’insicurezza», che deve «riconoscere Hamas e negoziare con essa» e non soltanto con Mahmoud Abbas «un pover’uomo che ha perso la sua credibilità». Ma questo «pover’uomo» non è forse stato estromesso dal controllo politico di Gaza con un colpo di stato sanguinoso? Fatevi gli affari vostri: la democrazia è una questione privata.
Questo slogan della «punizione collettiva» è divenuto anch’esso un mantra. D’Alema l’ha giustificato con l’argomento che un conflitto «in cui muoiono 900 persone da una parte e 10 dall’altra non è una guerra». Gli ha ricordato Andrea Marcenaro che lui ha condotto un «conflitto» in cui sono morti almeno 500 civili e migliaia di militari da una parte e nessuno dall’altra. Soffre di carenza di fosforo il più intelligente di tutti? La questione è aperta.
(Tempi, 22 gennaio 2009)
Per chi vuol leggere la versione integrale dello Statuto di Hamas:
http://gisr.articles.googlepages.com/documenti
Prendiamo il caso di Tahar ben Jelloun, indicato come una delle personalità musulmane più aperte. In un articolo pubblicato su La Repubblica sapete come definisce i missili Qassam lanciati da Gaza su Israele? «Razzi lanciati per creare insicurezza»… Mi affaccio alla finestra e sparo una revolverata sulla casa del vicino. È tentato omicidio? Ma, per carità, signor giudice, è soltanto un innocuo tentativo di creare insicurezza… Ho sparato migliaia di volte? E che vuole, l’insicurezza va alimentata, altrimenti si spegne. E badi, signor giudice, che il vicino, dopo settemila revolverate, ha deciso di bombardarmi il balcone. Le pare normale? «Vivere nel timore dell’arrivo di un razzo non può giustificare una risposta così mortifera. Non è più legittima difesa, ma assassinio di massa deliberato». Insomma, in galera ci vada il vicino.
Come doveva essere la risposta, ammesso che ci dovesse essere? Proporzionale, è il mantra universale. Insomma, gli israeliani avrebbero dovuto munirsi di Qassam e, per ogni Qassam ricevuto, spedirne uno di ritorno su Gaza: questa sarebbe stata una risposta ineccepibilmente proporzionale. Probabilmente, data la densità abitativa, sarebbe morta almeno una persona a lancio, almeno 7000 morti. In tal caso si sarebbe detto che gli israeliani, secondo tradizione, si rifanno all’orrida legge del taglione.
Cosa pretende Israele – continua ben Jelloun – con questi crimini contro civili: l’abdicazione della resistenza? Già, perché quelli che lanciano missili fanno soltanto “resistenza”, e si limitano a creare “insicurezza”. Resistenza a cosa non è dato sapere, visto che Israele da Gaza si è ritirato in toto dal 2005. L’unica spiegazione possibile è che sia la resistenza alla presenza di Israele in quanto tale. Va riconosciuto però che ben Jelloun afferma che Hamas deve riconoscere Israele «in pegno di buona volontà». Ma, aggiunge prontamente, fino a che Israele «pratica la punizione collettiva» non vi è alcuna speranza di pace. È Israele che deve fermarsi, stare in penitenza per un tempo indefinito a mostrare di saper sopportare «l’insicurezza», che deve «riconoscere Hamas e negoziare con essa» e non soltanto con Mahmoud Abbas «un pover’uomo che ha perso la sua credibilità». Ma questo «pover’uomo» non è forse stato estromesso dal controllo politico di Gaza con un colpo di stato sanguinoso? Fatevi gli affari vostri: la democrazia è una questione privata.
Questo slogan della «punizione collettiva» è divenuto anch’esso un mantra. D’Alema l’ha giustificato con l’argomento che un conflitto «in cui muoiono 900 persone da una parte e 10 dall’altra non è una guerra». Gli ha ricordato Andrea Marcenaro che lui ha condotto un «conflitto» in cui sono morti almeno 500 civili e migliaia di militari da una parte e nessuno dall’altra. Soffre di carenza di fosforo il più intelligente di tutti? La questione è aperta.
(Tempi, 22 gennaio 2009)
Per chi vuol leggere la versione integrale dello Statuto di Hamas:
http://gisr.articles.googlepages.com/documenti
CONTINUIAMO CON REGOLE NUOVE
Avevo detto che non avrei risposto ai commenti al post precedente - quello che ipotizzava la chiusura del blog - e mantengo strettamente la parola.
Questo non vuol dire che la lettura dei commenti non sia stata interessante e istruttiva. Al contrario. Oltre a confermare in pieno quanto ho scritto nel post precedente - e di cui non cambio una sola virgola - mi ha aiutato a scegliere una delle tre soluzioni possibili (chiudere, bloccare i commenti, selezionarli molto rigidamente). Non si creda che avessi già deciso a priori cosa fare - e se qualcuno lo crede, pazienza.
Decido di non chiudere, come quasi tutti hanno chiesto. Tuttavia mi pare eccessivo bloccare del tutto i commenti. Se si scorrono i commenti inviati fin qui ce ne sono diversi interessanti e si sono verificate discussioni utili. Non vedo perché censurarle. Ricominciamo piuttosto così: la moderazione dei commenti sarà molto selettiva. Non è poi un gran lavoro: si vede subito se un commento è stato sparato a casaccio o è frutto di una riflessione.
Avrei potuto farlo subito? Proprio questo è il problema. Visto che subivo proteste persino per un ritardo, figuriamoci se cominciavo a selezionare senza fissare un criterio... Avrei dovuto affrontare una valanga di spiegazioni. Ci vuole una cesura netta dopo di che non c'è nulla di cui rendere conto.
Quindi d'ora in poi questo è un blog dove si possono inviare commenti ma sapendo che compariranno soltanto quelli che reputo interessanti a insindacabile mio giudizio. Secondo criteri "meritocratici", tanto per essere coerenti con uno slogan sollevato in ambito scolastico. E chi non è d'accordo può sempre aprirsi un blog per conto suo (Petrolini docet).
giovedì 22 gennaio 2009
L'ESPERIENZA DI QUESTO BLOG SI E' CONCLUSA
1. - In verità, molti amici me l'avevano predetto: vedrai che finisce male. Avevano ragione. Spuntano fuori tutti i pregi e i difetti della rete. I pregi sono l'opportunità di scrivere liberamente i propri pensieri e di entrare a contatto con persone interessanti, ospitare osservazioni e discussioni intelligenti, anche critiche e polemiche. I difetti sono dovuti alla possibilità di esercitare liberamente e senza ritegno i peggiori vizi. Quali? Non si tratta tanto degli insulti o delle villanate. Quelle sono cose fisiologiche: cestini subito e buonanotte. Si tratta di altro:
2. - In rete viene spontaneo a certe persone di fare quello che si vergognerebbero come ladri di fare nei rapporti comuni: sparare sentenze apodittiche, che magari mettono la parola finale su questioni epocali, con una sicumera pari all'ignoranza assoluta che hanno in materia. Scrivi qualcosa su un argomento. La legge uno che non se ne è mai occupato, ci fa una pensatina di qualche minuto, magari va a "informarsi" con un giretto su Google, e poi cassa la questione trattandoti anche da imbecille con una prosopopea talora coperta dal nickname. Sapete che significa scrivere un libro? Ti fai il sedere piatto su una sedia per mesi, e quando ti alzi, ogni tanto, è per andare a prendere un libro e consultarlo. Una fatica immane, se fai la cosa seriamente. Poi - certo - quel che hai scritto non è per questo oro colato, può essere anche un cumulo di cose sbagliate. Ma, se hai lavorato seriamente e coscienziosamente, il minimo che puoi pretendere è che chi ti legge ti prenda sul serio e si fermi a pensare e a studiare un bel po' prima di sparare sentenze.
3. - Ma, si dirà, non bisogna prendersela troppo. Basta cestinare chi fa così. Ebbene, non è una questione di sensibilità da mammolette. È che in questi comportamenti emerge l'aspetto diseducativo della rete. Uno studente dei miei corsi non si permetterebbe mai un atteggiamento del genere. Non che non debba parlare. Al contrario! Ma deve farlo, con umiltà, modestia e mettendoci dentro tanto impegno. Deve sapere di avere di fronte una persona che ha studiato per qualche decennio le cose di cui si parla. Quindi, non può mettersi a discorrerne da pari a pari. Potrebbe anche non essere d'accordo con quel che sente e avere anche ragione ma deve sudare le sette proverbiali camicie per ottenere questa ragione - come le ha sudate chi gli sta davanti - partendo dalla consapevolezza che ne sa di meno. Capite perché detesto e trovo una cosa da autentici imbecilli il "cooperative learning" e l'"autoapprendimento"? Perché la molla del progresso nella conoscenza è la modestia e il senso dei propri limiti e non la presunzione pigra e villana di poter sparare quel che viene in mente come se avesse pari dignità rispetto a quel che è stato acquisito con studio e riflessione. E questo vale a qualsiasi età. Non è serio che mi metta a pontificare di ingegneria delle costruzioni con uno specialista, da pari a pari. Se ho lavorato per un trentennio sui rapporti tra matematica e scienze non fisiche non posso sopportare che venga uno che non ci ha mai pensato un minuto a pontificare le quattro ideuzze che gli sono spuntate in mente davanti allo schermo. Questo vale - come esempio - per molti interventi fatti qui sul tema della valutazione e per la presunzione con cui ho visto asserire che la quantificazione delle qualità si può certamente fare. Prima occorre studiare seriamente la questione e poi si avrà il diritto di metter becco. Altrimenti, leggi, apprendi e taci. Consiglio a tutti la lettura dell'Arte di ascoltare di Plutarco.
4. - C'è un termometro infallibile dello sfacelo di un sistema educativo o di istruzione. Quando gli studenti adottano i comportamenti sopra descritti. Per esempio, questo era tipico nelle SSIS. L'ho visto raramente nelle università, mentre in molte scuole secondarie accade, anche per colpa di certi docenti che si mettono a fare gli "amichetti" degli studenti. Lo ritengo un fenomeno devastante, è la premessa per il trionfo dell'ignoranza, della pigrizia e della volgarità.
5. - E allora... In questo blog ci siamo occupati tanto di educazione, istruzione, scuola. Vogliamo farne un'altra scuola di diseducazione, vogliamo che diventi un ulteriore piccolo contributo allo sfacelo educativo? Parliamo di rigore e merito e poi ci mettiamo a fare i cialtroni nel discutere in rete? Non se ne parla.
6. - Poi ci sono i comportamenti connessi alla mentalità sopra descritta o comportamenti accessori. Per esempio, con la stessa supponente pigrizia con cui si sparano sentenze, si spediscono raffiche di commenti, talora lunghissimi e si pretende che il proprietario del blog li metta in rete subito, come se fosse un semplice gestore tecnico di un gruppo di discussione. Qualcuno protesta pure se non si vede in rete subito (magari ti manda pure messaggi sull'indirizzo privato), oppure lamenta che un messaggio si sia perso, o chiede che venga tolto questo o messo quello. In realtà, qui ci sono altre motivazioni: altre miserie della rete. Quando apri un blog, come ho fatto parecchio tempo fa, hai pochi contatti al giorno, poi se interessa crescono. Oggi questo blog ha diverse centinaia di contatti al giorno. Non è molto, ma è un discreto pubblico. Posso anche capire che sia un'opportunità farsi leggere da qualcuno in più dei soliti amici. Ma bisognerebbe approfittarne con discrezione ed educazione, senza pretendere. Altrimenti, è come se una persona ti suonasse il campanello di casa: apri e con alcuni altri si installa nel tuo salotto, si mette a chiacchierare con gli altri di quel che gli pare, anche di cose di cui non ti importa un fico secco, e si lamenta pure se non gli porti un drink con un buon vassoio di patatine. A questo punto, che quei signori se ne vadano nel salotto di casa loro, ovvero nel proprio blog... Se non l'hanno o non è molto frequentato, non so che farci. Si può provare a cercare di interessare il prossimo. Se non funziona, sarà una lezione di vita. Invece di prendersela con chi non ti fa da servitore, uno se la prenderà con se stesso e con i propri limiti.
IN CONCLUSIONE.
GRAZIE DELL'ESPERIENZA. È STATO TUTTO MOLTO ISTRUTTIVO ED EDUCATIVO PER ME.
HO CAPITO MOLTE COSE.
QUESTA ESPERIENZA È CHIUSA.
SI TRATTA SOLTANTO DI DECIDERE SE: 1) CHIUDERE IL BLOG E BUONANOTTE; 2) CONTINUARLO (O APRIRNE UN ALTRO) CON REGOLE COMPLETAMENTE DIVERSE.
MI DO UN PO' DI GIORNI PER DECIDERE.
Frattanto chi vuol inviare commenti a questo post conclusivo può farlo. Di certo, non risponderò anche se verranno dette le cose più tremende circa quanto precede.
2. - In rete viene spontaneo a certe persone di fare quello che si vergognerebbero come ladri di fare nei rapporti comuni: sparare sentenze apodittiche, che magari mettono la parola finale su questioni epocali, con una sicumera pari all'ignoranza assoluta che hanno in materia. Scrivi qualcosa su un argomento. La legge uno che non se ne è mai occupato, ci fa una pensatina di qualche minuto, magari va a "informarsi" con un giretto su Google, e poi cassa la questione trattandoti anche da imbecille con una prosopopea talora coperta dal nickname. Sapete che significa scrivere un libro? Ti fai il sedere piatto su una sedia per mesi, e quando ti alzi, ogni tanto, è per andare a prendere un libro e consultarlo. Una fatica immane, se fai la cosa seriamente. Poi - certo - quel che hai scritto non è per questo oro colato, può essere anche un cumulo di cose sbagliate. Ma, se hai lavorato seriamente e coscienziosamente, il minimo che puoi pretendere è che chi ti legge ti prenda sul serio e si fermi a pensare e a studiare un bel po' prima di sparare sentenze.
3. - Ma, si dirà, non bisogna prendersela troppo. Basta cestinare chi fa così. Ebbene, non è una questione di sensibilità da mammolette. È che in questi comportamenti emerge l'aspetto diseducativo della rete. Uno studente dei miei corsi non si permetterebbe mai un atteggiamento del genere. Non che non debba parlare. Al contrario! Ma deve farlo, con umiltà, modestia e mettendoci dentro tanto impegno. Deve sapere di avere di fronte una persona che ha studiato per qualche decennio le cose di cui si parla. Quindi, non può mettersi a discorrerne da pari a pari. Potrebbe anche non essere d'accordo con quel che sente e avere anche ragione ma deve sudare le sette proverbiali camicie per ottenere questa ragione - come le ha sudate chi gli sta davanti - partendo dalla consapevolezza che ne sa di meno. Capite perché detesto e trovo una cosa da autentici imbecilli il "cooperative learning" e l'"autoapprendimento"? Perché la molla del progresso nella conoscenza è la modestia e il senso dei propri limiti e non la presunzione pigra e villana di poter sparare quel che viene in mente come se avesse pari dignità rispetto a quel che è stato acquisito con studio e riflessione. E questo vale a qualsiasi età. Non è serio che mi metta a pontificare di ingegneria delle costruzioni con uno specialista, da pari a pari. Se ho lavorato per un trentennio sui rapporti tra matematica e scienze non fisiche non posso sopportare che venga uno che non ci ha mai pensato un minuto a pontificare le quattro ideuzze che gli sono spuntate in mente davanti allo schermo. Questo vale - come esempio - per molti interventi fatti qui sul tema della valutazione e per la presunzione con cui ho visto asserire che la quantificazione delle qualità si può certamente fare. Prima occorre studiare seriamente la questione e poi si avrà il diritto di metter becco. Altrimenti, leggi, apprendi e taci. Consiglio a tutti la lettura dell'Arte di ascoltare di Plutarco.
4. - C'è un termometro infallibile dello sfacelo di un sistema educativo o di istruzione. Quando gli studenti adottano i comportamenti sopra descritti. Per esempio, questo era tipico nelle SSIS. L'ho visto raramente nelle università, mentre in molte scuole secondarie accade, anche per colpa di certi docenti che si mettono a fare gli "amichetti" degli studenti. Lo ritengo un fenomeno devastante, è la premessa per il trionfo dell'ignoranza, della pigrizia e della volgarità.
5. - E allora... In questo blog ci siamo occupati tanto di educazione, istruzione, scuola. Vogliamo farne un'altra scuola di diseducazione, vogliamo che diventi un ulteriore piccolo contributo allo sfacelo educativo? Parliamo di rigore e merito e poi ci mettiamo a fare i cialtroni nel discutere in rete? Non se ne parla.
6. - Poi ci sono i comportamenti connessi alla mentalità sopra descritta o comportamenti accessori. Per esempio, con la stessa supponente pigrizia con cui si sparano sentenze, si spediscono raffiche di commenti, talora lunghissimi e si pretende che il proprietario del blog li metta in rete subito, come se fosse un semplice gestore tecnico di un gruppo di discussione. Qualcuno protesta pure se non si vede in rete subito (magari ti manda pure messaggi sull'indirizzo privato), oppure lamenta che un messaggio si sia perso, o chiede che venga tolto questo o messo quello. In realtà, qui ci sono altre motivazioni: altre miserie della rete. Quando apri un blog, come ho fatto parecchio tempo fa, hai pochi contatti al giorno, poi se interessa crescono. Oggi questo blog ha diverse centinaia di contatti al giorno. Non è molto, ma è un discreto pubblico. Posso anche capire che sia un'opportunità farsi leggere da qualcuno in più dei soliti amici. Ma bisognerebbe approfittarne con discrezione ed educazione, senza pretendere. Altrimenti, è come se una persona ti suonasse il campanello di casa: apri e con alcuni altri si installa nel tuo salotto, si mette a chiacchierare con gli altri di quel che gli pare, anche di cose di cui non ti importa un fico secco, e si lamenta pure se non gli porti un drink con un buon vassoio di patatine. A questo punto, che quei signori se ne vadano nel salotto di casa loro, ovvero nel proprio blog... Se non l'hanno o non è molto frequentato, non so che farci. Si può provare a cercare di interessare il prossimo. Se non funziona, sarà una lezione di vita. Invece di prendersela con chi non ti fa da servitore, uno se la prenderà con se stesso e con i propri limiti.
IN CONCLUSIONE.
GRAZIE DELL'ESPERIENZA. È STATO TUTTO MOLTO ISTRUTTIVO ED EDUCATIVO PER ME.
HO CAPITO MOLTE COSE.
QUESTA ESPERIENZA È CHIUSA.
SI TRATTA SOLTANTO DI DECIDERE SE: 1) CHIUDERE IL BLOG E BUONANOTTE; 2) CONTINUARLO (O APRIRNE UN ALTRO) CON REGOLE COMPLETAMENTE DIVERSE.
MI DO UN PO' DI GIORNI PER DECIDERE.
Frattanto chi vuol inviare commenti a questo post conclusivo può farlo. Di certo, non risponderò anche se verranno dette le cose più tremende circa quanto precede.
sabato 17 gennaio 2009
Neusner difende la fratellanza giudeocristiana ristabilita da Ratzinger
Parla il rabbino amico di Benedetto XVI, e conferma la tesi di Israel
Neusner difende la fratellanza giudeocristiana ristabilita da Ratzinger
New York. Il rabbino americano Jacob Neusner non ha mai avuto paura di dire quello che pensa, anche quando risulta una voce isolata, fuori e dentro il mondo ebraico. E’ la franchezza con cui si è lanciato nella sua scommessa personale di far dialogare le religioni monoteiste che ha toccato l’allora cardinale Ratzinger quando gli capitò tra le mani, nel 1993, il saggio “A Rabbi talks with Jesus” e che lo ha spinto, una volta eletto Papa, a scrivere il libro su “Gesù di Nazaret” intessendo un dialogo aperto e rispettoso con l’anziano rabbino che poi è passato dalla scrittura all’incontro personale lo scorso aprile durante la visita americana del Pontefice (un incontro in cui il Papa tedesco e il rabbino ebreo hanno parlato, come vecchi amici, per lo più in italiano). Secondo Giorgio Israel (sul Foglio di ieri) scorre proprio sulla falsariga di questo rapporto la via possibile per un dialogo tra giudaismo e cristianesimo, perché Neusner ha colto, secondo Israel, la vicinanza e l’affetto intelligente con cui Benedetto XVI ha instaurato le relazioni tra ebrei e cattolici. Un dialogo che secondo Neusner, da una parte è praticamente impossibile, dall’altra, paradossalmente, si deve ampliare, per includere anche l’islam.
“Il dialogo deve diventare un “trialogo”, cosa che comunque non è naturale per i monoteismi”, spiega al Foglio Jacob Neusner. “La logica interna al monoteismo non genera tolleranza. C’è un solo Dio e c’è una sola verità, questo è il punto di partenza. Quindi le religioni non possono intraprendere dialoghi che mirino a negoziare la verità. La verità trascende la politica. Ciò a cui il Papa sta mirando, così sembra a me, è una teologia cattolica del giudaismo, una teologia che possa dispiegare dalle fonti del cristianesimo l’integrità del giudaismo. Questa stessa ricerca di una teologia cattolica del giudaismo provoca la formulazione di una teologia giudaica del cristianesimo, una teologia che attinga alle fonti della Torah di Mosè. Il futuro del dialogo giudeocristiano ora però porta all’inclusione dell’islam. E’ giusto in questo senso l’affermazione dell’allora cardinale Ratzinger che nel 2000 disse “la fede degli ebrei non è un’altra religione, ma il fondamento della nostra fede”, e io aggiungo che i tre monoteismi portano una relazione unica tra di loro, incomparabile con tutte le altre religioni”.
C’è chi però nel mondo ebraico ha criticato i recenti passi del Vaticano, sia dal punto di vista religioso-liturgico sia dal punto di vista politico. In questo senso, relativamente alla crisi della Striscia di Gaza, si è espresso Robert Wistrich, direttore del Vidal Sassoon International Center di Gerusalemme, accusando duramente il Vaticano di reticenza e di silenzio, un silenzio forse motivato dalla paura ma che non fa onore alla chiesa cattolica che dovrebbe appoggiare moralmente Israele. Ma secondo Neusner non è quello il compito della chiesa:
“Hamas è un nemico della pace, ha rifiutato la tregua e i suoi lanci di missili hanno fatto precipitare la guerra. Ma dato che la pace è l’obiettivo, il contributo del Vaticano si realizza al meglio attraverso la difesa della pace. Le pressioni su Hamas per far desistere i suoi attacchi di guerra possono prendere più di una forma. Tutti comprendono che quando Hamas desisterà dagli attacchi sulle città israeliane, la guerra finirà”.
Ancora più netto è rispetto alle critiche di chi, come il rabbino di Venezia Elia Enrico Richetti, ha accusato il Papa attuale di procedere alla “cancellazione degli ultimi 50 anni di storia della chiesa”, riferendosi soprattutto agli aspetti liturgici come la liberalizzazione dei riti tradizionali in latino.
“Non sono d’accordo”, dice subito Neusner, “il cammino dell’ultimo mezzo secolo è irreversibile. Papa Benedetto XVI ha riaffermato in molti modi la sua amicizia con il popolo ebreo e il suo rispetto per il giudaismo. Ha ripreso la tradizione di Giovanni XXIII, Paolo VI e Giovanni Paolo. La sua visita negli Stati Uniti ha sottolineato la sua affermazione delle relazioni fraterne che legano giudaismo e cristianesimo. Le sinagoghe statunitensi e i rabbini hanno risposto alla sua benedizione con una loro propria benedizione”.
Si avverte nelle parole del rabbino una profonda fiducia ispirata dal dialogo personale intrapreso con il Papa teologo per cui si dice totalmente d’accordo con Giorgio Israel quando afferma che “la memoria è fondamentale ma deve essere bene usata. Il modo migliore di sviluppare i rapporti tra ebraismo e cristianesimo è di rivolgere lo sguardo al futuro. Va riconosciuto al cardinale Ratzinger di aver compreso questa necessità, di aver tentato di superare i limiti del dialogo dei primi decenni”. Insomma, è proprio grazie a uomini come Benedetto XVI che il dialogo giudaicocristiano ancora vive; quel dialogo, dice Neusner, “che la chiesa cattolica nella seconda metà del XX secolo ha inaugurato e che è stato riaffermato nella risposta che con cuore puro il Papa ha dato nel suo libro alla mia conversazione immaginaria inserita nel mio vecchio libro di oltre 15 anni fa. Questa impresa di riavvicinamento è opera di Dio, e andrà avanti. Il che non significa che non ci saranno rallentamenti. Ma la direzione che hanno preso le cose ormai è chiara”.
Andrea Monda
(Il Foglio 17 gennaio 2009)
Neusner difende la fratellanza giudeocristiana ristabilita da Ratzinger
New York. Il rabbino americano Jacob Neusner non ha mai avuto paura di dire quello che pensa, anche quando risulta una voce isolata, fuori e dentro il mondo ebraico. E’ la franchezza con cui si è lanciato nella sua scommessa personale di far dialogare le religioni monoteiste che ha toccato l’allora cardinale Ratzinger quando gli capitò tra le mani, nel 1993, il saggio “A Rabbi talks with Jesus” e che lo ha spinto, una volta eletto Papa, a scrivere il libro su “Gesù di Nazaret” intessendo un dialogo aperto e rispettoso con l’anziano rabbino che poi è passato dalla scrittura all’incontro personale lo scorso aprile durante la visita americana del Pontefice (un incontro in cui il Papa tedesco e il rabbino ebreo hanno parlato, come vecchi amici, per lo più in italiano). Secondo Giorgio Israel (sul Foglio di ieri) scorre proprio sulla falsariga di questo rapporto la via possibile per un dialogo tra giudaismo e cristianesimo, perché Neusner ha colto, secondo Israel, la vicinanza e l’affetto intelligente con cui Benedetto XVI ha instaurato le relazioni tra ebrei e cattolici. Un dialogo che secondo Neusner, da una parte è praticamente impossibile, dall’altra, paradossalmente, si deve ampliare, per includere anche l’islam.
“Il dialogo deve diventare un “trialogo”, cosa che comunque non è naturale per i monoteismi”, spiega al Foglio Jacob Neusner. “La logica interna al monoteismo non genera tolleranza. C’è un solo Dio e c’è una sola verità, questo è il punto di partenza. Quindi le religioni non possono intraprendere dialoghi che mirino a negoziare la verità. La verità trascende la politica. Ciò a cui il Papa sta mirando, così sembra a me, è una teologia cattolica del giudaismo, una teologia che possa dispiegare dalle fonti del cristianesimo l’integrità del giudaismo. Questa stessa ricerca di una teologia cattolica del giudaismo provoca la formulazione di una teologia giudaica del cristianesimo, una teologia che attinga alle fonti della Torah di Mosè. Il futuro del dialogo giudeocristiano ora però porta all’inclusione dell’islam. E’ giusto in questo senso l’affermazione dell’allora cardinale Ratzinger che nel 2000 disse “la fede degli ebrei non è un’altra religione, ma il fondamento della nostra fede”, e io aggiungo che i tre monoteismi portano una relazione unica tra di loro, incomparabile con tutte le altre religioni”.
C’è chi però nel mondo ebraico ha criticato i recenti passi del Vaticano, sia dal punto di vista religioso-liturgico sia dal punto di vista politico. In questo senso, relativamente alla crisi della Striscia di Gaza, si è espresso Robert Wistrich, direttore del Vidal Sassoon International Center di Gerusalemme, accusando duramente il Vaticano di reticenza e di silenzio, un silenzio forse motivato dalla paura ma che non fa onore alla chiesa cattolica che dovrebbe appoggiare moralmente Israele. Ma secondo Neusner non è quello il compito della chiesa:
“Hamas è un nemico della pace, ha rifiutato la tregua e i suoi lanci di missili hanno fatto precipitare la guerra. Ma dato che la pace è l’obiettivo, il contributo del Vaticano si realizza al meglio attraverso la difesa della pace. Le pressioni su Hamas per far desistere i suoi attacchi di guerra possono prendere più di una forma. Tutti comprendono che quando Hamas desisterà dagli attacchi sulle città israeliane, la guerra finirà”.
Ancora più netto è rispetto alle critiche di chi, come il rabbino di Venezia Elia Enrico Richetti, ha accusato il Papa attuale di procedere alla “cancellazione degli ultimi 50 anni di storia della chiesa”, riferendosi soprattutto agli aspetti liturgici come la liberalizzazione dei riti tradizionali in latino.
“Non sono d’accordo”, dice subito Neusner, “il cammino dell’ultimo mezzo secolo è irreversibile. Papa Benedetto XVI ha riaffermato in molti modi la sua amicizia con il popolo ebreo e il suo rispetto per il giudaismo. Ha ripreso la tradizione di Giovanni XXIII, Paolo VI e Giovanni Paolo. La sua visita negli Stati Uniti ha sottolineato la sua affermazione delle relazioni fraterne che legano giudaismo e cristianesimo. Le sinagoghe statunitensi e i rabbini hanno risposto alla sua benedizione con una loro propria benedizione”.
Si avverte nelle parole del rabbino una profonda fiducia ispirata dal dialogo personale intrapreso con il Papa teologo per cui si dice totalmente d’accordo con Giorgio Israel quando afferma che “la memoria è fondamentale ma deve essere bene usata. Il modo migliore di sviluppare i rapporti tra ebraismo e cristianesimo è di rivolgere lo sguardo al futuro. Va riconosciuto al cardinale Ratzinger di aver compreso questa necessità, di aver tentato di superare i limiti del dialogo dei primi decenni”. Insomma, è proprio grazie a uomini come Benedetto XVI che il dialogo giudaicocristiano ancora vive; quel dialogo, dice Neusner, “che la chiesa cattolica nella seconda metà del XX secolo ha inaugurato e che è stato riaffermato nella risposta che con cuore puro il Papa ha dato nel suo libro alla mia conversazione immaginaria inserita nel mio vecchio libro di oltre 15 anni fa. Questa impresa di riavvicinamento è opera di Dio, e andrà avanti. Il che non significa che non ci saranno rallentamenti. Ma la direzione che hanno preso le cose ormai è chiara”.
Andrea Monda
(Il Foglio 17 gennaio 2009)
venerdì 16 gennaio 2009
Il cattolicesimo ambrosiano e l’ebraismo di sinistra marciano divisi per meglio colpire il ratzingerismo
È significativo che il violento attacco con cui il rabbino capo di Venezia Richetti ha accusato Benedetto XVI di aver demolito 50 anni di dialogo ebraico-cristiano sia apparso sul mensile dei gesuiti “Popoli”. Peraltro, basta attenersi ai fatti, senza ricorrere alla mediocre pratica della dietrologia, per rendersi conto che in questa diatriba vi sono moventi che con il merito hanno poco a che fare.
Si noti che non uno degli argomenti opposti ai duri attacchi di parte del rabbinato italiano è stato mai preso in considerazione. Anzi, dopo che il rabbino capo di Roma Riccardo Di Segni ha apprezzato l’affermazione del Papa secondo cui, in senso stretto il dialogo interreligioso è impossibile – perché, dice Di Segni, è meglio evitare il dialogo teologico – ecco che Richetti la indica, all’opposto, come prova che non si vuol dialogare!… Il fatto è che, mentre Di Segni, per quanto cauto e diffidente, segue una linea di razionalità – «Il dialogo è un processo che deve andare avanti malgrado le difficoltà. Papa Benedetto XVI continua a dare un originale e determinante contributo, anche se le sue posizioni non sempre sono condivisibili» – c’è chi ha deciso che bisogna litigare a tutti i costi col Papa e non fatica a trovare dall’altra parte chi risponde con simmetrico zelo, anche a costo di riattizzare mai spenti sentimenti antigiudaici. Qui siamo in presenza di uno scontro interno al mondo cattolico in cui una parte del mondo ebraico italiano si sta prestando alla funzione del Settimo Cavalleggeri.
Vorrei citare un episodio sintomatico che risale un anno e mezzo fa. Mi colpirono allora alcuni passaggi del libro “Le tenebre e la luce” del Cardinale Martini. Vi si faceva riferimento al processo a Gesù come alla prova del « crollo di un’istituzione [il Sinedrio] che avrebbe avuto il compito primario di riconoscere il Messia, verificandone le prove» e che invece testimoniava la «decadenza di un’istituzione religiosa»: «si leggono ancora i testi sacri, però non sono più compresi, non hanno più forza, accecano invece di illuminare». E si concludeva duramente circa la «necessità di giungere a superare le tradizioni religiose quando non sono più autentiche» indicando la seguente visione del dialogo: «il nostro cammino interreligioso deve consistere soprattutto nel convertirci radicalmente alle parole di Gesù e, a partire da esse, aiutare gli altri a compiere lo stesso percorso» – parole espresse nel Discorso della montagna, «assolutamente autentiche e affidabili, perché contengono anche la giusta critica alle tradizioni religiose degradate». Chiesi come si poteva accettare una simile visione del dialogo basata su un’idea di conversione: altro che preghiera del Venerdì santo. Oltre alle prevedibili stizzite risposte di qualche seguace del cardinale, l’attacco più virulento mi venne dalle colonne del Bollettino della Comunità ebraica di Milano, dove fui addirittura accusato di “pugnalare alle spalle” vilmente un amico degli ebrei e con esso tutto il dialogo…
Poi sono venute le polemiche sulla preghiera del Venerdì santo che hanno condotto all’attuale sospensione del dialogo, decretata anche nei termini di un divieto alle Comunità di incontrare ecclesiastici. Da tale sospensione dissentimmo Guido Guastalla ed io in una lettera al Corriere della Sera (26 novembre 2008) dai toni pacati e senza l’ombra di polemica. Ne ricevemmo in cambio una violenta risposta firmata dal rabbino Laras (Presidente dei Rabbini italiani), dal Presidente dell’Unione Giovani Ebrei e (fatto significativo) non dal Presidente ma da un ex-Presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche, nella persona di Amos Luzzatto. In questa lettera – a parte l’intimazione grottesca a non occuparsi del dialogo, in quanto di esclusiva competenza dei rabbini (soli “interlocutori” e “ufficiali responsabili della rappresentanza religiosa” – si identificava la capitale del dialogo ebraico-cristiano in Milano e nelle persone dei cardinali Martini e Tettamanzi da un lato e da Laras e un elenco di altri tra cui noi… mancavamo all’appello. Guarda caso, siamo sempre lì, a Milano, attorno al cattolicesimo ambrosiano e all’ebraismo di sinistra. L’audace affermazione che «i rapporti tra ebraismo e Islam generalmente sono stati più proficui e sereni rispetto a quelli intercorsi tra Ebraismo e Cristianesimo» – accompagnata dall’accusa nei nostri confronti di strumentalizzare il dialogo allo scontro con l’islam – riceveva pronta risposta da alcuni rappresentanti della Grande Moschea di Roma, che attestavano quanto la lettera fosse stata apprezzata. Naturalmente, in questo idillio la domanda del perché mai quegli stessi rappresentanti non ne vogliano sapere di varcare la soglia della Sinagoga di Roma resta inevasa, anzi non viene neppure fatta.
Questi atteggiamenti appartengono a una categoria arcinota. Si preferisce andare assieme a coloro con cui si ha consonanza politico-ideologica “a prescindere”. Perciò il dialogo è tra la chiesa ambrosiana – la stessa che assiste condiscendente alle parate islamiche – e un ebraismo di sinistra, indifferente al sentirsi proclamare “tradizione religiosa degradata”, pur di colpire assieme il comune nemico, l’odiato ratzingerismo neocon. Ed è sempre meglio dialogare con l’islam che con il Papa, o… con se stessi, come ha bene espresso su queste pagine Alberto Melloni dicendo che ebraismo e cristianesimo sono religioni pesanti, complicate ed esagerate, mentre l’islam è semplice, essenziale e chiede poco (chissà perché non si converte). A questo punto salta anche agli occhi di un cieco che le questioni di merito sollevate c’entrano come il classico cavolo a merenda. Esse sono soltanto un pretesto per saldare uno schieramento politico e rafforzare una battaglia interna al mondo cattolico, ma anche per colpire l’attuale dirigenza dell’Unione delle Comunità Ebraiche e della Comunità di Roma, ritenute “troppo di destra”.
Che in una situazione drammatica come questa ci sia chi ha voglia di fare simili manovre, a costo di provocare scontri, divisioni e anche di riattizzare vecchie incomprensioni e risentimenti contro i quali il dialogo dovrebbe essere perseguito con la stessa cura con cui si assume un medicamento, è un segno di come l’ideologia sia fonte delle più gravi manifestazioni di irresponsabilità.
(Il Foglio, 16 gennaio 2009)
Si noti che non uno degli argomenti opposti ai duri attacchi di parte del rabbinato italiano è stato mai preso in considerazione. Anzi, dopo che il rabbino capo di Roma Riccardo Di Segni ha apprezzato l’affermazione del Papa secondo cui, in senso stretto il dialogo interreligioso è impossibile – perché, dice Di Segni, è meglio evitare il dialogo teologico – ecco che Richetti la indica, all’opposto, come prova che non si vuol dialogare!… Il fatto è che, mentre Di Segni, per quanto cauto e diffidente, segue una linea di razionalità – «Il dialogo è un processo che deve andare avanti malgrado le difficoltà. Papa Benedetto XVI continua a dare un originale e determinante contributo, anche se le sue posizioni non sempre sono condivisibili» – c’è chi ha deciso che bisogna litigare a tutti i costi col Papa e non fatica a trovare dall’altra parte chi risponde con simmetrico zelo, anche a costo di riattizzare mai spenti sentimenti antigiudaici. Qui siamo in presenza di uno scontro interno al mondo cattolico in cui una parte del mondo ebraico italiano si sta prestando alla funzione del Settimo Cavalleggeri.
Vorrei citare un episodio sintomatico che risale un anno e mezzo fa. Mi colpirono allora alcuni passaggi del libro “Le tenebre e la luce” del Cardinale Martini. Vi si faceva riferimento al processo a Gesù come alla prova del « crollo di un’istituzione [il Sinedrio] che avrebbe avuto il compito primario di riconoscere il Messia, verificandone le prove» e che invece testimoniava la «decadenza di un’istituzione religiosa»: «si leggono ancora i testi sacri, però non sono più compresi, non hanno più forza, accecano invece di illuminare». E si concludeva duramente circa la «necessità di giungere a superare le tradizioni religiose quando non sono più autentiche» indicando la seguente visione del dialogo: «il nostro cammino interreligioso deve consistere soprattutto nel convertirci radicalmente alle parole di Gesù e, a partire da esse, aiutare gli altri a compiere lo stesso percorso» – parole espresse nel Discorso della montagna, «assolutamente autentiche e affidabili, perché contengono anche la giusta critica alle tradizioni religiose degradate». Chiesi come si poteva accettare una simile visione del dialogo basata su un’idea di conversione: altro che preghiera del Venerdì santo. Oltre alle prevedibili stizzite risposte di qualche seguace del cardinale, l’attacco più virulento mi venne dalle colonne del Bollettino della Comunità ebraica di Milano, dove fui addirittura accusato di “pugnalare alle spalle” vilmente un amico degli ebrei e con esso tutto il dialogo…
Poi sono venute le polemiche sulla preghiera del Venerdì santo che hanno condotto all’attuale sospensione del dialogo, decretata anche nei termini di un divieto alle Comunità di incontrare ecclesiastici. Da tale sospensione dissentimmo Guido Guastalla ed io in una lettera al Corriere della Sera (26 novembre 2008) dai toni pacati e senza l’ombra di polemica. Ne ricevemmo in cambio una violenta risposta firmata dal rabbino Laras (Presidente dei Rabbini italiani), dal Presidente dell’Unione Giovani Ebrei e (fatto significativo) non dal Presidente ma da un ex-Presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche, nella persona di Amos Luzzatto. In questa lettera – a parte l’intimazione grottesca a non occuparsi del dialogo, in quanto di esclusiva competenza dei rabbini (soli “interlocutori” e “ufficiali responsabili della rappresentanza religiosa” – si identificava la capitale del dialogo ebraico-cristiano in Milano e nelle persone dei cardinali Martini e Tettamanzi da un lato e da Laras e un elenco di altri tra cui noi… mancavamo all’appello. Guarda caso, siamo sempre lì, a Milano, attorno al cattolicesimo ambrosiano e all’ebraismo di sinistra. L’audace affermazione che «i rapporti tra ebraismo e Islam generalmente sono stati più proficui e sereni rispetto a quelli intercorsi tra Ebraismo e Cristianesimo» – accompagnata dall’accusa nei nostri confronti di strumentalizzare il dialogo allo scontro con l’islam – riceveva pronta risposta da alcuni rappresentanti della Grande Moschea di Roma, che attestavano quanto la lettera fosse stata apprezzata. Naturalmente, in questo idillio la domanda del perché mai quegli stessi rappresentanti non ne vogliano sapere di varcare la soglia della Sinagoga di Roma resta inevasa, anzi non viene neppure fatta.
Questi atteggiamenti appartengono a una categoria arcinota. Si preferisce andare assieme a coloro con cui si ha consonanza politico-ideologica “a prescindere”. Perciò il dialogo è tra la chiesa ambrosiana – la stessa che assiste condiscendente alle parate islamiche – e un ebraismo di sinistra, indifferente al sentirsi proclamare “tradizione religiosa degradata”, pur di colpire assieme il comune nemico, l’odiato ratzingerismo neocon. Ed è sempre meglio dialogare con l’islam che con il Papa, o… con se stessi, come ha bene espresso su queste pagine Alberto Melloni dicendo che ebraismo e cristianesimo sono religioni pesanti, complicate ed esagerate, mentre l’islam è semplice, essenziale e chiede poco (chissà perché non si converte). A questo punto salta anche agli occhi di un cieco che le questioni di merito sollevate c’entrano come il classico cavolo a merenda. Esse sono soltanto un pretesto per saldare uno schieramento politico e rafforzare una battaglia interna al mondo cattolico, ma anche per colpire l’attuale dirigenza dell’Unione delle Comunità Ebraiche e della Comunità di Roma, ritenute “troppo di destra”.
Che in una situazione drammatica come questa ci sia chi ha voglia di fare simili manovre, a costo di provocare scontri, divisioni e anche di riattizzare vecchie incomprensioni e risentimenti contro i quali il dialogo dovrebbe essere perseguito con la stessa cura con cui si assume un medicamento, è un segno di come l’ideologia sia fonte delle più gravi manifestazioni di irresponsabilità.
(Il Foglio, 16 gennaio 2009)
Gaza, guerra o dialogo?
Uno scambio di lettere civile con Mario Mauro, vicepresidente del Parlamento europeo
http://www.tempi.it/
http://www.tempi.it/
Buoni propositi per il nuovo anno. Primo, riabilitare la parola “insegnante”
Come nel primo numero del 2008 apriamo i buoni propositi per l’anno nuovo ritornando sull’importanza dei maestri nell’educazione, a dispetto di chi pensa che “insegnante” e “insegnare” siano parole da cancellare a profitto di “facilitare” e “facilitatore”. Di questi temi si è parlato molto nell’anno passato e penso che molto buon senso si sia fatto strada. Ma resiste accanitamente una corporazione di docenti che si è data come principale obbiettivo quello di insegnare che non si deve insegnare e, in particolare, che occorra abolire la lezione ex-cathedra. Fatto bizzarro: essi conservano per sé il privilegio di tenere lezioni ex-cathedra in cui si sentenzia apoditticamente che non bisogna fare lezioni ex-cathedra… Così si addestrano generazioni di giovani all’autoapprendimento, ovvero a pretendere dagli altri insegnanti – ma non dai suddetti, ovviamente! – che si limitino ad aiutarli a fare tutto da sé. Bando all’ascolto e al recepimento di nozioni: occorre costruirsi tutto da soli, meglio se con un’attività di gruppo in cui l’insegnante si limita a fornire aiuto, quando richiesto. L’insegnamento “trasmissivo” è proscritto come ciò che di più oppressivo e reazionario possa pensarsi. In tal modo viene coltivata in questi giovani la presunzione, una futile arroganza e la credenza superficiale che studiare sia qualcosa di accettabile soltanto se è facile, qualcosa che viene spontaneo e non è mai imposto dall’esterno: l’unica lezione che deve essere trasmessa come verità indiscutibile è che nulla si deve imporre.
Vale la pena di leggere L’arte di ascoltare di Plutarco come memento contro queste aberrazioni che ci seguiranno ancora per anni. Scrive Plutarco al giovane Nicandro, che ha appena indossato la toga virile e si è liberato da chi gli dava ordini, che «questa condizione di anarchia, che alcuni giovani, ancora immaturi sul piano formativo, sono portati a confondere con la libertà, fa sì che le passioni, quasi fossero sciolte dai ceppi, diventino per loro padroni più duri dei maestri e dei pedagoghi di quando erano ragazzi». Ma «il passaggio dalla fanciullezza all’età adulta, per quelli che ragionano bene, non significa non aver più un’autorità cui sottostare, ma semplicemente cambiarla», ovvero assumere a guida la ragione. Appunto, diranno i pedagoghi di cui sopra: occorre avanzare da soli con la guida della ragione. Ma come acquistare l’uso della ragione? In primo luogo apprendendo l’arte di ascoltare, ammonisce Plutarco. «I più invece, a quanto ci è dato vedere, sbagliano, perché si esercitano nell’arte del dire prima di essersi impratichiti in quella di ascoltare». Ascoltare è un’arte difficile perché «quando si travasa qualcosa, la gente inclina e ruota i vasi perché l’operazione riesca bene e non ci siano dispersioni, mentre quando ascolta non impara a offrire sé stessa a chi parla e a seguire attentamente, perché non le sfugga nessuna affermazione utile». «Il silenzio è dunque ornamento sicuro per un giovane in ogni circostanza, ma lo è in modo particolare quando, ascoltando un altro, evita di agitarsi o abbaiare a ogni sua affermazione, o anche se il discorso non gli è troppo gradito, pazienta e attende che chi sta dissertando sia arrivato alla conclusione… Se ha preso l’abitudine di ascoltare in modo controllato e rispettoso, riesce a recepire e a far suo un discorso utile e sa discernere meglio e smascherare l’inutilità o la falsità di un altro». Per apprendere a usare la ragione occorre in primo luogo saper ascoltare.
(Tempi, 8 gennaio 2009)
Post scriptum: l'arte di ascoltare dovrebbe essere applicata anche a molti dei temi di attualità di cui stiamo parlando in questi giorni
Vale la pena di leggere L’arte di ascoltare di Plutarco come memento contro queste aberrazioni che ci seguiranno ancora per anni. Scrive Plutarco al giovane Nicandro, che ha appena indossato la toga virile e si è liberato da chi gli dava ordini, che «questa condizione di anarchia, che alcuni giovani, ancora immaturi sul piano formativo, sono portati a confondere con la libertà, fa sì che le passioni, quasi fossero sciolte dai ceppi, diventino per loro padroni più duri dei maestri e dei pedagoghi di quando erano ragazzi». Ma «il passaggio dalla fanciullezza all’età adulta, per quelli che ragionano bene, non significa non aver più un’autorità cui sottostare, ma semplicemente cambiarla», ovvero assumere a guida la ragione. Appunto, diranno i pedagoghi di cui sopra: occorre avanzare da soli con la guida della ragione. Ma come acquistare l’uso della ragione? In primo luogo apprendendo l’arte di ascoltare, ammonisce Plutarco. «I più invece, a quanto ci è dato vedere, sbagliano, perché si esercitano nell’arte del dire prima di essersi impratichiti in quella di ascoltare». Ascoltare è un’arte difficile perché «quando si travasa qualcosa, la gente inclina e ruota i vasi perché l’operazione riesca bene e non ci siano dispersioni, mentre quando ascolta non impara a offrire sé stessa a chi parla e a seguire attentamente, perché non le sfugga nessuna affermazione utile». «Il silenzio è dunque ornamento sicuro per un giovane in ogni circostanza, ma lo è in modo particolare quando, ascoltando un altro, evita di agitarsi o abbaiare a ogni sua affermazione, o anche se il discorso non gli è troppo gradito, pazienta e attende che chi sta dissertando sia arrivato alla conclusione… Se ha preso l’abitudine di ascoltare in modo controllato e rispettoso, riesce a recepire e a far suo un discorso utile e sa discernere meglio e smascherare l’inutilità o la falsità di un altro». Per apprendere a usare la ragione occorre in primo luogo saper ascoltare.
(Tempi, 8 gennaio 2009)
Post scriptum: l'arte di ascoltare dovrebbe essere applicata anche a molti dei temi di attualità di cui stiamo parlando in questi giorni
mercoledì 14 gennaio 2009
Gaza, ou l’hypocrisie inégalée
Gaza, ou l’hypocrisie inégalée
Le point de vue de Wafa Sultan (Aafaq.org)
La célèbre sociologue d’origine syrienne, Wafa Sultan, vient de publier l’un des points de vue le plus cinglants concernant la situation à Gaza. Elle plonge aux origines de l’islam pour expliquer le conflit entre deux conceptions diamétralement opposées : la culture de la vie contre la culture de la mort et du martyre. Elle s’appuie sur des exemples de l’histoire récente pour dénoncer une religion, une culture et une idéologie barbares... En voici les extraits les plus significatifs, traduits par Chawki Freïha.
Puisqu’il m’importe peu de satisfaire les uns, de défendre les autres ou d’éviter la colère des troisièmes, je peux dire que le Hamas n’est qu’une sécrétion islamique terroriste dont le comportement irresponsable à l’égard de sa population l’empêche de se hisser au niveau d'une responsabilité gouvernementale.
Mais ceci est conforme à l’habitude, puisque, à travers l’histoire de l’islam, jamais une bande de criminels islamistes n’a respecté ses administrés. (...) Je ne prétends pas défendre Israël, puisque les Juifs ne m’ont pas demandé mon avis quant à leur terre promise.
S’ils me demandent mon avis, je leur conseille de brûler leurs livres sacrés, de quitter la région et de sauver leur peau. Car les musulmans constituent une nation rigide exempte de cerveau. Et c’est contagieux. Tous ceux qui les fréquentent perdent la cervelle…
Avant la création de l’Etat d’Israël, l’histoire n’a jamais mentionné une guerre impliquant les Juifs, ni qu’un Juif ait commandé une armée ou mené une conquête. Mais les musulmans sont des combattants, des conquérants et leur histoire ne manque pas d’exemples et de récits de conquêtes, de morts, de tueries, de razzias… Pour les musulmans, tuer est un loisir. Et s’ils ne trouvent pas un ennemi à tuer, ils s’entretuent entre eux.
Il est impossible pour une nation qui éduque ses enfants sur la mort et le martyre, pour plaire à son créateur, d’enseigner en même temps l’amour de la vie.
La vie a-t-elle une valeur pour une société qui inculque à ses enfants qu’ils doivent tuer ou être tués pour aller au Paradis ?
Si on me demandait mon avis
Depuis le début de l’opération israélienne contre Gaza, je suis bombardée de courriers électroniques venant de lecteurs musulmans qui me demandent mon avis sur ce qui se déroule à Gaza. Je ne suis pas concernée par ce qui s’y passe, mais je suis intéressée par les motivations qui animent ceux qui m’écrivent.
Je suis convaincue que ce qui les motive n’est pas la condamnation de l’horreur, ni la condamnation de la mort qui sévit à Gaza. Car, si la motivation était réellement la condamnation de la mort, ces mêmes lecteurs se seraient manifestés à d’autres occasions où la vie était menacée.
Ceux qui condamnent le massacre de Gaza, par défense de la vie en tant de valeur, doivent m’interroger sur mon avis à chaque fois que cette vie-valeur était menacée.
Plus de 200.000 musulmans Algériens ont été massacrés par d’autres musulmans Algériens ces quinze dernières années, sans qu’aucun musulman ne s’en émeuve. Des femmes Algériennes violées par les islamistes ont témoigné et raconté que leurs violeurs priaient Allah et imploraient son Prophète avant qu’ils ne violent leurs victimes. Mais personne ne m’a demandé mon avis.
Plus de 20.000 citoyens syriens musulmans avaient été massacrés par les autorités (Hamas en 1983) sans qu’aucun musulman ne réagisse et sans qu’aucun ne me demande mon avis sur ces massacres étatiques.
Des musulmans se sont fait exploser dans des hôtels jordaniens tuant des musulmans innocents qui célébraient des mariages, symboles de la vie-valeur, sans qu’aucune manifestation ne soit organisée à travers le monde, et sans qu’on ne me demande mon avis.
En Egypte, des islamistes ont récemment attaqué un village copte et ont massacré 21 paysans, sans qu’un seul musulman ne dénonce ce crime.
Saddam Hussein a enterré vivants plus de 300.000 chiites et kurdes, et en a gazé beaucoup plus, sans qu’un seul musulman n’ose réagir et dénonce ces crimes.
Au plus fort des bombardements de Gaza, une femme musulmane, fidèle et pieuse, s’est fait exploser en Irak dans une mosquée chiite, tuant une trentaine d’innocents, sans que les médias ou les musulmans ne s’en émeuvent.
Il y a quelques mois, le Hamas avait aussi tué onze personnes d’une même famille palestinienne, accusés d’appartenir au Fatah, sans que des manifestations ne soient organisées en Europe ou dans le monde arabe, et sans qu’aucun lecteur ne m’écrive et ne m’envoie ses protestations.
Ainsi, la vie n’a pas de valeur pour le musulman.
Sinon, il aurait dénoncé toute atteinte à la vie, quelle qu’en soit la victime. Les Palestiniens et leurs soutiens dénoncent les massacres de Gaza, non pas par amour de la vie, mais pour dénoncer l’identité des tueurs. Si le tueur était musulman, appartenant au Hamas ou au Fatah, aucune manifestation n’aurait eu lieu.
CNN a diffusé un documentaire sur Gaza montrant une femme palestinienne qui se lamente et crie : mais qu’ont fait nos enfants pour être tués comme ça ? Qui sait. Peut-être s’agit-il de la même palestinienne qui se réjouissait il y a deux ans quand l’un de ses fils s’était fait exploser dans un restaurant de Tel-Aviv et qui disait souhaiter que ses autres enfants suivent le même exemple et deviennent martyrs ?
Mais quand l’idéologie et l’endoctrinement sont d’une telle bassesse, il devient normal que cette palestinienne perde toute notion de la valeur de la vie. Sinon, elle pleurerait ses enfants de la même façon, qu’ils se tuent dans un attentat suicide à Tel-Aviv ou sous les bombes israéliennes.
Car, la mort est la même, qu’elle qu’en soient les circonstances, et elle doit être rejetée. Au contraire, la vie mérite d’être vécue et pleurée.
Dans ce cas, comment puis-je me solidariser avec une femme qui lance les youyous de jouissance quand l’un de ses enfants se fait exploser contre les juifs, alors qu'elle pleure quand les juifs tuent ses autres enfants ?
Mais l’idéologie enseigne aux musulmans que tuer ou être tué permet au fidèle de gagner le paradis. Dans ce cas, pourquoi pleurer les Gazaouis alors qu’ils n’ont pas bougé le petit doigt pour les Irakiens, les Algériens, les Egyptiens ou les Syriens pourtant musulmans ?
Qui prend des risques, sinon les petits ?
Borhane, un jeune palestinien de 14 ans, a perdu il y a une dizaine d’années ses bras, ses jambes et la vue dans l’explosion d’une mine en Cisjordanie. La communauté palestinienne aux Etats-Unis s’est mobilisée pour lui venir en aide et financer son hospitalisation dans l’espoir de sauver ce qui pouvait l’être.
Lors d’un dîner de bienfaisance organisé à son profit en Californie, la plus riche palestinienne des Etats-Unis s’est présentée en grande fourrure, et a qualifié Borhane de héros. Elle s’est adressée à ce bout de chair immobile et inerte : Borhane, tu es notre héros. Le pays a besoin de toi. Tu dois retourner dans le pays pour empêcher les Sionistes de le confisquer…
L’hypocrisie de la palestinienne la plus riche des Etats-Unis l’empêche d’envoyer ses propres enfants défendre la Palestine contre les Sionistes.
Exactement à l’image des chefs du Hamas qui demandent les sacrifices à Gaza, mais restent à l’abri à Damas et à Beyrouth.
La guerre contre Gaza est certes une horreur. Mais elle a le mérite de dévoiler une hypocrisie inégalée dans l’histoire récente de l’humanité.
Frères musulmans
Une hypocrisie qui distingue les Frères Musulmans syriens qui annoncent abandonner leurs activités d’opposition, pour resserrer les rangs contre les sionistes. Mais ces Frères musulmans ont-ils le droit d’oublier les crimes du régime commis contre les leurs à Hama, Homs et Alep ?
Avant de se réconcilier avec le régime pour lutter contre les sionistes, ces Frères musulmans ont-ils dénoncé les crimes commis par leurs alliés et partenaires (dans la confrérie) en Algérie et en Irak ?
Ont-ils dénoncé la mort de centaines de milliers de chiites en Irak sur le pont des oulémas à Bagdad, pulvérisé par l’un des vôtres conformément aux enseignements de votre religion de la paix et de la miséricorde ?
Avez-vous une seule fois dénoncé les exactions contre les chrétiens en Irak ? Ou contre les coptes en Egypte ? Votre hypocrisie nous empêche de croire vos sentiments à l’égard des enfants de Gaza, puisque vous êtes responsables du pire.
Essayons d’imaginer ce que le Hamas aurait fait du Fatah, et des autres, s’il possédait la technologie et les armes d’Israël ? Essayons d’imaginer ce que l’Iran aurait fait des sunnites de la région, s’il détenait les armes modernes que possède Israël ? Ce serait sans doute le massacre garanti.
La guerre du mal contre le mal
J’ai récemment rencontré un religieux hindou en marge d’une conférence consacrée à la guerre contre le terrorisme. Il m’a dit : « Toutes les guerres se sont déroulées entre le bien et le mal. Sauf la prochaine, elle doit se dérouler entre le mal et le mal ». N’ayant pas compris ses propos, je lui ai demandé des explications.
Il m’a dit : « Je suis contre la présence américaine en Irak et en Afghanistan. Si les Etats-Unis veulent gagner la guerre contre les islamistes, ils doivent se retirer et laisser les deux pôles du mal s’entretuer. Les sunnites et les chiites étant nourris sur la haine, vont se battre et se neutraliser ».
Tirant la conclusion de ces mots remplis de sagesse, on peut dire qu’Israël contribue aujourd’hui, inconsciemment, au succès de l’islam.
En s’attaquant à Gaza, Israël pousse les musulmans à se solidariser et à surpasser leurs divergences. Et septembre noir en Jordanie est encore dans tous les esprits (…). Les exactions dont sont capables les arabes et les musulmans dépassent toute imagination.
Un char jordanien avait écrasé un palestinien, puis le conducteur du char est descendu de son blindé et a bourré la bouche de sa victime avec un journal… Un comportement qu’aucun militaire israélien n’a eu à Gaza.
Pendant les massacres de Hama en Syrie, des militants des Frères musulmans trempaient leurs mains dans le sang des victimes pour écrire sur les murs : "Allah Akbar, gloire à l’islam".
Je n’ai jamais entendu qu’un juif ait écrit avec le sang d’un autre juif des slogans à la gloire du judaïsme. Je le dis avec un pincement au cœur : pour sauver l’humanité du terrorisme, il faut que le monde libre se retire et qu’il laisse les musulmans s’entretuer.
Souvenirs
Je me souviens quand j’étais étudiante à l’université d’Alep, et quand l’ancien ministre syrien de la Défense Mustapha Tlass était venu nous rencontrer. Dans un élan d’hypocrisie, Tlass nous avait dit qu’« Israël craint la mort et la perte d’un de ses soldats lui fait peur et mal. Mais nous, nous avons beaucoup d’hommes et nos hommes ne craignent pas la mort ». Là réside la différence entre les deux conceptions et les deux camps. Le témoignage de Tlass semble avoir inspiré les dirigeants du Hamas aujourd’hui.
Ainsi, l’extermination de tous les enfants de Gaza importe peu aux dirigeants islamistes et du Hamas, la vie n’ayant aucune valeur pour eux. Ils se réjouissent simplement de la mort de quelques soldats israéliens. Pour les islamistes, l’objectif de la vie est de tuer ou de se faire tuer pour gagner le paradis. La vie n’a donc aucune valeur.
Si le Prophète Mohammed savait que le Juif allait voler un jour à bord des F-16, il n’aurait pas commandé à ses disciples de tuer les juifs jusqu’au jour dernier. Mais ses disciples doivent modifier cette idéologie par pitié pour les générations futures, et pour sauver leur descendance et lui préparer une vie meilleure, loin de l’idéologisation de la mort.
Les musulmans doivent commencer par se changer pour prétendre changer la vie.
Ils doivent rejeter la culture de la mort enseignée et véhiculée par leurs livres. C’est seulement quand ils y parviendront qu’ils n’auront plus d’ennemis.
Car, celui qui apprend à aimer son fils plus qu’à haïr son ennemi appréciera mieux la vie. Jamais la terre ne vaut la vie des personnes, et les Arabes sont le peuple qui a le moins besoin de la terre.
Mais paradoxalement, c’est le peuple qui déteste le plus la vie.
Quand est-ce que les Arabes comprendront-ils cette équation ? Quand commenceront-ils à aimer la vie ?
Traduction de Chawki Freïha
© MediArabe.info
lunedì 12 gennaio 2009
Voglio vivere così
Cliccare sul titolo per vedere il video
THE REAL FACE OF HAMAS
http://it.youtube.com/watch?v=7_OGhj43GAE&NR=1
GLI INSEGNAMENTI DI TOPOLINO AI BAMBINI PALESTINESI
http://it.youtube.com/watch?v=gi-c6lbFGC4&feature=related
E ANCORA:
http://it.youtube.com/watch?v=8sznMP3dnCg&feature=PlayList&p=24B346594DCE3F37&index=5
THE REAL FACE OF HAMAS
http://it.youtube.com/watch?v=7_OGhj43GAE&NR=1
GLI INSEGNAMENTI DI TOPOLINO AI BAMBINI PALESTINESI
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La Chiesa, Israele e gli ebrei
I rapporti ebraico-cristiani sembrano essersi incagliati dentro un arcipelago di scogli: quando sembra che ne sia stato evitato uno ne emerge un altro e le cose sembrano andare di male in peggio. Cosa accade? Cosa sta bloccando un processo che fino a poco tempo fa sembrava orientato nella direzione più promettente?
Cominciò con il Concilio, con la “Nostra Aetate”, proseguì con la visita di Giovanni Paolo II alla Sinagoga di Roma e poi al Muro del Pianto di Gerusalemme. Il processo sembrava inarrestabile. Lo contrassegnava l’ammissione dei torti inflitti al popolo ebraico, la cancellazione dell’accusa di deicidio, il riconoscimento del legame profondo tra la Casa di Israele e la Civitas cristiana: fratelli “maggiori” e “minori”. Questa via dei rapporti era giusta e inevitabile ma, alla lunga, non poteva (non può) bastare. Il riconoscimento di un legame non può arrestarsi alla declamazione ma deve proiettarsi nel futuro e sostanziarsi di fatti nuovi. La doverosa ammissione dei torti inflitti non può tramutarsi in un processo infinito, in un elenco senza fine e continuamente riaperto: nessuno può restare in perpetua penitenza per le colpe compiute dai padri. D’altra parte, nessuno può pretendere di mettere una pietra sopra la storia dell’antisemitismo. Bisogna saper tracciare un confine tra memoria e analisi storica da un lato e azione presente dall’altro: se l’una pesta continuamente i piedi dell’altra diventa impossibile pensare in modo oggettivo il passato e costruire in modo libero il futuro. La memoria è fondamentale ma deve saper essere usata. Viene in mente, al riguardo, quel che scriveva Henri Bergson del cervello: non una macchina per immagazzinare ricordi, ma piuttosto per selezionarli in funzione del nostro slancio vitale, e che ci permette di vivere e costruire il nuovo in quanto esclude dalla nostra visione gran parte del passato che nella sua totalità preme su di noi e ci soffocherebbe.
La continua intersezione tra memoria e azione – di cui sono prova le polemiche su Pio XII, sempre in bilico tra storiografia libera dai condizionamenti del presente e polemiche contingenti – è una delle ragioni per cui è impotente il tentativo di esorcizzare con la memoria il ritorno delle intolleranze passate. Il 17 gennaio non si terrà l’annuale incontro ebraico-cristiano, mentre il 27 gennaio dilagherà la Giornata della memoria. Non è un buon risultato. Esso testimonia il prevalere del passato sul presente. Non è la via giusta per superare incomprensioni, combattere i pregiudizi e, in particolare, l’antisemitismo. In fondo, il modo migliore per combattere quest’ultimo è affermare la vitalità positiva della presenza ebraica nel mondo. Il modo migliore di sviluppare i rapporti tra ebraismo e cristianesimo è di rivolgere lo sguardo al futuro.
Va riconosciuto al Cardinale Ratzinger di aver compreso questa necessità e di aver tentato di superare i limiti del dialogo dei primi decenni. Egli ha preso di petto la questione alla maniera sua, andando oltre i sentimenti e la storia, e affrontando la questione teologica. Il documento del 2001 della Pontificia Commissio Biblica su “Il popolo ebraico e le sue Sacra Scritture nella Bibbia cristiana” rappresenta il contributo più decisivo in questa direzione. Esso si basa su tre principi: 1) l’Antico Testamento è fondamentale per il cristianesimo, perché ove esso se ne congedasse decreterebbe il suo dissolvimento; 2) cristianesimo e giudaismo si sono divisi sul tema della divinità di Cristo ma questo dissenso deve essere rigorosamente epurato da ostilità che conducano all’antigiudaismo; 3) il dialogo è possibile sulla base di questo patrimonio comune. Dovremmo aggiungere che questo è molto più di un dialogo, perché l’esistenza della matrice comune rende il rapporto inevitabile, imprescindibile. Il libro “Gesù di Nazaret” è uno sviluppo della direzione indicata nel documento del 2001. Non a caso esso ha come nucleo di partenza il confronto con le tesi del’autorevole rabbino Jacob Neusner. Naturalmente, un simile confronto è possibile se esclude ogni forma di pasticciato sincretismo: esso ha senso se ciascuna parte sta solidamente assisa sulla propria fede. È un approccio che dovrebbe essere apprezzato da chi teme la tentazione del proselitismo e del dialogo fatto con l’intenzione di convertire anziché con quella di ascoltare e capire. E in tal senso è stato apprezzato da molti sia in ambito cattolico che ebraico. Per esempio, secondo il rabbino David Berger, una volta rimosso l’“insegnamento del disprezzo” e il suo cardine, la “teologia della sostituzione” – ovvero la tesi secondo cui l’elezione di Israele è stata revocata e sostituita con quella conferita alla Ecclesia cristiana – i cristiani hanno il diritto di affermare che l’ebraismo sbaglia attorno a questioni centrali come quella della divinità di Gesù ed hanno anche il diritto di aspirare a che gli ebrei la riconoscano alla fine dei giorni o di affermare che la salvezza è più difficile per chi non è cristiano. Secondo Berger, la posizione ratzingeriana, in quanto evita un “doppio standard”, è più rispettosa per l’ebraismo di molte altre. Ma non tutti l’hanno vista in questo modo, ed hanno anzi reagito a questo indirizzo con fastidio, parlando di nuovi tentativi di conversione e di appropriazione. E così è riemerso tutto il vecchio bagaglio delle diffidenze, in una confusa miscela che ha messo insieme le conversioni forzate con la questione di Pio XII e con la preghiera del Venerdì santo, e financo le diffidenze politiche nei confronti del Papa “di destra”. Come spiegare altrimenti l’indulgenza con cui furono accolte certe pesanti dichiarazioni circa «la necessità di giungere a superare le tradizioni religiose quando non sono più autentiche» (con esplicito e polemico riferimento all’ebraismo) quando venivano dal Cardinale Martini, ovvero dalla Chiesa “democratica” e “di sinistra”?
Sta di fatto che con il discorso di Ratisbona Benedetto XVI ha mostrato in modo inequivocabile quale matrice culturale desiderava valorizzare: il messaggio etico giudaico-cristiano nella sintesi storica che ha trovato con il razionalismo della cultura greca. Oggi qualcuno ha letto come una rinunzia, come un abbandono, la sua recente dichiarazione che, in senso stretto, il dialogo interreligioso non è possibile. In realtà, quella dichiarazione, da un lato ripropone il consueto richiamo a non cadere nel sincretismo; d’altro lato non riguarda in senso stretto il tema che ci riguarda. Difatti, come abbiamo sottolineato, qui parlare di “dialogo” è persino improprio. Difatti, il dialogo avviene tra posizioni che hanno matrici diverse, mentre il rapporto tra ebraismo e cristianesimo si colloca oltre il dialogo: essi hanno una radice comune che può essere oscurata dalle incomprensioni ma è là, solida come una pietra. Chi legga senza pregiudizi e con mente aperta le Sacre Scritture riscopre continuamente come entrambe le fedi si nutrano del medesimo comune patrimonio, in cui primeggia la preoccupazione di porre la verità come base fondamentale dell’esistenza: «Il Signore è vicino a tutti quelli che lo avvicinano / A tutti quelli che lo invocano in verità» (Salmo 145).
È stato quindi un errore ritenere che quell’affermazione riguardasse strettamente i rapporti ebraico-cristiani e, in particolare, che escludesse il confronto sul terreno teologico. Che cosa sono stati il documento del 2001 e il libro “Gesù di Nazaret” se non un confronto sul terreno propriamente teologico con l’unica religione con cui il cristianesimo può farlo?
Certo, accanto a molti che hanno salutato con favore un approccio di questo genere – come il già citato rabbino Neusner – le resistenze vi sono state e sono state tante. Sarebbe lungo elencarle. Vi è senza dubbio ancora in campo un accanito antigiudaismo cattolico. Ne abbiamo avuto la prova in questi giorni. Tutto va bene fino a che non ti permetti di criticare: alla minima osservazione c’è chi salta su come morso dalla tarantola. Poi c’è il diffuso terzomondismo del mondo cattolico di sinistra che sfocia in un filoislamismo privo di qualsiasi seria base culturale, ostinato fino all’autodistruzione e che finisce col tingersi di antigiudaismo.
Delle resistenze in ambito ebraico abbiamo accennato ma per approfondirle converrà fare un’osservazione generale. In un libro, recentemente tradotto in italiano (“L’idea messianica nell’ebraismo”) Gershom Scholem ha ricordato che l’ebraismo si è sempre mosso storicamente attorno a tre forze: conservatrici, restauratrici ed utopiche. Le prime mirano a preservare l’esistente e a difendere l’identità ebraica racchiudendola dietro la difesa della “siepe della Torah”, ovvero il rispetto rigoroso dei precetti (Halakhah). Le seconde mirano a ricreare l’ideale di un passato perduto. Le terze sono alimentate da una visione utopica del futuro. La tensione messianica, osserva Scholem, si è sempre sviluppata nel campo delle ultime due, mentre la prima non vi ha giocato alcun ruolo, pur avendo avuto una fondamentale funzione nel preservare l’identità dell’ebraismo in esilio.
Dal 1945 l’ebraismo europeo si è praticamente dissolto e il baricentro dell’ebraismo mondiale si è trasferito negli Stati Uniti e in Israele. Due erano le componenti principali dell’ebraismo europeo: quella laica e illuministica che aveva abbandonato la tradizione per la cultura scientifica e politica europea, e l’ebraismo della “siepe della Torah”. La tensione messianica aveva poco spazio, anche perché il sionismo era minoritario: in fondo, alla fin fine i dreyfusardi avevano vinto. Nel 1945 l’ebraismo della “siepe della Torah” appare distrutto dal nazismo, l’ebraismo illuminato in parte è distrutto, in parte è dissolto nell’emigrazione o aderisce al sionismo. La Seconda guerra mondiale poteva segnare la fine dell’ebraismo mondiale – e di fatto ne ha segnato la quasi completa dissoluzione in Europa – se il sionismo non avesse rappresentato una nuova vitalità nella direzione dell’utopia messianica. Perciò il fattore vitale dell’identità ebraica contemporanea con cui occorre fare i conti per stabilire un dialogo autentico è, in primo luogo, il sionismo. Accanto ad esso, occorre tener conto di tutte quelle correnti dell’ebraismo mondiale che sono attivamente impegnate a sviluppare il senso del messaggio ebraico sulle questione etiche e morali, secondo il principio bene espresso da Scholem che «un ebraismo vivo non può non opporsi risolutamente al naturalismo». L’ebraismo della “siepe della Torah”, persa la sua funzione di difesa identitaria a oltranza (che nella società contemporanea è un’illusione senza speranza), non ha interesse né per la questione teologica né per le questioni etiche, in quanto concepisce la religione come un’ortoprassi e perciò risolve in questa le norme etiche e chiude ogni spazio alla dimensione teologica.
Nel 1945 l’ebraismo poteva morire se si fosse proposto soltanto come un’isola identitaria che chiedeva al mondo il diritto di sopravvivere senza dare nulla in cambio. Così non è stato, non soltanto perché la cultura ebraica ha continuato a svilupparsi per il mondo (e non per sé stessa) ma, soprattutto, perché è nato Israele. E oggi Israele non è soltanto un rifugio degli ebrei ma un modello di come la democrazia basata sui valori della morale testamentaria e della fiducia nella ragione di matrice greca possa avere ancora senso per il mondo. Ricominciamo di qui: da un confronto su quello che le due religioni possono dare in termini di etica, morale, democrazia e in difesa di quello che è stato conquistato con enormi sacrifici in questi secoli, proprio sulla base dei fondamenti comuni. Ma da parte cattolica occorre accettare il fatto che oggi l’identità ebraica è in primo luogo Israele, e che la premessa per un dialogo senza diffidenza è dire alto e chiaro che la vita di Israele non è materia di trattative.
(Il Foglio, 11 gennaio 2009)
Cominciò con il Concilio, con la “Nostra Aetate”, proseguì con la visita di Giovanni Paolo II alla Sinagoga di Roma e poi al Muro del Pianto di Gerusalemme. Il processo sembrava inarrestabile. Lo contrassegnava l’ammissione dei torti inflitti al popolo ebraico, la cancellazione dell’accusa di deicidio, il riconoscimento del legame profondo tra la Casa di Israele e la Civitas cristiana: fratelli “maggiori” e “minori”. Questa via dei rapporti era giusta e inevitabile ma, alla lunga, non poteva (non può) bastare. Il riconoscimento di un legame non può arrestarsi alla declamazione ma deve proiettarsi nel futuro e sostanziarsi di fatti nuovi. La doverosa ammissione dei torti inflitti non può tramutarsi in un processo infinito, in un elenco senza fine e continuamente riaperto: nessuno può restare in perpetua penitenza per le colpe compiute dai padri. D’altra parte, nessuno può pretendere di mettere una pietra sopra la storia dell’antisemitismo. Bisogna saper tracciare un confine tra memoria e analisi storica da un lato e azione presente dall’altro: se l’una pesta continuamente i piedi dell’altra diventa impossibile pensare in modo oggettivo il passato e costruire in modo libero il futuro. La memoria è fondamentale ma deve saper essere usata. Viene in mente, al riguardo, quel che scriveva Henri Bergson del cervello: non una macchina per immagazzinare ricordi, ma piuttosto per selezionarli in funzione del nostro slancio vitale, e che ci permette di vivere e costruire il nuovo in quanto esclude dalla nostra visione gran parte del passato che nella sua totalità preme su di noi e ci soffocherebbe.
La continua intersezione tra memoria e azione – di cui sono prova le polemiche su Pio XII, sempre in bilico tra storiografia libera dai condizionamenti del presente e polemiche contingenti – è una delle ragioni per cui è impotente il tentativo di esorcizzare con la memoria il ritorno delle intolleranze passate. Il 17 gennaio non si terrà l’annuale incontro ebraico-cristiano, mentre il 27 gennaio dilagherà la Giornata della memoria. Non è un buon risultato. Esso testimonia il prevalere del passato sul presente. Non è la via giusta per superare incomprensioni, combattere i pregiudizi e, in particolare, l’antisemitismo. In fondo, il modo migliore per combattere quest’ultimo è affermare la vitalità positiva della presenza ebraica nel mondo. Il modo migliore di sviluppare i rapporti tra ebraismo e cristianesimo è di rivolgere lo sguardo al futuro.
Va riconosciuto al Cardinale Ratzinger di aver compreso questa necessità e di aver tentato di superare i limiti del dialogo dei primi decenni. Egli ha preso di petto la questione alla maniera sua, andando oltre i sentimenti e la storia, e affrontando la questione teologica. Il documento del 2001 della Pontificia Commissio Biblica su “Il popolo ebraico e le sue Sacra Scritture nella Bibbia cristiana” rappresenta il contributo più decisivo in questa direzione. Esso si basa su tre principi: 1) l’Antico Testamento è fondamentale per il cristianesimo, perché ove esso se ne congedasse decreterebbe il suo dissolvimento; 2) cristianesimo e giudaismo si sono divisi sul tema della divinità di Cristo ma questo dissenso deve essere rigorosamente epurato da ostilità che conducano all’antigiudaismo; 3) il dialogo è possibile sulla base di questo patrimonio comune. Dovremmo aggiungere che questo è molto più di un dialogo, perché l’esistenza della matrice comune rende il rapporto inevitabile, imprescindibile. Il libro “Gesù di Nazaret” è uno sviluppo della direzione indicata nel documento del 2001. Non a caso esso ha come nucleo di partenza il confronto con le tesi del’autorevole rabbino Jacob Neusner. Naturalmente, un simile confronto è possibile se esclude ogni forma di pasticciato sincretismo: esso ha senso se ciascuna parte sta solidamente assisa sulla propria fede. È un approccio che dovrebbe essere apprezzato da chi teme la tentazione del proselitismo e del dialogo fatto con l’intenzione di convertire anziché con quella di ascoltare e capire. E in tal senso è stato apprezzato da molti sia in ambito cattolico che ebraico. Per esempio, secondo il rabbino David Berger, una volta rimosso l’“insegnamento del disprezzo” e il suo cardine, la “teologia della sostituzione” – ovvero la tesi secondo cui l’elezione di Israele è stata revocata e sostituita con quella conferita alla Ecclesia cristiana – i cristiani hanno il diritto di affermare che l’ebraismo sbaglia attorno a questioni centrali come quella della divinità di Gesù ed hanno anche il diritto di aspirare a che gli ebrei la riconoscano alla fine dei giorni o di affermare che la salvezza è più difficile per chi non è cristiano. Secondo Berger, la posizione ratzingeriana, in quanto evita un “doppio standard”, è più rispettosa per l’ebraismo di molte altre. Ma non tutti l’hanno vista in questo modo, ed hanno anzi reagito a questo indirizzo con fastidio, parlando di nuovi tentativi di conversione e di appropriazione. E così è riemerso tutto il vecchio bagaglio delle diffidenze, in una confusa miscela che ha messo insieme le conversioni forzate con la questione di Pio XII e con la preghiera del Venerdì santo, e financo le diffidenze politiche nei confronti del Papa “di destra”. Come spiegare altrimenti l’indulgenza con cui furono accolte certe pesanti dichiarazioni circa «la necessità di giungere a superare le tradizioni religiose quando non sono più autentiche» (con esplicito e polemico riferimento all’ebraismo) quando venivano dal Cardinale Martini, ovvero dalla Chiesa “democratica” e “di sinistra”?
Sta di fatto che con il discorso di Ratisbona Benedetto XVI ha mostrato in modo inequivocabile quale matrice culturale desiderava valorizzare: il messaggio etico giudaico-cristiano nella sintesi storica che ha trovato con il razionalismo della cultura greca. Oggi qualcuno ha letto come una rinunzia, come un abbandono, la sua recente dichiarazione che, in senso stretto, il dialogo interreligioso non è possibile. In realtà, quella dichiarazione, da un lato ripropone il consueto richiamo a non cadere nel sincretismo; d’altro lato non riguarda in senso stretto il tema che ci riguarda. Difatti, come abbiamo sottolineato, qui parlare di “dialogo” è persino improprio. Difatti, il dialogo avviene tra posizioni che hanno matrici diverse, mentre il rapporto tra ebraismo e cristianesimo si colloca oltre il dialogo: essi hanno una radice comune che può essere oscurata dalle incomprensioni ma è là, solida come una pietra. Chi legga senza pregiudizi e con mente aperta le Sacre Scritture riscopre continuamente come entrambe le fedi si nutrano del medesimo comune patrimonio, in cui primeggia la preoccupazione di porre la verità come base fondamentale dell’esistenza: «Il Signore è vicino a tutti quelli che lo avvicinano / A tutti quelli che lo invocano in verità» (Salmo 145).
È stato quindi un errore ritenere che quell’affermazione riguardasse strettamente i rapporti ebraico-cristiani e, in particolare, che escludesse il confronto sul terreno teologico. Che cosa sono stati il documento del 2001 e il libro “Gesù di Nazaret” se non un confronto sul terreno propriamente teologico con l’unica religione con cui il cristianesimo può farlo?
Certo, accanto a molti che hanno salutato con favore un approccio di questo genere – come il già citato rabbino Neusner – le resistenze vi sono state e sono state tante. Sarebbe lungo elencarle. Vi è senza dubbio ancora in campo un accanito antigiudaismo cattolico. Ne abbiamo avuto la prova in questi giorni. Tutto va bene fino a che non ti permetti di criticare: alla minima osservazione c’è chi salta su come morso dalla tarantola. Poi c’è il diffuso terzomondismo del mondo cattolico di sinistra che sfocia in un filoislamismo privo di qualsiasi seria base culturale, ostinato fino all’autodistruzione e che finisce col tingersi di antigiudaismo.
Delle resistenze in ambito ebraico abbiamo accennato ma per approfondirle converrà fare un’osservazione generale. In un libro, recentemente tradotto in italiano (“L’idea messianica nell’ebraismo”) Gershom Scholem ha ricordato che l’ebraismo si è sempre mosso storicamente attorno a tre forze: conservatrici, restauratrici ed utopiche. Le prime mirano a preservare l’esistente e a difendere l’identità ebraica racchiudendola dietro la difesa della “siepe della Torah”, ovvero il rispetto rigoroso dei precetti (Halakhah). Le seconde mirano a ricreare l’ideale di un passato perduto. Le terze sono alimentate da una visione utopica del futuro. La tensione messianica, osserva Scholem, si è sempre sviluppata nel campo delle ultime due, mentre la prima non vi ha giocato alcun ruolo, pur avendo avuto una fondamentale funzione nel preservare l’identità dell’ebraismo in esilio.
Dal 1945 l’ebraismo europeo si è praticamente dissolto e il baricentro dell’ebraismo mondiale si è trasferito negli Stati Uniti e in Israele. Due erano le componenti principali dell’ebraismo europeo: quella laica e illuministica che aveva abbandonato la tradizione per la cultura scientifica e politica europea, e l’ebraismo della “siepe della Torah”. La tensione messianica aveva poco spazio, anche perché il sionismo era minoritario: in fondo, alla fin fine i dreyfusardi avevano vinto. Nel 1945 l’ebraismo della “siepe della Torah” appare distrutto dal nazismo, l’ebraismo illuminato in parte è distrutto, in parte è dissolto nell’emigrazione o aderisce al sionismo. La Seconda guerra mondiale poteva segnare la fine dell’ebraismo mondiale – e di fatto ne ha segnato la quasi completa dissoluzione in Europa – se il sionismo non avesse rappresentato una nuova vitalità nella direzione dell’utopia messianica. Perciò il fattore vitale dell’identità ebraica contemporanea con cui occorre fare i conti per stabilire un dialogo autentico è, in primo luogo, il sionismo. Accanto ad esso, occorre tener conto di tutte quelle correnti dell’ebraismo mondiale che sono attivamente impegnate a sviluppare il senso del messaggio ebraico sulle questione etiche e morali, secondo il principio bene espresso da Scholem che «un ebraismo vivo non può non opporsi risolutamente al naturalismo». L’ebraismo della “siepe della Torah”, persa la sua funzione di difesa identitaria a oltranza (che nella società contemporanea è un’illusione senza speranza), non ha interesse né per la questione teologica né per le questioni etiche, in quanto concepisce la religione come un’ortoprassi e perciò risolve in questa le norme etiche e chiude ogni spazio alla dimensione teologica.
Nel 1945 l’ebraismo poteva morire se si fosse proposto soltanto come un’isola identitaria che chiedeva al mondo il diritto di sopravvivere senza dare nulla in cambio. Così non è stato, non soltanto perché la cultura ebraica ha continuato a svilupparsi per il mondo (e non per sé stessa) ma, soprattutto, perché è nato Israele. E oggi Israele non è soltanto un rifugio degli ebrei ma un modello di come la democrazia basata sui valori della morale testamentaria e della fiducia nella ragione di matrice greca possa avere ancora senso per il mondo. Ricominciamo di qui: da un confronto su quello che le due religioni possono dare in termini di etica, morale, democrazia e in difesa di quello che è stato conquistato con enormi sacrifici in questi secoli, proprio sulla base dei fondamenti comuni. Ma da parte cattolica occorre accettare il fatto che oggi l’identità ebraica è in primo luogo Israele, e che la premessa per un dialogo senza diffidenza è dire alto e chiaro che la vita di Israele non è materia di trattative.
(Il Foglio, 11 gennaio 2009)
giovedì 8 gennaio 2009
Israele: contro pregiudizi e diffidenze la fede di un popolo
Sussidiario, 8 gennaio 2009
Lettre aux bien-pensants
A ceux qui ont manifesté hier pour soutenir les Palestiniens et qui ont fini la manifestation en brulant des voitures.
A ceux qui vont peut être manifester aujourd'hui pour soutenir les soldats israéliens, sans se mettre d'accord sur le lieu de la manifestation et sa raison,
Aux différents gouvernements qui critiquent l'attaque israélienne mais se félicitent de ne pas avoir à faire directement au Hamas
Aux media qui décident de la justice d'une cause à son nombre de morts.
Aux artistes qui ont vu de la fumée et qui pleurent pour le peuple palestinien
A ceux qui pensent que finalement cette guerre ne va pas leur faire rater les soldes
A ceux qui ont oublié Guilad Shalit….
Sachez que 'Israël a supporté 7 ans les tirs de mortiers sur leurs maisons, leurs entreprises et leurs écoles avant d'envoyer l'armée pour arrêter ces actes.
Sachez que depuis 7 ans la plupart des enfants de Sderot dorment dans le lit de leur parents et qu'ils urinent dans leurs draps tout simplement parce qu'ils ont peur de se lever la nuit.
Sachez que si Israël reste sans rien faire , ce sort sera bientôt celui des enfants de Beer Sheva, d'Ashdod et d'Ashkelon et puis ceux de Bat-yam , Tel-aviv et Netanya,
Sachez que depuis la semaine dernière ces enfants ne vont plus à l'école de peur d'être tues par un tir de mortier ,
Sachez que depuis, les cours sont donnés par l'intermédiaire de la télévision, mais que finalement les enfants ne peuvent pas apprendre parce qu'ils sont tout simplement traumatisés,
Sachez que ces enfants et leurs parents ne veulent pas la guerre. Ils veulent pouvoir retourner à leur quotidien qu'ils ont quitté il y a maintenant 7 ans,
Et surtout, sachez que 30 % des enfants soignés au service oncologique de Tel-aviv (Tel-Hashomer) sont des enfants palestiniens.
Sachez qu'encore aujourd'hui de nombreux blessés palestiniens sont soignés dans les hôpitaux israéliens.
Sachez, qu'en Israël on sait le prix de la paix .
Et sachez enfin que ici pratiquement toute les familles ont envoyé un mari un enfant un père, en sachant que peut être il ne reviendra pas.
Enfin à tous ceux qui osent encore dire que leur lutte contre Israël n'est pas une lutte contre les juifs, arrêtez de vous cacher derrière vos paroles de « paix ».
La paix se fait a deux, la paix ne commence pas par des tirs de mortiers.
Beatrice Coscas-Williams, Avocat
Israel le 6 Janvier 2009
E anche questo video è consigliabile:
http://www.youtube.com/watch?v=83aJj72UjlM&eurl=http://www.jihadwatch.org/archives/024248.php
Lettre aux bien-pensants
A ceux qui ont manifesté hier pour soutenir les Palestiniens et qui ont fini la manifestation en brulant des voitures.
A ceux qui vont peut être manifester aujourd'hui pour soutenir les soldats israéliens, sans se mettre d'accord sur le lieu de la manifestation et sa raison,
Aux différents gouvernements qui critiquent l'attaque israélienne mais se félicitent de ne pas avoir à faire directement au Hamas
Aux media qui décident de la justice d'une cause à son nombre de morts.
Aux artistes qui ont vu de la fumée et qui pleurent pour le peuple palestinien
A ceux qui pensent que finalement cette guerre ne va pas leur faire rater les soldes
A ceux qui ont oublié Guilad Shalit….
Sachez que 'Israël a supporté 7 ans les tirs de mortiers sur leurs maisons, leurs entreprises et leurs écoles avant d'envoyer l'armée pour arrêter ces actes.
Sachez que depuis 7 ans la plupart des enfants de Sderot dorment dans le lit de leur parents et qu'ils urinent dans leurs draps tout simplement parce qu'ils ont peur de se lever la nuit.
Sachez que si Israël reste sans rien faire , ce sort sera bientôt celui des enfants de Beer Sheva, d'Ashdod et d'Ashkelon et puis ceux de Bat-yam , Tel-aviv et Netanya,
Sachez que depuis la semaine dernière ces enfants ne vont plus à l'école de peur d'être tues par un tir de mortier ,
Sachez que depuis, les cours sont donnés par l'intermédiaire de la télévision, mais que finalement les enfants ne peuvent pas apprendre parce qu'ils sont tout simplement traumatisés,
Sachez que ces enfants et leurs parents ne veulent pas la guerre. Ils veulent pouvoir retourner à leur quotidien qu'ils ont quitté il y a maintenant 7 ans,
Et surtout, sachez que 30 % des enfants soignés au service oncologique de Tel-aviv (Tel-Hashomer) sont des enfants palestiniens.
Sachez qu'encore aujourd'hui de nombreux blessés palestiniens sont soignés dans les hôpitaux israéliens.
Sachez, qu'en Israël on sait le prix de la paix .
Et sachez enfin que ici pratiquement toute les familles ont envoyé un mari un enfant un père, en sachant que peut être il ne reviendra pas.
Enfin à tous ceux qui osent encore dire que leur lutte contre Israël n'est pas une lutte contre les juifs, arrêtez de vous cacher derrière vos paroles de « paix ».
La paix se fait a deux, la paix ne commence pas par des tirs de mortiers.
Beatrice Coscas-Williams, Avocat
Israel le 6 Janvier 2009
E anche questo video è consigliabile:
http://www.youtube.com/watch?v=83aJj72UjlM&eurl=http://www.jihadwatch.org/archives/024248.php
Cosa deve fare la Chiesa per combattere davvero Hamas
Nessuna persona sensata può immaginare che risuoni in Piazza San Pietro un invito a imbracciare le armi. Ciò non vuol dire che l’invito del Papa a deporre le armi e al dialogo sia rituale. In sintonia con quanto ha scritto Giuliano Ferrara il 5 gennaio, condividiamo il senso morale di quell’invito. Tuttavia, tra il magistero spirituale e la realtà politica vi sono passaggi intermedi complessi che Roberto Formigoni, Mario Mauro e Maurizio Lupi hanno scavalcato affrettatamente in un appello “Politici con il Papa per la Terrasanta” che sostiene possa darsi un’applicazione politica immediata di quel pronunciamento morale.
Da giorni Mario Mauro ammoniva che «se Israele non compie un “sussulto di saggezza” le conseguenze potrebbero essere nefaste», intendendo per sussulto di saggezza l’interruzione immediata dell’intervento militare, un cessate il fuoco permanente e la ripresa del processo di pace.
Ci scusiamo di sottoporre con qualche puntiglio all’esame della logica questi interventi e l’appello: alla fin fine si sta parlando di qualcosa che deve avere uno sbocco concreto, ovvero la fine di morti e violenze. Fuori dalla concretezza saremmo a una forma di elusione che starebbe al senso morale come il diavolo all’acquasanta.
Troviamo apprezzabile la denuncia chiara delle responsabilità di Hamas nell’aver causato questa crisi, della sua natura di movimento che ha come scopo primario la distruzione dello stato di Israele e che tiene in ostaggio la popolazione palestinese rendendo la vita impossibile a quella israeliana. Bene. E allora che fare? Si esclude che abbia senso e utilità qualsiasi tentativo di indurre Hamas alla responsabilità e al dialogo. Viceversa Israele deve evitare l’errore di concludere dalla efferatezza di Hamas che l’unico modo di ottenere sicurezza e convivenza pacifica sia il ricorso alla forza. Tocca a Israele cessare il fuoco allo scopo di riattivare il processo di pace. Con chi? Su questo l’appello non dice nulla, mentre Mauro parla dell’ANP e di Abu Mazen, e si riferisce alle risoluzioni ONU e alle vie indicate dalla presidenza francese dell’Unione Europea.
A parte il fatto che le risoluzioni ONU e le indicazioni europee equivalgono al vuoto pneumatico, non sarebbe male ricordare che proprio il ritiro da Gaza fu pensato come il primo passo di un processo che doveva condurre alla concreta fondazione di uno stato palestinese. Solo che in questo processo si inserì Hamas, che prese il potere con la forza a Gaza e sostituì a quell’obbiettivo il proprio: la guerra santa per la liberazione dell’intera Palestina dall’“entità sionista”. Fu la lungimirante comunità internazionale a consentire a Hamas di partecipare a elezioni. Il suo successo elettorale viene ancora addotto da certi analfabeti della democrazia per dire che il potere di Hamas è legittimo, non rendendosi conto che l’ammettere al voto chi ha un programma eversivo rappresenta già di per sé la morte della democrazia.
Insomma, o perché Hamas è legittimato o perché è troppo malvagio di lui non ci si occupa, ma si invita Israele a ripercorrere “responsabilmente” e con le mani legate dietro la schiena uno scenario già avvenuto, a farsi trafiggere di missili nel silenzio dei tanti che oggi invece trovano il fiato per levarsi col dito alzato.
Ci permettiamo di consigliare rispettosamente agli estensori dell’appello di riscriverlo, lasciando da parte le prediche a Israele, e fissando come unico obbiettivo quello che non si è mai perseguito davvero (e che lo stesso Presidente Sarkozy ha ammesso ieri essere l’unico nodo da affrontare): esercitare ogni pressione su Hamas affinché accetti le regole della convivenza internazionale. Se ciò avesse successo, allora sì che la politica si sarebbe mostrata capace di tradurre il magistero spirituale in un argomento moralmente valido e concretamente capace di indurre Israele a cessare il suo intervento.
(Il Foglio, 7 gennaio 2009)
Da giorni Mario Mauro ammoniva che «se Israele non compie un “sussulto di saggezza” le conseguenze potrebbero essere nefaste», intendendo per sussulto di saggezza l’interruzione immediata dell’intervento militare, un cessate il fuoco permanente e la ripresa del processo di pace.
Ci scusiamo di sottoporre con qualche puntiglio all’esame della logica questi interventi e l’appello: alla fin fine si sta parlando di qualcosa che deve avere uno sbocco concreto, ovvero la fine di morti e violenze. Fuori dalla concretezza saremmo a una forma di elusione che starebbe al senso morale come il diavolo all’acquasanta.
Troviamo apprezzabile la denuncia chiara delle responsabilità di Hamas nell’aver causato questa crisi, della sua natura di movimento che ha come scopo primario la distruzione dello stato di Israele e che tiene in ostaggio la popolazione palestinese rendendo la vita impossibile a quella israeliana. Bene. E allora che fare? Si esclude che abbia senso e utilità qualsiasi tentativo di indurre Hamas alla responsabilità e al dialogo. Viceversa Israele deve evitare l’errore di concludere dalla efferatezza di Hamas che l’unico modo di ottenere sicurezza e convivenza pacifica sia il ricorso alla forza. Tocca a Israele cessare il fuoco allo scopo di riattivare il processo di pace. Con chi? Su questo l’appello non dice nulla, mentre Mauro parla dell’ANP e di Abu Mazen, e si riferisce alle risoluzioni ONU e alle vie indicate dalla presidenza francese dell’Unione Europea.
A parte il fatto che le risoluzioni ONU e le indicazioni europee equivalgono al vuoto pneumatico, non sarebbe male ricordare che proprio il ritiro da Gaza fu pensato come il primo passo di un processo che doveva condurre alla concreta fondazione di uno stato palestinese. Solo che in questo processo si inserì Hamas, che prese il potere con la forza a Gaza e sostituì a quell’obbiettivo il proprio: la guerra santa per la liberazione dell’intera Palestina dall’“entità sionista”. Fu la lungimirante comunità internazionale a consentire a Hamas di partecipare a elezioni. Il suo successo elettorale viene ancora addotto da certi analfabeti della democrazia per dire che il potere di Hamas è legittimo, non rendendosi conto che l’ammettere al voto chi ha un programma eversivo rappresenta già di per sé la morte della democrazia.
Insomma, o perché Hamas è legittimato o perché è troppo malvagio di lui non ci si occupa, ma si invita Israele a ripercorrere “responsabilmente” e con le mani legate dietro la schiena uno scenario già avvenuto, a farsi trafiggere di missili nel silenzio dei tanti che oggi invece trovano il fiato per levarsi col dito alzato.
Ci permettiamo di consigliare rispettosamente agli estensori dell’appello di riscriverlo, lasciando da parte le prediche a Israele, e fissando come unico obbiettivo quello che non si è mai perseguito davvero (e che lo stesso Presidente Sarkozy ha ammesso ieri essere l’unico nodo da affrontare): esercitare ogni pressione su Hamas affinché accetti le regole della convivenza internazionale. Se ciò avesse successo, allora sì che la politica si sarebbe mostrata capace di tradurre il magistero spirituale in un argomento moralmente valido e concretamente capace di indurre Israele a cessare il suo intervento.
(Il Foglio, 7 gennaio 2009)
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